DOPO IL SONNO DOGMATICO. Ivan Illich e l’educazione

illich 2L’accantonamento in sede teorica dell’educazione si inserisce in un preciso orientamento della cultura contemporanea, nel quale emerge la diffidenza per i grandi ideali che hanno accompagnato l’ascesa della modernità. E poiché in quel contesto era diffusa la convinzione che gli uomini andassero educati alle svolte che li attendevano, compiutosi quel ciclo l’idea stessa di educazione appare compromessa alla radice.

Il segnale di questo cambiamento venne dato da Ivan Illich. Il quale, dopo aver messo in discussione il senso delle moderne istituzioni scolastiche in un testo che fece clamore, Descolarizzare la società, nelle successive riflessioni auspicò una consapevolezza storica su un oggetto ‘che non è suscettibile di paragone con alcuna realtà sociale al di fuori della tradizione occidentale’[1]: l’Homo educandus.

 

La storia dell’educazione e quella dell’Homo educandus sono in palese contrasto tra loro. Lo storico dell’educazione considera il bisogno di educazione un fatto astorico; per lui è come se, ovunque vi sia cultura umana, vi sia pure una scorta di conoscenze da trasmettere di generazione in generazione. Anziché studiare i passi in seguito ai quali tale bisogno fece la sua comparsa storica, si limita a studiare come esso sia stato soddisfatto in altre società, in epoche diverse e in forme differenti.[2]

 

Questa idea dell’Homo educandus è naturalmente comprensibile nel quadro complessivo del pensiero di Illich. La sfera educativa, così come quella economica, medica e via dicendo, si viene storicamente configurando attraverso un’organizzazione istituzionale che progressivamente espropria ciò che gli individui spontaneamente fanno nell’ambito di libere e naturali relazioni.

Questo costrutto pedagogico è rappresentato da un’ideologia da cui sono scaturite le nostre convinzioni circa l’Homo educandus ed è articolato socialmente in un insieme specifico di istituzioni il cui prototipo è l’Alma Mater Ecclesia. Esso viene inculcato nella visione del mondo di ogni individuo mediante una duplice esperienza: innanzitutto per mezzo del curricolo nascosto proprio di tutti i programmi educativi, la cui conseguenza è la degradazione dell’apprendimento vernacolare; in secondo luogo attraverso lo stile di vita opaco, passivo e paralizzante promosso ineluttabilmente dal controllo professionale sulla definizione e il soddisfacimento dei bisogni.[3]

 

L’idea che la sfera educativa sia un costrutto della moderna cultura occidentale, con radici nella Chiesa medievale, ha costretto la riflessione pedagogica a uscire dal sonno dogmatico a cui si era finora abbandonata. Ma al tempo stesso ha contribuito a rendere l’educazione qualcosa di problematico, di non più evidente.

   Poiché dunque il senso di questo nostro percorso è un ritorno all’evidenza, bisogna evitare l’impressione di una ricaduta nel dogmatismo. Come si può, dopo Illich, tornare a pensare all’educazione come la struttura del rapporto che connette in ogni tempo le generazioni? Qualcosa che l’uomo ha sempre conosciuto e addirittura siamo disposti a riconoscere anche nel regno animale? Non potrà apparire il ritorno a un’ingenuità non più accettabile?

Ivan Illich, dovendo designare un piano di realtà sociale contrapposto all’espropriazione, ha parlato di convivialità. Per quanto il suo riferimento personale fossero le esperienze comunitarie tuttora vive nei paesi in via di modernizzazione, nelle quali è ancora visibile quel tessuto delle relazioni umane che la modernizzazione va disgregando, egli ha fatto di quel riferimento una categoria interpretativa che potremmo dire metastorica, una sorta di mito razionale la cui funzione è simile a quella dello stato di natura nel giusnaturalismo.

Tale categoria si presta molto bene a evidenziare i processi di alienazione della società attuale in una prospettiva più ampia di quella marxista, tenendo cioè conto non solo dello sfruttamento dell’attività lavorativa ma di quella dimensione più coinvolgente e pervasiva che è il consumo. Questo è l’orizzonte della famosa critica della scuola.

La scuola non è soltanto la nuova religione universale. È anche il mercato del lavoro in più rapida espansione che ci sia oggi nel mondo. La fabbricazione di consumatori è diventata il principale settore in sviluppo dell’economia. Nelle nazioni ricche, man mano che diminuiscono i costi di produzione, si assiste a una crescente concentrazione sia del capitale che del lavoro nella gigantesca impresa di preparare l’uomo a un consumo disciplinato. ( … )

Nello schema tradizionale, l’alienazione era una conseguenza diretta della trasformazione dell’attività lavorativa in lavoro salariato, che toglieva all’uomo la possibilità di creare e di essere ricreato. Oggi invece i giovani vengono alienati in partenza dalle scuole… La scuola fa dell’alienazione una preparazione alla vita, togliendo così realtà all’istruzione e creatività al lavoro. [4]

 

Ridefinendo tale critica in termini più ampi, Ivan Illich ravvisa una fondamentale distorsione del rapporto, nell’epoca moderna, tra gli uomini e gli strumenti che adoperano.

