La misericordia nella pastorale e il matrimonio. Chiesa Cattolica e divorziati risposati

matrimonioLa storia del rapporto che la Chiesa cattolica ha avuto con tutta la problematica del fallimento matrimoniale è spesso letta come una storia di difesa eroica dell’assoluta indissolubilità matrimoniale. Forse, in alcuni momenti può essere stato così, ma non lo è stato sempre.

Essa può essere letta infatti anche in un altro modo, cioè come il tentativo costante di andare incontro alla concreta e difficile realtà della vita matrimoniale salvaguardando l’indissolubilità evangelica. Un tentativo assai difficile nel contesto latino di comprensione dell’indissolubilità.

La tradizione latina, infatti, -a differenza di quella greca-  fino alla metà del secolo XX ha recepito l’interpretazione delle eccezioni matteane proposta da S. Girolamo, ovvero che il Signore Gesù ammette la separazione o rinvio della donna colpevole ma non le nuove nozze. Dunque, per il Signore anche nel caso di porneia una nuova unione sarebbe esclusa.

Questa interpretazione ha avuto effetti decisivi su tutta l’evoluzione latina giacché ha portato a cercare vie di confronto con il fallimento familiare compatibili con essa.

Un breve richiamo storico può essere opportuno. Nell’Occidente latino, ove dopo la caduta dell’Impero si formano gli stati barbarici cristiani (con le loro varie consuetudini nuziali, includenti sempre anche il divorzio) e si attivano poi lentamente processi di progressiva unificazione –ecclesiastica e imperiale (sacro Romano Impero) -, la Chiesa interviene sempre più nella vita matrimoniale cercando di mettere in essa un qualche ordine canonico fondato sulla concezione evangelica del matrimonio come monogamia indissolubile.

L’ampliamento dell’intervento ecclesiastico sulla materia matrimoniale porta allo sviluppo della trattazione canonistica di essa. Innumerevoli sono le questioni che devono essere affrontate: la definizione del matrimonio, la determinazione del momento costituivo del matrimonio (con la sintesi tra posizione romana [consensus facit nuptias] e posizione germanica [coitus facit nuptias]), la fissazione dei criteri di validità del consenso (con la connessa e sterminata questione degli impedimenti matrimoniali), la questione degli sponsali e del loro valore, le possibili soluzioni del vincolo, il passaggio dalla vita coniugale a quella religiosa, il problema della presunzione di morte ecc.

Lo sviluppo canonistico si interseca intorno ai secoli X-XI con la crescita della comprensione sacramentale e scolastica del matrimonio. In tali secoli infatti si sviluppa la dottrina sacramentaria (concezione causale della grazia e settenario sacramentale, il rapporto tra materia e forma, il ministro) che include il matrimonio. Il sacramento del matrimonio viene intimamente congiunto con la comprensione canonica perché si vede sempre più il consenso coniugale come il momento generativo insieme del contratto matrimoniale e del sacramento del matrimonio: i coniugi con l’unico consenso si fanno ministri dell’unione naturale e sacramentale.  

È all’interno di questo orizzonte canonistico e sacramentale che si cercano vie per fare fronte in qualche possibile misura al fallimento o insuccesso matrimoniale.

Una via è quella che utilizza le opportunità offerte dal diritto canonico. Ad es. un matrimonio fallito può non essere suscettibile di divorzio ma se si può mostrare che è stato contratto in condizioni di nullità perché i nubendi erano soggetti a impedimenti che ne impedivano il valido matrimonio l’effetto divisivo (con possibilità di nuove nozze) è ugualmente reale.

Un’altra via è quella offerta da alcuni passi della Scrittura stessa. Ad es. si prende in considerazione quella soluzione paolina (1 Cor 7) detta poi privilegio paolino.

Ma anche la comprensione sacramentale del matrimonio offre alcune possibilità, specialmente là dove consente la distinzione tra matrimonio valido (valido consenso) e matrimonio valido e consumato:  si apre all’autorità ecclesiastica (papale)  la possibilità di sciogliere un matrimonio non consumato nel caso di ingresso in religione.

