Individuo, famiglia e comunità in una prospettiva non consumistica
Il titolo che mi è stato affidato si presenta immediatamente come un ossimoro palese: l’economia oggi è universalmente intesa come massimizzazione del profitto, la sobrietà propone invece stili di vita caratterizzati dalla moderazione. Non si riesce a immaginare come la sobrietà possa servire qualcosa all’economia. Anzi: siamo immersi in una crisi economica drammatica, per risolvere la quale ci si augura un rilancio dei consumi (che la nostra cultura conosce quasi esclusivamente nella forma del“consumismo”). La sobrietà è quindi considerata quasi sinonimo di povertà, indica mancanza, veicola immagini e sensazioni di depressione e inferiorità. È guardata con sospetto o con senso di commiserazione. La si teme come un rischio più che ritenerla un’indicazione praticabile e sensata.
Davvero invece la sobrietà può essere considerata come un motore economico in tempi di crisi? In che senso?
La risposta deve evitare ogni caduta ideologica e preconcetta; neppure deve fare riferimento genericamente a valori astratti e a proposte inconcludenti. Servono indicazioni concrete, ben motivate e argomentate, convalidate dall’esempio di buone pratiche.
Può essere utile partire dal riferimento enologico della sobrietà. Sobrio si oppone a ebbro: colui, colei che è preda del vino, che perde il controllo di sé e l’uso della ragione a motivo dell’alcol.
Le comunità terapeutiche, dalle quali traggo l’esperienza all’origine di questa riflessione, trattano la dipendenza prodotta nell’organismo e nella psiche dalle sostanze che inducono una modificazione artificiale dello stato mentale. La cura proposta, pur non disdegnando eventuali farmaci, privilegia la vita comunitaria possibilmente accompagnata da un sano recupero dei legami familiari, spesso devastati dalla condizione di vita prodotta dalle dipendenze. Le marginalità sociali (la malattia mentale o l’alcolismo) sono patologie o sofferenze mentali curate anche con la sobrietà che si sviluppa in un percorso terapeutico ed educativo che dall’individuo va alla sua famiglia, attraverso la comunità.
Legami familiari e comunitari condividono un medesimo codice: l’amore. Costitutivo dell’amore è la gratuità che si sviluppa nel dono. L’amore infatti non sopporta alcuna forma di interesse, non è compatibile con la tipica forma dello scambio economico: “ti do per avere”. Questo però non comporta che l’amore nulla c’entri con l‘economia.
Il percorso riabilitativo che si pratica nella comunità (simile al percorso educativo che avviene in famiglia) consiste quindi nella massimizzazione del dono opposta alla massimizzazione del profitto tipica dell’attuale economia. Le famiglie senza economia non possono sopravvivere. L’economia ritiene invece di non avere alcun bisogno del codice dell’amore che relega alle scelte individuali o, al più, ai mondi vitali del privato. Il crollo che ha originato l’attuale crisi economica nasce esattamente da questa drammatica dimenticanza. Il rimedio richiede dunque di correggere l’errore, rovesciandone la prospettiva e la dinamica.
L’amore agisce secondo la forma della gratuità; esclude il calcolo. Per la mente calcolatrice del “do tu des”, ciò che è fatto per amore non può che apparire “spreco”. L’amore genitoriale, erotico, amicale genera continue esperienze di gratuità e di dono. Chi lo esercita può nutrire delle attese ma sa che, in quanto ama, non può avere “pretese”. Rinuncia al tornaconto, non compie il dono in vista del controdono.
L’amore è dunque spreco. Cifra evidente del dono come “spreco”, per il credente, è l’amore di Dio. Un semplice sguardo ammirato al cielo stellato trasmette immediatamente al credente la grandiosità dell’amore divino: l’universo, specchio di Dio, espressione della sua tenerezza (più che della sua potenza) è uno “smisurato” sperpero di energia, un “insensato” consumo di risorse, uno “sregolato” dispiegamento di forza. L’osservatore (scienziato, poeta, mistico, persona dal cuore semplice) non può che provarne un’intima e assoluta ebbrezza davanti allo spettacolo dell’infinito “spreco”, fino ad avvertire che “il naufragar m'è dolce in questo mare” (Infinito, G. Leopardi).
