L’attrazione che l’Oriente esercita su molti occidentali è in buona misura spiegabile da una condizione che diffusamente caratterizza l’umanità contemporanea: cioè la crisi più o meno conclamata, ma ovunque dilagante, delle tradizioni religiose. Le culture spirituali dell’India paiono infatti venire incontro a un’esigenza di ricerca personale che prescinde dalla tradizione, in cui ci si mette interamente in gioco in prima persona. Il che può essere considerato frutto di un equivoco, se pensiamo che in India in realtà la tradizione non ha conosciuto la frattura che invece caratterizza l’Occidente, ma sotto un altro aspetto non è del tutto fuori luogo, pensando che quello che si assume per lo più come riferimento, cioè le Upanishad e il Buddhismo, paiono effettivamente implicare una crisi nella tradizione vedica, che apre la strada a una ricerca più interiore.
Si potrebbe però a questo punto rendere del tutto esplicito il confronto con ciò che, all’incirca nella stessa epoca, accadde nella cultura greca antica, dove pare essersi verificato un analogo spostamento dalla tradizione condivisa alla ricerca personale: uno spostamento da cui sembra aver avuto origine la filosofia occidentale, lungo un percorso che va da Socrate al moderno Esistenzialismo. Si tratta di un percorso destinato a intrecciarsi, come ad esempio mostra Sant’Agostino, con la nuova tradizione religiosa in cui l’Occidente viene identificandosi, non senza il ricorrente impulso a ripudiarla: quella ebraico-cristiana.
Il confronto ha naturalmente senso in rapporto a un problema che sicuramente affligge l’umanità contemporanea, ma potrebbe essersi già configurato in tempi antichi: cioè l’imporsi di una concezione oggettivistica, quale si dispiega soprattutto nella scienza moderna. Tale concezione smembra infatti la complessità delle relazioni umane e cosmiche entro cui la realtà si trova di volta in volta definita nelle visioni tradizionali, riducendola a entità stabilmente controllabile, ma al prezzo dell’oblio del soggetto umano. Un oblio che, per contrasto, ricorrentemente suscita il richiamo a soggettività arbitrariamente creatrici, come nel percorso che si sviluppa dalla Sofistica a Nietzsche, che portano alla luce il nichilismo che nell’oggettivismo è implicito.
Ne deriva che ciò che in Occidente è normalmente inteso come filosofia, e in Oriente mostra chiaramente la sua natura spirituale, mira a suscitare la consapevolezza del presupposto rimosso, senza peraltro ridurlo a entità a sua volta oggettivabile e reificata. Sotto questo aspetto il conosci te stesso socratico e la domanda vedantica chi sono io? hanno lo scopo di riaprire una comprensione più complessa dell’esistere, in tutto analoga a quella della tradizione e perciò in grado di ricongiungersi con essa.
Più che contrapporre l’Oriente all’Occidente, si tratta dunque di riprendere una profonda e universale esigenza umana di ricerca intorno al senso della vita. Una ricerca che, in scenari tecnologici sempre più totalizzanti come quelli attuali, diventa urgente forse più che in qualsiasi altra epoca. Una ricerca che non può trovare appagamento in nozioni estrinseche, ma solo in un’esperienza autentica, che generi cambiamenti personali per i quali tradizionali metafore come salvezza o liberazione risultino appropriate. Una ricerca che può fondare il senso di una comunità fraterna.
Stavolta queste nostre pagine sono particolarmente dense.
Innanzitutto tre testi, che si propongono di indicare, nella cultura occidentale, una direzione di pensiero e spirituale a cui attingere, al di là di ciò con cui l’Occidente oggi troppo facilmente si identifica: al di là dello scientismo, del materialismo, del relativismo.
Il primo, di Cristiana Cattaneo, qualifica tale direzione attraverso il riferimento oggi rimosso alla verità, confrontandosi con l’opera di due autori che, nel Quattrocento e nel Novecento, hanno riscoperto un senso originario della filosofia che può essere più che mai fecondo: Cusano e Pareyson.
Nel secondo testo Giuseppe Riconda, professore emerito dell’Università di Torino e soprattutto erede e continuatore della filosofia di Pareyson e di quella di Del Noce, mostra come riferirsi alla verità non sia in contrasto con la libertà, come vorrebbe oggi il pensiero dominante, ma anzi la costituisca come fondamento morale, anziché come arbitrio o potere del più forte. A sua volta la verità è indissolubile dalla libertà, richiedendo un percorso personale in cui manifestarsi. Unità della verità e pluralismo dell’interpretazione delineano il quadro culturale di un ritorno all’esperienza religiosa, in alternativa al predominio del pensiero strumentale.
Il terzo scritto, di Bianca Gaviglio, illustra, lungo un percorso nella cultura russa, il manifestarsi della verità, nella vita degli individui e dei popoli, come bellezza. Non solo la Russia, come anche gli eventi in corso mostrano, è ciò con cui la civiltà occidentale non può evitare di confrontarsi, una sorta di Oriente dell’Occidente; ma verità, bene e bellezza sono una triade che rinvia alle radici classiche e cristiane, e mostra come i fondamenti rimangano sempre gli stessi, per quanto bisognosi di continua riscoperta.
Ai tre testi si aggiunge un filmato, che mostra una traduzione pratica di quanto teorizzato: un’esperienza di notevole interesse che si svolge per le strade di Torino, unendo persone senza dimora, volontari, studenti. Un progetto educativo che viene incontro alla povertà materiale ma ancor più a quella spirituale, facendo emergere dall’esperienza stessa quello che è ormai difficile ricevere da insegnamenti esterni.