C’è un passo di Gabriel Le Bras  che illumina assai chiaramente questo passaggio storico:

L’originalità maggiore del cristianesimo è l’indissolubilità quasi senza riserva. Tutte le eccezioni ammesse in alcuni paesi, in particolare presso gli Anglo-Sassoni, durante il primo millennio, sono state scartate nel diritto classico. L’inciso di Matteo: nisi causa fornicationis è interpretato come una semplice causa di rinvio. In un solo caso il matrimonio consumato può essere rotto: quando uno sposo pagano rende impossibile la vita al coniuge diventato cristiano. Il matrimonio non consumato si dissolve per l’ingresso in religione di un coniuge e per la dispensa pontificia, teoria che appare all’inizio del secolo X. Ciascuno di questi punti merita la nostra attenzione. La rottura del matrimonio legittimo, concluso tra pagani e consumato, è dunque lecita nel caso in cui uno sposo si converte mentre l’altro rimane pagano e gli rende la vita insopportabile, malgrado ripetute intimazioni, per disprezzo del Creatore. Quanto allo scioglimento per ingresso in religione la Genesi la giustifica perché non si è ancora realizzata la unitas carnis. Dopo la consumazione i due sposi possono, d’accordo tra loro, entrare in monastero (conversio conjugatorum) ma sussiste tra loro un matrimonio spirituale. Alano di Galles affermava che, poiché il matrimonio non consumato deve la sua stabilità solo al diritto positivo, il papa (e solo lui) può romperlo attraverso la dispensa: origine di una pratica della quale si troveranno esempi assai più tardi[1].

            

Sottolineo questo punto: la Chiesa tenta di far fronte alla inevitabile ‘contingenza’ del matrimonio attraverso i mezzi compatibili con la percezione che ha del matrimonio evangelico.

Tali mezzi, ovvero le vie che abbiamo tracciate, nascono o si fissano in questi secoli ma poi si sviluppano nei secoli successivi seguendo l’evoluzione della teologia e della disciplina canonica.

La via canonica così si sviluppa considerevolmente in combinazione con lo formazione della dottrina morale dell’atto umano, per cui solo l’atto che nasce da volontà deliberata configura la responsabilità morale e solo con esso si esprime adeguatamente la voluntas nuptialis del nubendo. Ogni imperfezione della conoscenza e della libertà può avere effetti sulla consistenza originaria ovvero sulla validità del consenso. Successivamente, l’introduzione  tridentina della forma canonica per la celebrazione valida del matrimonio –disposizioni normative che continuano sostanzialmente fino ad oggi- ha aperto nuove opportunità canoniche di individuazione della nullità originaria del matrimonio.

La via del potere del Romano Pontefice ha avuto anch’essa un’evoluzione sia riguardo al privilegio paolino che è stato in qualche modo ampliato nel privilegio petrino, sempre basato sul principio del favor fidei [2], sia riguardo all’estensione della casistica dell’intervento pontificio sul rato e consumato. Progressivamente infatti è diventato centrale l’aspetto della non consumazione più che l’aspetto della motivazione; se all’inizio la motivazione era fondamentale (ingresso in religione) successivamente diventa fondamentale la non consumazione e la valutazione pastorale da parte del Romano Pontefice del bonum animarum.   

Queste vie consentono in qualche modo –nel corso del secondo millennio, fino alla permanenza della società rurale tradizionale- di fare fronte ai problemi dei fallimenti matrimoniali nei paesi che rimangono cattolici anche dopo l’irrompere della Riforma protestante nel XVI secolo. La riforma infatti recupera l’interpretazione orientale delle eccezioni matteane e ammette casi di divorzio con possibilità di nuove nozze.