Quando dunque la sobrietà è espressione d’amore, essa è motore dell’economia, in quanto partecipa dell’irriducibile “spreco” che l’amore opera. Manifestazione di questo “spreco” è l’economia che nasce dal dono e si alimenta del dono. Chi ama consuma, spende, fa circolare denaro. C’è un’economia di tutto rispetto a partire dalla gratuità. Un oratorio, un’associazione, un’impresa sociale sono nate e vivono grazie alla gratuità, ma sono anche imprese economiche. Non ci sono quindi dubbi circa il titolo che mi è stato affidato: la sobrietà è un motore dell’economia. Lo accende, lo mantiene, lo guida su una strada affidabile. Soprattutto non lo sfrutta fino allo sfinimento per ottenere il massimo (che poi si rovescia nel nulla della crisi).
L’amore produce consumo, almeno quanto la società “liquida” (quella dell’amore insicuro e inconsistente) genera consumismo. Essenziale per l’amore è consumare. Quando le cose a disposizione diminuiscono oltre una certa misura si diventa miseri, ma quando non si consumano si diventa infelici.
Nell’amore infatti le cose diventano degli “intermediari”. Esse non sono cercate per sé (come nel consumismo) ma come segni efficaci dell’incontro con l’altro: i partner provvedono gli uni alle necessità materiali degli altri, i genitori si premurano di dare risposta ai bisogni dei figli, gli amici si scambiano regali, le donne e gli uomini nella cittadinanza attiva come nel servizio volontario creano progetti, inventano imprese, partecipano a bandi, generano cooperative e consorzi. Nell’amore le cose non sono più solo cose, diventano“sacramenti”. Chi ama non si ferma alla persone, estende il suo affetto e la sua premura anche alle cose. Lo insegna, per esempio, la liturgia, massima espressione d’amore. Chi celebra si inchina davanti alle cose, fino a chiamarle “sorelle” (Francesco D’Assisi). Anche le cose sono “mistero”. Non sono mero oggetto, non si riducono a "possesso": sono più di quanto appare. Sono preziose e indispensabili perché non si può vivere senza di esse.
Nella tradizione biblica è l'uomo che dà il nome le cose. Nel mondo della ricchezza sono le cose che danno il nome all'uomo: la persona è riconosciuta per le cose che possiede. La nostra epoca ha conosciuto la forza disumanizzante della ricchezza, l'avere che spegne l'essere, il benessere dove l'inutile diventa il tutto, la ricchezza come criterio di vita e mentalità che tutti accomuna con il suo carico di violenza, di arroganza, spreco e disprezzo delle cose e delle persone.
La nostra energia deriva dalle cose. Noi non siamo nulla senza le cose. Noi siamo creature: avere è condizione per il soddisfacimento del nostro bisogno, è garanzia della nostra sopravvivenza e della nostra dignità.
La sobrietà è il rapporto con le cose che scaturisce dal cuore e dalla mente di colui che ama appassionatamente il mondo ma ne considera anche la miseria, di colui che riflette sul miracolo della vita ma anche sul suo disfacimento, sulla sua grandezza e sulla sua miseria.
La sobrietà è quindi il cammino di vita di chi, nella scelta dell'essenziale, nella rinuncia di ciò che è vano, si avvia ad una nuova esperienza dell'avere e dell'essere, che s’immerge in un paradosso virtuoso: la sobrietà si trasforma in ricchezza e gioiosa pienezza di tutto ciò che è umano e vitale.
Accogliendo la beatitudine della povertà si può diventare oggi coscienza critica della società del fare, della forza irresistibile del potere remunerativo che governa bisogni e desideri, della "soffocante tristezza di un mondo ordinato sull'idea di funzione"(G. Marcel), dove si lavora e si consuma “disperatamente” per non cadere in preda al vuoto.
