Pensiero espressivo e pensiero rivelativo

pareyson 2Considerazione storicistica e discussione speculativa.

Uno dei luoghi comuni più diffusi nella cultura odierna è una concezione genericamente ma integralmente storicistica, per la quale ogni epoca ha la sua filosofia, e il significato d’un pensiero filosofico risiede nella sua aderenza al proprio tempo. Non si tratta più dello storicismo classico, che, interpretando la storia come progressiva manifestazione della verità, e quindi le filosofie particolari come gradi di sviluppo della verità totale, finiva per conferire un significato speculativo alla stessa corrispondenza d’una filosofia alla sua situazione storica. Si tratta invece d’uno storicismo integrale, che nega alla filosofia quel valore di verità cui esso sembra ambire per la stessa natura del suo pensiero, e non le riconosce altro valore che d’essere espressione del proprio tempo.
Questo tipo di storicismo, più che da una rigorosa formulazione concettuale, trae la propria forza dall’essere oggi la mentalità imperante e il criterio più o meno consapevole delle valutazioni correnti di gran parte degli uomini di cultura, cioè un vero e proprio idolum theatri. Io credo ch’esso non sia né da accettare né da ripudiare totalmente: bisogna piuttosto trovare il limite entro il quale è giusto applicarlo e oltre il quale è necessario respingerlo. La discriminazione è insita, a parer mio, nella stessa realtà storica del pensiero filosofico. Vi sono filosofie che, per quanto ambiscano, con la loro pretesa di formulazione universale, a conseguire un valore di verità, non riescono ad altro che ad esprimere il loro tempo. Con esse una discussione speculativa è inutile e inopportuna: l’unica valutazione cui si prestano è il riscontro dell’aderenza del loro pensiero alla situazione storica. Qui la funzione critica del metodo storicistico si rivela positiva e proficua: un profondo bisogno di sincerità induce a scorgere nelle loro affermazioni teoriche nient’altro che una vana pretesa, o un’inconsapevole illusione, o un equivoco mascheramento; e un vivo senso storico sa restituire a questo pensiero, così radicalmente svuotato di verità, un significato, ravvisandolo nella sua capacità di esprimere il proprio tempo. Ma vi sono filosofie che nell’atto di esprimere il proprio tempo sono anche e soprattutto una rivelazione della verità: ad esse il metodo storicistico, inteso in quella maniera, non si può applicare se non a patto di travisarle completamente nella loro natura, la quale richiede invece, dopo un’opportuna collocazione storica, una discussione schiettamente speculativa.
Considerazione storicistica e discussione speculativa non devono dunque intendersi come due modi diversi di fare la storia del pensiero filosofico: non si tratta di due metodi esclusivi che si contendano l’intera storia della filosofia, ma di due metodi coesistenti che hanno il compito di dividersela. Realmente vi sono filosofie che sono, per così dire, soltanto «espressive» e filosofie che sono soprattutto «rivelative»: solo le prime devono essere sottoposte alla storicizzazione a cui le chiama il metodo storicistico, e non basta tutta la loro apparenza o la loro pretesa di verità per innalzarle al merito d’una discussione filosofica; e solo le seconde assurgono a questo livello, di meritare e insieme suscitare una discussione speculativa, e non basta il lato «espressivo» che inevitabilmente va congiunto con la loro portata rivelativa a legittimarne una critica storicistica, intesa a svuotarle della verità e a misurarle col semplice metro dell’aderenza alla situazione storica.
Giova dunque approfondire la differenza tra il pensiero ch’è mero prodotto storico e il pensiero che manifesta la verità, senza dimenticare che questa distinzione non riguarda soltanto la filosofia, ma costituisce un dilemma di fronte al quale l’uomo si trova in ciascuna delle sue attività: l’uomo deve scegliere se essere storia o avere storia, se identificarsi con la propria situazione o farne un tramite per attingere l’origine, se rinunciare alla verità o darne una rivelazione irripetibile. Ciò dipende dal modo con cui l’uomo liberamente – e non mi fermo qui a indagare la specialissima natura di questa libertà originaria in cui risiede non solo l’essere dell’uomo, ma lo stesso suo rapporto con l’essere – dal modo dunque con cui l’uomo liberamente prospetta la propria situazione. Egli può prospettarla come collocazione soltanto storica o come collocazione innanzitutto metafisica, come semplice confine dell’esistenza o come apertura all’essere, come limitazione inevitabile e fatale o come via d’accesso alla verità: da quest’alternativa deriva alla persona la possibilità di ridursi a mero prodotto storico o farsi prospettiva vivente sulla verità, e al pensiero la possibilità d’essere una semplice espressione del tempo o una rivelazione personale del vero.