Quello del divorzio con  possibilità di nuove nozze è un problema che in questi secoli non si dà nei paesi cattolici. Certamente là dove agisce anche la Riforma l’esperienza del divorzio non è sconosciuta. Tuttavia l’universo cattolico non conosce una significativa presenza del divorzio ed ancor meno di cattolici divorziati risposati.

È dopo la rivoluzione francese e in particolare dopo la promulgazione del Codice civile dei francesi (1804), detto poi napoleonico, che le cose cominciano a cambiare. Questo codice, come si sa, che si ispira anche alla legislazione romana imperiale (Corpus iuris civilis), diventa il modello dei codici civili europei: esso apre al divorzio per colpa (la prima causa ricordata all’articolo 229: l’adulterio della moglie[3]) e in linea di principio (ma con difficile procedura applicativa) anche a quello per mutuo consenso.

Con la diffusione della regolamentazione giuridica civile del matrimonio anche nei vari paesi cattolici cominciano a rendersi presenti le figure dei cattolici divorziati risposati. Si può dire che è specialmente dalla tarda prima metà dell’ ‘800 che il problema comincia a manifestarsi e a diventare significativo, in misura assai varia secondo le nazioni.

Naturalmente non seguiremo dettagliatamente tale sviluppo fino ad oggi. Ci limiteremo alle prospettive generali.

Per quanto concerne il secolo XIX, i (pochi) cattolici divorziati risposati, ovunque la loro condizione si dia e in qualunque modo si sia formata, si trovano in una posizione che agli occhi della Chiesa oscilla tra il concubinato, l’adulterio e la bigamia. I sinodi diocesani collocano frequentemente tale condizione tra i peccati riservati. A meno che la loro situazione non sia riconducibile a fattispecie di nullità o a situazioni sottoposte al potere del Romano Pontefice,  ordinariamente la riammissione ai sacramenti esige la rottura della nuova unione e la ricostituzione (se possibile) della prima unione.

Tuttavia, la praxis confessarii non manca di indicare possibilità diverse, in rapporto a situazioni irriducibili alla soluzione ordinaria. Si hanno così già nella seconda metà dell’ ‘800 esempi di ricorso alla soluzione della buona fede o buona coscienza, ovvero alla motivata accettazione da parte del confessore (con o senza ricorso all’Ordinario) della nullità della prima unione quando sia impossibile dimostrarla in foro esterno[4]. Una pratica che si diffonderà in alcune diocesi americane nella prima metà del secolo XX.  Altre volte, quando non si dia scandalo e ci siano gravi ragioni per non chiedere la separazione, fa apparizione la soluzione che verrà poi chiamata soror-frater. Tale soluzione, va subito detto, non nasce da una valutazione negativa della sessualità ma solo dal fatto che accettando tale soluzione le persone riconoscono di non essere veramente coniugate tra loro e dunque di non avere diritto alla comunicazione sessuale che è propria degli sposi. 

Questo quadro ottocentesco rimane sostanzialmente stabile nella prima metà del ‘900. Certo la pubblicazione del Codice di diritto canonico del 1917 introduce alcune variazioni come l’assimilazione del divorziato risposato alla figura del bigamo (can.2356). Il Codice non commina ai divorziati risposati scomuniche o interdetti latae sententiae, anche se non possono essere ammessi all’eucaristia (can.855). Alcune sanzioni appaiono tuttavia oggettivamente severe: ad es. nel caso di situazione notoria e impenitente si proibisce la sepoltura ecclesiastica (can.1240 § 16°), i divorziati riposati non possono essere ascritti alle associazioni dei fedeli (can.693 § 1), i loro figli sono considerati illegittimi (can.985 3°), ecc[5].

La stabilità del quadro è dovuta principalmente al fatto che nella prima metà del secolo XX i  grandi paesi cattolici  non si trovano di fronte al problema pastorale dei divorziati risposati come ‘grande’ problema: per lo più incontrano casi di divorziati risposati che non raramente possono essere integrati in foro esterno o in foro interno, altre volte sono mantenuti ai margini della vita ecclesiale ma senza che tale esclusione abbia dimensioni socialmente rilevanti.