Per la persona sobria nulla è banale, tutto vale, tutto è grazia, tutte le cose sono piene di senso. Dalla sobrietà non deriva quindi il disprezzo ma l’amore appassionato per il valore e la bellezza di tutte le cose, coscienza piena della loro preziosità ed essenzialità. Se ne vive un certo distacco dalle cose, non è per disistima o, peggio, per sentimento di sufficienza, ma per ritrovarne il senso, per recuperarne il rispetto e la riverenza, come davanti ad una vera esperienza del sacro. È quanto indicato nel significato autentico ed originale del "sacrificio", inteso come "sacrum‑facere" (rendere sacro).
Se le cose allo sguardo della persona sobria sono “sacre”, lo è anche il denaro (in senso opposto all’idolatria) ma, all’opposto, per la responsabilità che la sua gestione (il lavoro e il consumo) richiede. Il denaro è “poca cosa” messo a confronto con l’amore, la pace, la fedeltà (tutti valori che non si possono comperare ma dal cui possesso dipende la qualità della vita). “Chi è fedele nelle cose minime, è fedele anche nelle grandi; e chi è ingiusto nelle cose minime, è ingiusto anche nelle grandi.” (Lc. 16,10). C’è una superficialità nello spendere che è sacrilega, c’è un’insipienza nell’amministrare il denaro che è disprezzo del valore delle cose. Chi si propone di vivere nella sobrietà sa di dover occuparsi con intelligenza del denaro. La sobrietà è convinta assunzione della responsabilità dell’economia. Non sopporta la corruzione, ammira l’onesta, crea legami di fiducia: condizioni essenziali per una sana economia.
La sobrietà, espressione dell’amore e della sua gratuità, può quindi accompagnare tutto il processo produttivo umanizzandolo. La prospettiva proposta dall’enciclica “Caritas in veritate”sviluppa in modo esplicito e coraggioso questa esigenza: “La città dell'uomo non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione”. (n. 6)
La persona umana è fatta per il dono: come dono riceve la vita, nel dono trova senso la sua esistenza, nel dono trascende se stesso. Il mercato ha bisogno di questa trascendenza. Ha bisogno di avere un fine umano e non solo uno scopo monetario “Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità. (…) Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave. (34,35).
Rimanendo nella metafora meccanica si può intendere l’apporto della sobrietà come l’olio nel motore: evita che si surriscaldi e si autodistrugga. “La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un'esigenza dell'uomo nel momento attuale, ma anche un'esigenza della stessa ragione economica” (36).
La sobrietà oggi ha quindi un doppio riferimento: come etica indica il giusto atteggiamento davanti alle cose, come sociopolitica considera l’economia come “attività umana” (e non solo come pratica del profitto) e, di conseguenza, coltiva l’atteggiamento umile e non arrogante verso le risorse disponibili che sono limitate. “Nell'epoca della globalizzazione, l'attività economica non può prescindere dalla gratuità, che dissemina e alimenta la solidarietà e la responsabilità per la giustizia e il bene comune nei suoi vari soggetti e attori. Si tratta, in definitiva, di una forma concreta e profonda di democrazia economica”. (38)
L’economia capitalistica e consumista non riesce a vedere l’apporto della gratuità e della sobrietà: lo bolla immediatamente come ingenua utopia o indebita interferenza. Al massimo può elargire qualcosa delle eccedenze accumulate, a titolo di liberalità ma mai potrebbe ammettere che il ciclo produttivo possa essere pensato e realizzato in altro modo che come massimizzazione del profitto, perché tale è il “codice” dell’economia (capitalistica).
La sobrietà, invece, si sviluppa a partire da un altro valore: l’amore. Promuove la capacità di amare gli altri e se stessi, gli altri come se stessi, e quindi di amare la vita. La sobrietà è la virtù che abilita a creare e moltiplicare rapporti costruttivi verso sé e verso il mondo a partire dall’amore. Non nega il codice dell’economia (riconosce i vincoli del profitto) ma lo mitiga e lo umanizza. Vi introduce la dimensione essenziale della “verità”, cioè la distinzione tra i bisogni reali e quelli imposti dalla società del controllo.
Senza verità, senza fiducia e passione per il vero, non si sviluppano la coscienza critica e la responsabilità sociale; l'agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione.