Ripensando a una recente riunione associativa, precisamente il 14 maggio scorso, che ha fatto seguito a varie altre precedenti, è forse inevitabile un bilancio.
Quando, circa quindici anni fa, ebbe inizio il percorso che avrebbe qualche tempo dopo assunto il nome di Interdependence, il dialogo interreligioso si mostrava come la più grande urgenza. Dopo la fine della Guerra Fredda e il dissolversi delle ideologie laiche, le religioni venivano investite di immense aspettative, a cui erano in gran parte culturalmente impreparate. La tentazione di farne un uso strumentale, nel ridisegnare conflittualmente le mappe geopolitiche del pianeta, era evidente, ma altrettanto il fatto che ciò ne avrebbe snaturato il senso. Perché esse fossero quel che era lecito chiedere, cioè sorgenti di pace per il pianeta, occorreva che trasformazioni immense si ponessero in atto al loro interno, affinché il patrimonio di tradizioni millenarie fosse reso disponibile all’intelligenza e ai bisogni dell’umanità odierna.
In quella condizione dunque il nostro percorso prendeva forma, e per molti anni il lavoro svolto è stato essenzialmente culturale. Anno dopo anno abbiamo recato il nostro contributo a un’impresa di cui non certo noi, ma neppure alcun altro, poteva pensare di tenere le fila. In cui noi stessi ci mettevamo in gioco per essere a nostra volta trasformati.
Voltandoci indietro oggi, ci sembra che, non certo per nostro merito, una parte di quel lavoro sia compiuto.
Sia perché le basi poste ci consentono di vedere in una luce almeno in parte nuova problemi da cui le nostre società sono coinvolte: dai profughi alla famiglia all’educazione. Prossimamente bisognerà che ne parliamo apertamente, essendovi per di più azioni sociali che stiamo intraprendendo. Di recente addirittura abbiamo avviato un laboratorio di cultura politica, a cui intendiamo dare seguito.
Ma soprattutto perché abbiamo l’impressione che il nostro lavoro si sia visibilmente congiunto a quelle immense trasformazioni di cui si diceva. Il segno più eloquente ci è stato dato un anno fa dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato si’. Se dovessimo indicare un testo - della massima autorevolezza immaginabile - in cui tranquillamente possiamo rispecchiarci, non ci sarebbe da indicare che quello.
Ci sono dunque valide ragioni per tornare, a un anno dalla pubblicazione, sulla Laudato si’.
Anche se in apparenza se ne è parlato molto, c’è qualcosa che non è stato detto, ed è forse la cosa più importante. Proviamo a dirla in due modi, attraverso due proposte di lettura.
La prima è di impronta laica, ed è dovuta, perché Papa Francesco ha voluto parlare oltre i confini della Chiesa e della stessa coscienza religiosa. La forza di un messaggio spirituale è nella sua capacità di sorprendere le aspettative, entrando in risonanza con mondi in apparenza estranei. I quali a loro volta restituiscono qualcosa in più di quanto non fosse nelle originarie intenzioni.
La seconda proposta è di impronta religiosa, seppure di una religiosità che si mette interamente in gioco nei processi in corso. Suggerisce di intendere in tutta la sua portata la conversione ecologica di cui parla Francesco. Potrebbe trattarsi di una via spirituale a cui l’uomo d’oggi è particolarmente affine.
Avendo osato pensare – ed è la cosa a cui teniamo di più – che il nostro fosse un percorso in ultima istanza spirituale, non possiamo che sentirci in profondo accordo con quella via.