Dopo la seconda guerra mondiale le cose cominciano a cambiare. Le trasformazioni culturali e tecniche concernenti la sessualità, l’emancipazione femminile, i grandi cambiamenti socioeconomici, la critica della famiglia tradizionale, la secolarizzazione ecc favoriscono la crisi e la crescita di instabilità della vita familiare.  Anche nei grandi paesi cattolici viene via via introdotto l’istituto giuridico del divorzio. Il numero dei divorziati risposati cresce fino a raggiungere proporzioni rilevanti in quasi tutti i paesi occidentali alla fine del secolo XX.

La chiesa cerca di fronteggiare la situazione e comincia a porsi il problema pastorale dei divorziati risposati come tale. Specialmente negli anni ’70 del secolo XX si assiste a una serie di interventi che cercano di proporre alcune linee pastorali specifiche. Bisogna dire che fino all’Esortazione apostolica  Familiaris consortio del 1981 e  al Codice del 1983 il quadro pastorale rimane in netta continuità con quello dell’inizio del secolo ma con una caratteristica sempre più chiara: del passato vengono totalmente lasciate da parte tutte le sanzioni stabilite dal codice del ’17 a cominciare dalla proibizione della sepoltura ecclesiastica e sono invece valorizzate specialmente alcune cose che appaiono favorire l’approccio pastorale, non temendo di esporsi anche a difficoltà e incongruenze.

Così, la Nota Pastorale CEI del 1979, ripresa quasi completamente da Familiaris consortio, sottolinea il fatto che i divorziati risposati non sono scomunicati e che dunque, anche se irregolari, sono membri vivi della Chiesa. Certo, è facile notare che la scomunica canonica non è l’unica condizione che impedisce l’accesso all’eucaristia; tuttavia, l’assunzione di questo punto di vista  offre opportunità pastorali e consente innanzitutto di perorare e promuovere la piena partecipazione dei divorziati risposati alla vita della Chiesa.

Ancora, viene formalmente assunta e proposta pubblicamente la soluzione soror-frater. Anche la soluzione della buona fede o buona coscienza, alla quale allude la stessa Familiaris consortio, 84, come osservava lo stesso Ratzinger[6] viene di fatto ripresa e in qualche misura integrata nel nuovo Codice del 1983.

Tuttavia, mentre si riprendono queste soluzioni, le crescenti dimensioni del fenomeno stimolano teologi, canonisti e pastoralisti a cercare altre soluzioni per andare incontro alle persone. E’ sempre più chiaro che la crisi della famiglia non può essere letta soltanto in chiave morale: ha aspetti strutturali, legati alle nuove condizioni culturali/sociali/economiche, e la possibilità del fallimento non è solo una questione di buona o cattiva volontà.

Le vie di soluzione che si cercano sono varie. Alcune, molto coerenti con la tradizione cattolica, percorrono il sentiero giuridico basandosi sulla nuove percezione personalistica e teologica del matrimonio cristiano. Si tenta così la ricomprensione personalistica di alcune categorie canoniche (in particolare quella di consumazione), si cerca di dare alla fede personale un maggiore rilievo riguardo alla validità del vincolo (riflettendo sul fatto che i ministri dei sacramenti devono avere l’intenzione di fare quello che intende fare la Chiesa), si ricorre ai dati della psicologia e dell’antropologia per ampliare le cause di nullità del matrimonio.

Altre vie perseguono la valorizzazione della coscienza del fedele, sia nel foro interno, sia attraverso percorsi di accompagnamento ecclesialmente stabiliti. Particolare forza acquisiscono posizioni che guardano alla prassi penitenziale della chiesa antica e al canone 8 del Concilio di Nicea in particolare.

Qualcuno comincia a guardare alla prassi  ortodossa: l’economia ecclesiastica ortodossa (in particolare a p.B.Häring) appare a molti come una via di soluzione: una delle proposizioni sinodali del Sinodo del 1980 inviterà formalmente a studiare la prassi ortodossa, anche se tale invito non verrà ripreso da Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio.

