In occasione dei dieci anni dalla scomparsa di Raimon Panikkar, la casa editrice Jaca Book ha pubblicato un elegante libro illustrato dal titolo L’arte del simbolo, che raccoglie alcuni testi già contenuti dei vari volumi dell’Opera Omnia, edita dalla stessa Jaca Book. Curatrice, di questo libro come dell’Opera Omnia, Milena Carrara Pavan.
A titolo di commento, sia consentita una breve riflessione sul concetto di simbolo in Panikkar. Anziché citare l’autore, preferisco ricostruire con altri mezzi la direzione di pensiero che suggerisce.
È innanzitutto ovvio che il simbolo abbia un ruolo centrale nei suoi testi e nella sua stessa vita, riferendosi a qualcosa che è centrale nel fenomeno religioso. Si tratta naturalmente di distinguerlo dal segno, perché quest’ultimo è convenzionale, cioè valido entro l’orizzonte semantico di una certa cultura, mentre il simbolo ben di più: una sorta di condizione ultima, non riducibile ad altro, da cui quell’orizzonte è dischiuso. Si potrebbe cioè dire che un simbolo non è un elemento interno a una cultura, bensì ciò da cui quella cultura scaturisce.
Verrebbe da confrontare il simbolo, come lo intende Panikkar, con l’archetipo in Jung; tanto più che in talune occasioni è Panikkar stesso a parlare di archetipo. Le due nozioni sono in qualche misura sovrapponibili, perché alludono a una sorta di ordito entro cui le vicende umane trovano posto. Cioè di volta in volta gli individui e le collettività danno vita sulla scena storica e sociale a strutture profonde di cui sono portatori, ancorché inconsapevoli, che ne plasmano i pensieri e i comportamenti. Se non che una differenza forse c’è.
Verrebbe da dire che gli archetipi in Jung assurgono al ruolo di realtà metafisica soggiacente all’esperienza comune, da cui quest’ultima è indirizzata; laddove la nozione di inconscio collettivo è in modo abbastanza esplicito la rivisitazione in termini moderni di ciò che tradizionalmente è la sfera spirituale, intesa come un piano retrostante a quello degli eventi manifesti. E, per quanto una simile lettura sia oggi messa in discussione da approcci che gettano luce su una maggior complessità della questione, si è indotti dunque a vedere in Jung un dualismo che comunque non c’è in Panikkar. In quest’ultimo infatti il simbolo non è mai a priori rispetto alle vicende umane, che in una certa misura davvero contribuiscono a plasmarlo; eppure al tempo stesso non è riducibile ad esse e mantiene una certa autonomia che gli consente di manifestarvisi e ispirarle.
Se si considerano i grandi modelli di pensiero a cui i due autori più o meno consapevolmente si riferiscono, viene comunque da riconoscere in Jung l’impronta di un platonismo mai scomparso nella cultura occidentale; mentre in Panikkar c’è sicuramente altro. Si può con certezza indicare l’Advaita, cioè il pensiero non dualistico dell’India, o la Via di Mezzo buddhista; oppure anche la Trinità cristiana, reinterpretata nella visione cosmoteandrica. Il simbolo non è insomma interamente opera della convenzione umana, ma neppure entità altra da cui gli uomini sono mossi, perché la realtà è complessa e non riducibile a nessuna delle due prospettive.
Più precisamente la realtà è triadica: vi è la sfera umana, quella divina e quella cosmica. Ciascuna si relaziona con ciascun’altra, per un’intera epoca può prevalere sulle altre ma non le annulla mai del tutto. E il simbolo si trova all’intersezione delle tre dimensioni, e le tiene insieme. Non a caso “simbolo” vuoi dire unione. È espressione quindi dell’umano, manifestazione del divino, rappresentazione del cosmico.
Ne può scaturire una chiave di lettura per il fenomeno religioso in quanto tale. E non a caso “religione” vuol dire legame.