Da tempo in Occidente la politica pare avere rinunciato al confronto sui principi che sono a fondamento della vita comune. Eppure i grandi cambiamenti in corso, e gli stessi pericoli che ci minacciano, richiedono che si torni a farlo. Non si può solo navigare a vista: bisogna che si sappia dove siamo e dove andiamo. E anche il pluralismo culturale non vuol dire che ciascuno sia un mondo a sé. Occorre ripensare ciò che unisce, e che va universalmente riconosciuto.
Questo è l’intento che ha ispirato a Torino un convegno insolito, tanto più in un contesto di dialogo interreligioso.
Per quanto quest’ultimo da tempo occupi la scena, pare essere sfuggito qualcosa di essenziale: cioè le sue vaste implicazioni politiche. Una reticenza non casuale ha impedito di osservarle: tale è il timore che suscitano i fenomeni in cui religione e politica si intrecciano. Si vedano gli attuali fondamentalismi, si veda in genere un’idea della religione, anche artificiosamente coltivata, come mezzo di controllo sociale.
Eppure è un dato difficilmente confutabile che nella società globalizzata, tanto più dopo la crisi delle ideologie laiche, le religioni siano tornate a essere veicolo di identità sociale. Esigenze non solo strettamente spirituali, ma di riscatto, di riconoscimento o in genere di fondamento della comunità, nelle religioni trovano espressione. Anche perché le religioni sono fenomeni complessi: non solo forme di rapporto col trascendente, ma anche assetti di vita sociale.
Quel che in tutto ciò inquieta non è altro che un pericolo insito in ogni cosa: il pervertimento degli scopi, cioè in fondo il male. Ma è quel che d’altra parte inquieta nella politica: non il potere in sé, ma il suo abuso, la sua distorsione a scopi impropri.
Chi sostiene che bisognerebbe abolire le religioni, non sa quel che dice. Come anche chi si accanisce a denigrare la politica, come se davvero si potesse farne a meno.
Tanto vale allora affrontare il nodo, e non rimuoverlo.
C’è una cattiva politica, che da principi apparentemente buoni ricava conseguenze disumane, opprimendo i popoli sotto gioghi gravosi.
C’è una politica non meno cattiva, che abolendo i principi – e abdicando quindi a se stessa – lascia i popoli in preda a forze anonime, come la tecnica e i mercati.
C’è, o deve esserci, una politica buona. Cioè una politica che si assume il dovere come principio, e che del popolo si prende cura. Una politica compassionevole. Una politica di dovere e di compassione.