Tutti i fermenti degli anni ’70 continuano anche negli anni ’80 e nei decenni successivi; tuttavia, dall’inizio degli anni ’80 la Familiaris consortio  da una parte, il generale magistero di San Giovanni Paolo II dall’altra, insieme con il nuovo Codice del 1983 fissano il quadro della pastorale dei divorziati risposati con poche varianti.

Il Codice del 1983, specialmente con il can. 1095 (in particolare con il paragrafo 3° di esso), amplia le possibilità dei casi di nullità, anche se le procedure rimangono ancora complesse. Inoltre, la FC e il magistero pontificio –insieme al magistero delle Chiese particolari- favoriscono lo sviluppo di una pastorale di preparazione al matrimonio, di accompagnamento delle giovani coppie. In moltissime diocesi si formano gruppi di/per divorziati, si elaborano percorsi di accompagnamento e di vicinanza, anche se si pongono limiti precisi: i divorziati risposati infatti non possono esercitare alcun ruolo ‘rappresentativo’ nella Chiesa; la soluzione generale, poi, per l’assoluzione e l’ammissione all’eucaristia rimane quella che abbiamo indicata come soror-frater. Si comincia a dare però grande rilievo alla nozione di ‘comunione spirituale’ come un modo di partecipazione accessibile anche ai divorziati risposati.

Questo quadro naturalmente non pone fine ai vari tentativi di trovare soluzioni diverse (sostanzialmente quelle già ricordate, con altre nuove –poche – tra le quali la mia) e non mancano sperimentazioni locali (ad es. quella dei vescovi del Reno superiore in Germania che valorizza il ruolo dell’epikeia[7]) che non vengono tuttavia accettate dalla Chiesa universale.  

Esso rimane in ogni caso stazionario; anzi alcune soluzioni o vie diverse vengono escluse dal magistero romano. Come già ricordato. Così la via che sottolinea la necessità della fede personale per un valido consenso matrimoniale non è accettata da Familiaris consortio, 84, anche se Benedetto XVI inviterà ripetutamente i teologi a riflettere su di essa.

Improvvisamente, in modo del tutto inatteso, il quadro entra in rapido movimento. È il 2013; si ha il passaggio da papa Benedetto XVI al papa Francesco; viene annunciata la doppia articolazione del Sinodo dei vescovi sulla famiglia, l’Assemblea straordinaria del 2014 e quella ordinaria del 2015. La Chiesa intera è coinvolta, si crea un clima di attesa, ci si aspetta cambiamenti. Per dare la misura, in modo rapido, di quel che è successo e sta succedendo è sufficiente andare ai nn.122 (52)-123 dell’Instrumentum laboris della XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (prevista per l’ottobre prossimo) dove la “disciplina attuale” riguardo ai divorziati risposati, basata su forti motivazioni teologiche come notato dal testo stesso, è presentata come una delle possibilità in discussione. In realtà l’IL appare estremamente pervaso del desiderio di trovare una soluzione che consenta alle coppie di divorziati risposati di poter essere recuperati pienamente alla vita della Chiesa (compresa la partecipazione eucaristica): lo si vede da tante proposte, come la facilitazione dei processi canonici di nullità, l’istituzione di processi amministrativi diocesani per il riconoscimento di nullità. Lo si vede anche dai numeri surricordati che propongono percorsi penitenziali  o processi di chiarificazione (epikeia) da parte dei singoli interessati accompagnati da un presbitero sotto la responsabilità del vescovo locale (prospettive già rifiutate dalla disciplina ufficiale negli anni ’90).

Il lungo percorso storico che abbiamo rapidamente tracciato in rapporto ai divorziati risposati mostra –io credo- che la Chiesa, anche se talvolta si è manifestata severa, non ha mai smesso di coniugare fedeltà al vangelo e attenzione o misericordia pastorale. Lo ha fatto in vari modi e per varie vie.