I sintomi di una crisi planetaria in corso di accelerazione sono manifesti. Se ne è ricercato il motivo un po’ ovunque. Da parte mia, io avanzo la seguente spiegazione: la crisi ha le sue radici nel fallimento dell’impresa moderna, cioè la sostituzione della macchina all’uomo. Il grande progetto di sostituire la soddisfazione razionale e anonima alla risposta occasionale e personale si è trasformato in un implacabile processo di asservimento del produttore e di intossicazione del consumatore.

( … ) Per un secolo l’umanità si è dedicata a un esperimento basato su questa ipotesi: lo strumento può rimpiazzare lo schiavo. Ora vediamo chiaramente che, impiegato per siffatti scopi, è lo strumento che fa dell’uomo il suo schiavo. La dittatura del proletariato e la dittatura del mercato sono due varianti politiche che celano lo stesso dominio da parte di un’attrezzatura industriale in costante espansione. Il fallimento del grande sogno di razionalizzazione progressiva porta a concludere che l’ipotesi è falsa. [5]

 

Questo fallimento si iscrive in un fallimento ancora più ampio: del progetto di dominio in cui consiste l’essenza della modernità, che si identifica in quell’uomo prometeico di cui in Descolarizzare la società. Rispetto a ciò la convivialità si definisce come una condizione in cui il rapporto degli uomini con gli strumenti che adopera non è basato sull’idea di dominio.

Intendo per convivialità il contrario della produttività industriale. Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Questi strumenti si possono ordinare in una serie continua avente a un estremo lo strumento dominante e all’estremo opposto lo strumento conviviale: il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono. [6]

 

La fecondità di questo approccio è indiscutibile per chiunque sia preoccupato per le dinamiche distruttive che i mezzi smisurati posti in atto hanno innescato; rispetto a cui è inevitabile pensare che realistiche possibilità di sopravvivenza richiedano soluzioni più prudenti, più a misura dell’umano. C’è un limite però in questa analisi che non possiamo a questo punto trascurare.

Quando Illich parla di educazione, parla già evidentemente della scolarizzazione, dell’educazione espropriata ad opera di grandi istituzioni che sono solidali coi sistemi della produzione e del consenso. Sotto questo aspetto c’è un evento decisivo nella genesi dell’Homo educandus: gli individui sono strappati alla lingua vernacolare che naturalmente apprendono dai loro genitori per essere addestrati a una lingua artificiale il cui controllo sta altrove[7].

Che quindi tutta l’enfasi con cui stuoli di moderni educatori si sono dedicati a una missione civilizzatrice in mezzo al popolo debba essere sospetta, non può certo essere negato: questo tipo di educazione è stato indubbiamente il modo in cui i popoli sono stati immessi nell’alveo della Modernità. Non più tribù e villaggi servivano, né mondi comunque connotati da infinite e irriducibili diversità, bensì masse il più possibile omogenee da amministrare uniformemente. Che tutto ciò sia in fondo artificioso e abbia esautorato forme di relazione più ricche di valore umano, ormai nessuno potrebbe disconoscerlo, almeno da che il mito del progresso è caduto in disuso.

Il problema è però un altro. Questo tipo di consapevolezza storico-critica che conduce a definire l’educazione nei termini di un paradigma culturale è conseguenza necessaria di un atteggiamento intellettuale a sua volta culturalmente condizionato: per il quale un concetto è un oggetto reificato, di cui si ha buon gioco a mostrare la genesi in un processo di costruzione storico-sociale.

Nel momento cioè in cui si avverte che l’atto di educare è diventato problematico, ci si chiede in cosa consista l’idea di educazione che abbiamo in mente, e inevitabilmente si ritiene che tale idea si sia formata nel tempo, sulla base di condizioni storico-sociali di vario tipo.

Non viene più da pensare che il concetto di educazione sia il postulato necessario alla nostra mente per cogliere in modo unitario una serie storicamente variabile e sempre complessa di atti che rivelano una relazione fondamentale.

Proviamo invece a esplorare quest’altra possibilità; la quale, per quanto insita nella tradizione più antica, appare oggi come il paradigma da scoprire. Pensiamo dunque che le differenze culturali mettano in luce un piano indubbiamente convenzionale, ma che le convenzioni siano di volta in volta tentativi di formulare una relazione fondamentale del mondo della vita. È probabile che Illich stesso non intendesse affatto negare ciò, ma denunciarne anzi lo svuotamento: quando l’educazione sia strappata ai suoi contesti naturali e riproposta coercitivamente dalle esigenze astrattamente pianificatrici dei sistemi artificiali del potere.

Il punto è che, anche se nascessero i bimbi in provetta, anche se le tipologie di addestramento mutassero o si rivolgessero ad altre fasce di età, qualunque aspetto ideale o sinistro nuove società assumessero, la relazione educativa non cesserebbe di inverarsi, indipendentemente dalla virtù o dalla perversione dei suoi scopi e dei suoi mezzi. Sarebbe il caso di pensare a essa come a un indefettibile archetipo del mondo in cui viviamo. Rinunciarvi non può significare altro che perderne la consapevolezza, né può condurre ad altro che a lasciare che a educare siano forze incontrollate, tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo.

