La 'poesia continua' di David Maria Turoldo

Ermis Segatti

 

Tra i proclamatori di Gesù è senza dubbio da annoverare David Maria Turoldo. Di lui fu detto che aveva una sola e costante ispirazione: la fede o quella che egli stesso chiama ‘mania divina’ (Canti Ultimi, Garzanti, Milano 1991, p. 151). Perciò alcuni lo ritengono non indebitamente il poeta e lo scrittore per eccellenza della religione proclamata sui tetti della società secolare.

Ma questa affermazione non deve trarre in inganno semplificando un profilo di scrittore che fu costantemente contrassegnato anche dal tormento del dubbio e dalle inquietudini della coscienza di fronte a Dio, tanto che egli potrebbe figurare opportunamente tra i cantori del Deus absconditus, come affiora in particolare nei suoi Canti Ultimi, ma non solo. Si veda, ad esempio, questa preghiera che irrompe improvvisa a commento della prima lettura della XXV Domenica del Tempo ordinario (anno A): “Dio, sei il mio respiro / e non so chi tu sia: / lo dica qualcuno, dica almeno / cosa è il respiro. // Dio, ho paura perfino di urtarti / tanto mi sei vicino: / e non dove tu sia, / dove incontrarti. // Dio, ho paura e ti amo / perché mi salvi da ogni paura: / Dio, mia pace, mia gioia... / E mia terribile notte. // Dio vicino assente lontano: / io ti parlo e tu muto come lapide bianca, / o infinito silenzio. // Eppure solo tu sai / il numero dei miei capelli / e il numero dei giorni miei : tu solo! / Ma chi sei?, Signore, Chi sei?” (Opere e giorni del Signore, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1989p. 490).

In Anche Dio è infelice (Piemme, Casale Monferrato 1992), scritto due anni prima della morte, si legge tra l’altro: “E’ il silenzio la parte più grande di tutto il mistero di Cristo. Il silenzio di Dio; il silenzio della creazione; e della notte: Il silenzio dei tabernacoli. Silenzio, grembo dei mondi... E poi: come dire Dio e che cosa dire? Dio che tace non è già un annuncio? Tanto più che è difficile dire se Dio sia un suono oppure il silenzio ... Di contro non stanno che le nostre parole sfocate; i nostri discorsi inutili e interminabili; e tutti uguali, questo gran dire, che poi non muta nulla, non trasforma, non fa soffrire nessuno.... Io penso veramente che Cristo abbia sofferto di più nel decidersi a parlare che nell’accettare la passione. Articolare un mistero dentro sillabe; dare un suono al silenzio; creare un’immagine a ciò che è al di là di ogni immagine: questa la grande impresa di Gesù” (pp. 21-24

Questi motivi trovano il loro punto culminante sia autobiografico (nella lucida consapevolezza della morte imminente) sia lirico lungo le poesie raccolte nella sezione centrale dei Canti Ultimi, una sequenza di brevi componimenti sulla passione di Gesù, nella quale il poeta - in un processo di progressiva immedesimazione - comunica il tormento della sua condizione terminale e della sua travagliata ricerca religiosa. Questi versi sono tra i più alti e rappresentativi della poesia di David Maria Turoldo.

Egli parte da una dolorosa constatazione: dalla creazione in poi Dio ha scelto il silenzio, ha deciso di oscurare l’ onnipotenza di fronte al dolore del mondo: “... ogni creatura / ti muore tra le mani, / nel mentre che si forma / e fiorisce ... // ... tue gesta sono / il filo d’erba sulle macerie / il raggio d’una stella da millenni / già spenta e le perle / di rugiada nel prato all’alba. E’ in questo ampio scenario cosmico che si inserisce organicamente la sequenza di brevi e serrati componimenti sulla passione di Gesù: “E pure il tuo figlio / il divino tuo figlio, il figlio / che ti incarna, l’amato / unico figlio uguale / a nessuno, anche lui / ha gridato / alto sul mondo: / ‘Perché ... ?’ / Era l’urlo degli oceani / l’urlo dell’animale ferito / l’urlo del ventre squarciato / della partoriente / urlo della stessa morte: / ‘perché?’ / E tu non puoi rispondere / non puoi.... / Condizionata onnipotenza sei! / pretendere altro è vano. // T’invocava con tenerissimo nome: / la faccia a terra / e sassi e terra bagnati / da gocce di sangue: / le mani stringevano zolle / di erba e fango: / ripeteva la preghiera del mondo: / ‘Padre, abbà, se possibile’ ... / Solo un ramo d’olivo / dondolava sopra il suo capo / a un silenzioso vento ... // Ma non una spina Tu / gli levasti dalla corona. / Trafitto anche il pensiero: / non può , non può lassù / il pensiero non sanguinare! / Oh, le ferite della mente! // E non una mano / gli schiodasti dal legno: / che si tergesse / dagli occhi il sangue / e gli fosse dato / di vedere / almeno la Madre / là / sola ... // Perfino potenti / e maestri di ferocia / e gente, al vederlo / si coprivan la faccia. ./ E lui a fluttuare / dentro una nuvola: / dentro / la nuvola del divino / Nulla! / E dopo / solo dopo / Tu e noi / a ridargli la vita.// No, credere a Pasqua non è / giusta fede: / troppo bello sei a Pasqua! / Fede vera / è al venerdì santo / quando Tu non c’eri / lassù! / Quando non una eco / risponde / al tuo alto grido / e a stento il Nulla / dà forma / alla tua assenza”

La parola poetica su Dio e su Gesù di David Maria Turoldo è pressoché sterminata e prorompe spesso all’interno della produzione in prosa, come del resto si sprigionava improvvisa nella sua comunicazione orale. Una delle imprese maggiori è la consegna in versi delle preghiere alla liturgia festiva (Opere e giorni del Signore), oltre al costante esercizio poetico sui Salmi, da lui splendidamente tradotti in collaborazione con G. Ravasi (I Salmi. ‘Lungo i fiumi...’). In queste opere egli dimostra una attenta percezione delle esigenze corali della preghiera comunitaria, a cui dedicò una parte notevole del suo impegno pastorale e della sua riflessione religiosa. Tra i vari momenti di irruzione poetica intercalati alla traduzione dei salmi, affiora questo commento al versetto 5 del salmo 26 (25) ‘In acqua purissima lavo le mani’, commento che presuppone il contesto liturgico dell’Offertorio, recitato in latino nella celebrazione della Messa secondo il rito romano prima della riforma  del Concilio Vaticano II: “Mi sorprendono queste mani / protese in favolosi spazi; / costellazione di ori e di sangue. / Brilla la croce uguale a una spada / e la terra è tutta una ferita, / una montagna di marmo è l’altare / e la chiesa vuota, immensa. / Io ho gridato l’augurio al popolo / ma risposta nessuna è venuta / a sostegno del mio ardimento / assurdo: l’eco dei passi e la voce / infranta sotto gli archi muti … / Ora, dunque, la parola alle mani / che tracciano gesti indicibili”.

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