L’uomo si trova sempre a fare i conti con la sua natura, oscillante tra aggressività e solidarietà: così i tamburi di guerra continuano a rullare nel cammino della nostra storia.
Platone diceva che solo i morti vedono la fine della guerra, e nel carteggio tra due grandi del nostro tempo, Einstein e Freud, rincorre la domanda: perché la guerra?
Nel 1932, infatti, Einstein per conto della Società delle Nazioni chiede a Freud se siamo condannati dalla storia alla guerra o l’evoluzione delle società può essere un percorso virtuoso per porvi rimedio. Freud nella sua articolata risposta precisa che un pacifismo più condiviso, un atteggiamento più civile e il timore degli effetti potevano ridurre questa spinta. Di lì a poco sarebbe cominciata la devastante seconda guerra mondiale, poi alla fine il dolore avrebbe portato alla saggezza della solidarietà e alle dichiarazioni dei diritti dell’uomo.
A distanza di tanti anni ci ritroviamo di fronte ad un equilibrio globale estremamente precario e a troppi interrogativi senza risposte chiare.
La storia dell’uomo, però, evidenzia come nel tempo vi siano periodi storici in cui i conflitti diventano più numerosi e cruenti, che coincidono con fasi in cui un modello socioculturale è arrivato alla fine – la nostra crisi è antropologica ma non lo vogliamo capire per i troppo interessi in gioco.
“Queste gravi forme di lotta sorgono nei periodi di transizione, quando ad una forma culturale ne subentra un’altra, tra il vecchio edificio che si sta sgretolando ed il nuovo non ancora eretto; quando i valori socioculturali, a causa della loro completa atomizzazione, hanno reso lo scontro tra persone e gruppi dai valori differenti assolutamente irreparabile… Un’altra conseguenza in tali periodi è rappresentata dall’aumento delle malattie mentali e dei suicidi... I prevalenti valori di tipo sensistico si affermano e il senso di solitudine e noia viene generato dall’incessante espansione sia delle voglie più smodate che dei mezzi per soddisfarle... Questi periodi si accompagnano all’abbassamento del tenore di vita e l’economia di lungo termine è rimpiazzata da un’economia basata sui profitti immediati o sul puro e semplice saccheggio…; questi periodi sono accompagnati da una catastrofica ed improvvisa crisi economica...”.
Queste riflessioni le faceva Pitirim Sorokin nel suo lavoro La crisi del nostro tempo, scritto nel 1941, che dipinge con crudezza la situazione attuale ed il conflitto profondo sottostante.
Il secolo scorso è stato quello più sanguinoso e ricco di guerre degli ultimi ventisei secoli della storia dell’uomo, ma allo stesso modo è cominciato quello nuovo, a conferma delle conclusioni sulla crisi del nostro tempo. Oggi siamo a guardare un susseguirsi di violenze a tutti i livelli che vanno ben al di là di semplici conflitti locali, ma mettono in discussione un equilibrio globale che viene continuamente riproposto e rimesso in discussione.
L’espressione “bene comune” appare nei discorsi di tutti, ma sembra più un rituale terminologico che una volontà precisa; più se ne parla, più si allontana. Il termine più volte usato, “Armageddon”, in questo senso sta a significare uno scontro storico più profondo del solo problema economico, che coinvolge sistemi di valori, culture, credenze, interessi a confronto/scontro, l’esercizio di un potere – militare e finanziario - che mira al dominio e non alla collaborazione.
È un potere, nei fatti, non definito da una responsabilità morale e non controllato da un profondo rispetto della persona.
La finanza, in questo tempo, ha assunto un ruolo dominante nella vita, tale da orientare anche le scelte della “polis” globale. La cultura della finanza, però, è completamente diversa da quella dell’economia reale; la finanza opera in un contesto “amorale”, perché chi decide non si pone il problema delle conseguenze sociali delle sue decisioni, che sono a breve tempo lesive degli interessi collettivi a lungo.
Nella finanza “piccolo” non è bello, quindi la conseguenza è una concentrazione di potere, prevalentemente in USA e nel Regno Unito, asimmetrico alle esigenze della democrazia rappresentativa: di qui l’inesorabile terreno di scontro tra modelli culturali.
Gli scontri in essere, oggi, in varie parti del mondo – Siria , Egitto, Iraq, Afganistan, Palestina ed Israele, Ucraina… - sembrano assumere una crescente violenza, anche esagerata, e, più che riportare o cercare la pace, sembra che si voglia alzare la soglia dello scontro come per provocare reazioni che però non arrivano.
Solo un mese fa i contendenti in Palestina piantavano un ulivo in Vaticano con Papa Francesco come segno di alleanza. La comunità internazionale sembra incapace di muoversi, come se fosse in una cristalleria, dove la mossa più semplice potrebbe scatenare un effetto domino.
A partire dallo scorso anno gli interessi e gli equilibri in campo sono andati definendosi più chiaramente; in particolare la guerra in Siria è stato il primo fronte aperto.
Il disastro delle armi chimiche aveva spinto gli Usa a proporre un intervento immediato, scongiurato dal ruolo della Russia di Putin; la posizione di stallo ha favorito il riavvicinamento dell’Iran agli Usa ed ha aperto la negoziazione sull’embargo.
Sul fronte finanziario il governatore della Fed, in un mese, ha cambiato radicalmente idea sul suo ruolo di accompagnamento dell’exit strategy: è ritornato a stampare moneta dopo avere assicurato il contrario.
A distanza di poco tempo alcune banche d’affari di Wall Street, BankAmerica e Citybank, salvate dalla Fed nel 2008, sono state accusate dal dipartimento di giustizia degli Usa di comportamenti fraudolenti nella gestione dei sub-prime che avevano generato la crisi da cui le stesse banche sono state salvate. Altre – JPMorgan – sono state svalutate per le esposizioni iperboliche in prodotti finanziari ad alto rischio.
Le azioni di controllo nei confronti del potere finanziario si sono accentuate ed i paesi che avevano cavalcato l’onda della finanza – Usa e Regno Unito – si sono trovate di fronte a situazioni di grande difficoltà sociale: la liquidità dei loro sistemi non sembra avere contropartite in termine di valore reale.
Il sorgere di attori portatori di interessi diversi ha messo in evidenza la debolezza degli equilibri in essere; gli scontri in Palestina, Ucraina, Siria, Iraq... si accompagnano a prove di forza giocate su altri terreni.
I Brics hanno definito un accordo per la costituzione di una “superbanca” funzionale a ridurre l’eccessivo potere del dollaro, ma anche della finanza statunitense; la Fed soddisfa la richiesta di restituzione del proprio oro alla Germania in minima parte, l’1% dei depositi, ma fa aumentare le tensioni tra i paesi.
Sembra che molto sia in gioco, e su terreni diversi si gioca la stessa battaglia per la ridefinizione di nuovi equilibri globali, in cui la cultura finanziaria non sembra affatto volere cedere il passo ed il suo potere egemone . La chiave di lettura dei problemi che incombono su di noi è molto complessa e articolata e rende difficile la ricostruzione ed il collegamento dei fatti. Questo è l’enigma che ci aspetta: sapremo affrontarlo ?