Espressione del tempo e rivelazione della verità. 

Il pensiero rivelativo è sempre insieme espressivo, perché la verità non si offre se non all’interno d’ogni singola prospettiva: la verità è accessibile solo mediante un insostituibile rapporto personale e formulabile solo attraverso la personale via d’accesso ad essa. Il pensiero che muove da questa solidarietà originaria di persona e verità è al tempo stesso ontologico e personale, e quindi insieme rivelativo ed espressivo, cioè esprime la persona nell’atto i rivelare la verità e rivela la verità nella misura in cui esprime la persona, senza che l’uno dei due aspetti prevalga sull’altro. Possiamo sovrapporre noi stessi alla verità, ma allora la verità è oscurata anzi che rivelata, e il tempo si trasforma in uno schermo opaco e impenetrabile, e noi diventiamo incomprensibili a noi stessi. Si può credere di scoprire la verità prescindendo da noi stessi e dalla nostra situazione, ma allora la verità dilegua, perché non abbiamo saputo adoperare l’unico organo di cui disponiamo per coglierla, cioè la nostra stessa persona.
La situazione storica, lungi dall’essere un ostacolo alla conoscenza della verità, quasi che potesse deformarla storicizzandola e moltiplicandola, ne è l’unico veicolo, purché si sappia recuperarne l’originaria apertura ontologica: allora l’intera persona, nella sua singolarità, diventa organo rivelatore, il quale, lungi dal volersi sovrapporre alla verità, la coglie nella propria prospettiva, e quindi ne moltiplica la formulazione nell’atto stesso che la lascia unica. Il pensiero rivelativo attesta in tal modo la propria pienezza: ancorato all’essere e radicato nella verità, esso ne deriva direttamente i propri contenuti e il proprio significato, e la situazione si fa via d’accesso alla verità solo in quanto vi diventa sostanza storica della persona.
Nel pensiero rivelativo accade così che per un verso tutti dicono la stessa cosa e per l’altro ciascuno dice un’unica cosa: tutti dicono la stessa cosa, cioè la verità, che non può essere che unica e identica, e ciascuno dice un’unica cosa, cioè dice la verità nel proprio modo, nel modo che solum è  suo; ed è vero pensatore colui che non solo dice la verità unica, la quale nella sua infinità può bene accomunare tutte le prospettive per diverse che siano, ma anche insiste per tutta la vita a dire e ripetere quell’unica cosa ch’è la sua interpretazione della verità, perché quella continua ripetizione è il segno ch’egli, lungi dal limitarsi ad esprimere il tempo, ha attinto la verità.
La verità è dunque unica e intemporale all’interno delle molteplici e storiche formulazioni che se ne danno; ma una tale unicità che non si lascia compromettere dalla moltiplicazione delle prospettive non può essere che un’infinità che tutte le stimola e le alimenta senza lasciarsi esaurire da alcuna di esse e senza privilegiarne nessuna; il che significa che nel pensiero rivelativo la verità risiede più come sorgente e origine che come oggetto di scoperta. Come non può essere rivelazione della verità quella che non è personale, così non può essere verità quella che non è personale, così non può essere verità quella che non è colta come inesauribile. Solo come inesauribile la verità si affida ala parola che la rivela, conferendole una profondità che non si lascia mai esplicitare completamente né interamente chiarire.

Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1972, pp. 15-18

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