E poiché ciò che non è consapevole e controllato dalle istanze più alte, cioè dallo spirito, necessariamente degenera verso le forme più basse delle leggi materiali, un’educazione fondata sui bisogni materiali è già un’educazione che rinuncia all’umano.

Ci sentiamo allora di dire che, parlando di convivialità, Ivan Illich ha inteso fare quello che noi stessi riteniamo indispensabile: tornare all’evidenza.

Convivialità sia dunque un modo particolarmente evocativo per intendere quella realtà delle relazioni umane in cui ciascuno giorno dopo giorno definisce il suo essere e la sua identità. E’ corretto pensare che tale realtà preceda altre relazioni più mediate e artificiose, frutto di un incremento dell’organizzazione sociale, ed è un problema quando queste ultime giungono a soffocare le prime.

Bisogna però intendere che anche quell’ambito sia a sua volta organizzato, come ben appare in tutte le società prepolitiche. Osservano anzi gli antropologi che queste ultime evidenziano una complessità enorme di rapporti, ruoli, convenzioni, riti e strutture d’ordine di ogni tipo che regolano la vita di ciascuno in modi minuziosi: come se tutti in ogni gesto quotidiano o evento della vita interpretassero e riproducessero un testo inscritto in ogni sfera dell’universo.

Se tutto ciò si intende compreso nella convivialità, allora il concetto è adeguato. Pur che si pensi a una dimensione altrettanto regolata di quella sottoposta alle moderne istituzioni, sebbene con diversi principi: cioè principi non convenzionali ma cosmici. Altrimenti il discorso si fa ben diverso e finisce nella solita utopia anarchica, contrappunto all’incedere trionfante dei grandi apparati dell’epoca moderna.

Non può neanche sfuggire che l’area semantica della convivialità, qualora intesa banalmente, evoca addirittura quella del banchetto consumistico.

Ci vuole allora del rigore. Non si può osservare quella complessità così minutamente codificata che ogni società premoderna offre allo sguardo senza chiedersi quale ne sia il principio ultimo regolatore; ovvero quale libertà spetti agli individui. In ogni caso non quella che da noi banalmente si concepisce: non come sregolatezza, e neppure emancipazione dell’individuo dai legami comunitari; bensì una libertà radicata in quei piani immateriali di solito chiamati spiritualità. E allora?

Non c’è in fondo nulla da inventare rispetto alle parole già normalmente in uso: categorie come tradizione e religione esprimono già a sufficienza quel rapporto che un individuo sente, non come vincolo ma come ampliamento di sé, con tutto un universo di valori, simboli, credenze, conoscenze di cui è investito e che è chiamato a riprodurre.

Questo tipo d’uomo semplicemente classifica i rapporti mediante modelli cosmici anziché politici: il suo universo di credenze e simboli attinge direttamente all’universale anziché allo storicamente determinato. Ciò che gli sta a cuore trasmettere e conservare, attraverso i suoi usi e costumi, è la fonte della vita stessa, ovunque detta spirito, non una costruzione ideologica; il suo senso di individualità culturale non implica l’unicità della propria via, proprio perché si rapporta all’infinito e non al meglio storico.

La trasmissione del suo universo culturale, la cura della memoria della sua civiltà è funzionale al rinnovo della fonte della vita. È a questo punto che la selva inestricabile dei simboli e dei riti che compongono il suo mondo ci offre un varco, in cui riconosciamo alcunché di familiare.

Quel legame che avvertiamo distendersi nel tempo tra le generazioni, in cui riconosciamo i nostri padri e i figli, che ci collega a epoche remote e ci proietta nei giorni che verranno, questa esperienza davvero conviviale è la compresenza in noi di chi è stato e di chi sarà.

Ciò che comunemente è inteso con educazione è la traduzione, nelle disposizioni intime, nelle scelte e nelle cure quotidiane, di un vissuto che ci trascende.

Che tutto ciò sia stato, lungo i secoli della Modernità, a poco a poco espropriato, mistificato e infine gravemente compromesso, questo è il problema.

Che il concetto di educazione sia oggi rimosso non può essere la soluzione.



[1] Ivan Illich, La storia dell’Homo educandus, in In the Mirror of the Past. Lectures and Addresses 1978-1990, ed. it. Nello specchio del passato, Red, Como 1992, p. 113

[2] Ivan Illich, op. cit., p. 112

[3] Ivan Illich, La sfera educativa, in op. cit., p. 109

[4] Ivan Illich, Deschooling Society, ed. it. Descolarizzare la società, Mondadori, Milano 1972,  p. 74

[5] Ivan Illich, Tools for Conviviality, ed. it. La convivialità, Mondadori,  Milano 1974,  p. 25

[6] Ivan Illich, op. cit., pp. 26-27

[7] Ivan Illich, La madre lingua insegnata, in In the Mirror of the Past. Lectures and Addresses 1978-1990, ed. it. Nello specchio del passato, Red, Como 1992, pp. 117-139

 

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