Nel corso del secolo XX poi ha fatto passi giganteschi: la situazione di un divorziato cattolico  all’inizio del ‘900 è ben diversa da quella di un divorziato cattolico dell’inizio del secolo XXI. Tuttavia, si è giunti probabilmente ad un punto tale che la Chiesa cattolica non può più evitare di porsi una questione decisiva: dal momento che la via della nullità –qualunque ne sia l’origine- non potrà riguardare tutti i matrimoni falliti tra battezzati e dal momento che la piena riammissione eucaristica di persone battezzate e viventi in un vincolo non valido sacramentalmente (permanendo il valore sacramentale del primo) genera inevitabili contraddizioni su vari piani, se si vuole un’adeguata soluzione pastorale è necessario cercare nella tradizione elementi che consentano da una parte di riconoscere che alcune unioni finiscono oggettivamente, dall’altra di aprire alla possibilità di nuove unioni nella Chiesa. Forse elementi simili non mancano. Ci si può davvero chiedere infatti se una Chiesa, come quella cattolica, che considera la morte fisica di una persona (immortale e destinata alla risurrezione) come causa della fine totale del legame coniugale (sia naturale che sacramentale) non possa riconoscere un’analogia pastoralmente significativa tra la morte fisica di un coniuge e l’irreversibile fallimento di un’unione.   

Relazione svolta a Bose il 15 febbraio 2015. Don Basilio Petrà è presidente dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale.



[1] G. LE BRAS, «Le mariage dans la théologie et le droit de l'Église du XIe au XIIIe siècle», in Cahiers de civilisation médiévale . 11 (1968) n.42, 191-202, qui 195: “L'originalité majeure du christianisme est l'indissolubilité presque sans réserve. Toutes les exceptions admises en certains pays, notamment chez les Anglo-Saxons, pendant le premier millénaire, ont été, en droit classique, écartées. L'incise de Matthieu : nisi causa fornicationis est interprétée comme une simple cause de renvoi. Dans un seul cas, le mariage consommé peut être rompu : quand un époux païen rend la vie impossible à son conjoint devenu chrétien. Le mariage non consommé se dissout par l'entrée en religion d'un époux et par la dispense pontificale, dont la théorie s'annonce au début du xme s. Chacun de ces points mérite notre attention. La rupture du mariage légitime, conclu entre païens et consommé, est donc licite dans le cas où un époux s'étant converti, l'autre, demeuré païen, lui rend, malgré sommations, la vie intenable, par mépris du Créateur. Quant à la dissolution par entrée en religion, la Genèse la justifie puisque unitas carnis n'a pas encore été réalisée. Après consommation, les deux époux peuvent, d'accord, entrer au monastère (conversio conjugatorutn) mais il subsiste entre eux un mariage spirituel. Alain de Galles professait que, le mariage non-consommé ne devant sa fermeté qu'au droit positif, le pape (et lui seul) pouvait le rompre par dispense : origine d'une pratique dont on ne trouvera que bien plus tard des exemples”

[2] D.SALACHAS, «Lo scioglimento del matrimonio non sacramento in favore della fede», in Iura Orientalia 6 (2010) 207-231.

[3] L’articolo suona così: “Le mari pourra demander le divorce pour cause d’adultère de sa femme”. Si noti che l’art. 230 poi suona così: “La femme pourra demander le divorce pour cause d0adultère de son mari, lorsqu’il aura tenu sa concubine dans la maison commune”. Cfr. Code civil des Français, Édition originale et seule officielle, À Paris, De l’imprimerie de la République, An XII, 1804, p.56.

[4] B.PETRA’, Il matrimonio può morire ? Studi sulla pastorale dei divorziati risposati, EDB, ologna 1996, 52-63, in particolare 54.

[5] B.PETRA’, Il matrimonio può morire ? , 25-27.

[6] B.PETRA’, Il matrimonio può morire ?, 56-57.

[7] B.PETRA’, Il matrimonio può morire ?, 89-101.

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