RAMAKRISHNA, IL MIO MAESTRO

RamakrishnaOgni nuovo movimento religioso richiede un nuovo centro. La vecchia religione può solo essere rigenerata da un nuovo centro. Lascia stare  dogmi e dottrine: non contano. È un carattere, una vita, un centro, un uomo di Dio che deve far da guida, essere il centro intorno a cui tutti gli altri elementi si riuniranno, e allora si abbatterà come maremoto sulla società, spingendo tutto davanti a sé, lavando via ogni impurità.

Di nuovo, un pezzo di legno può essere tagliato facilmente solo lungo la venatura. Così il vecchio Hinduismo può essere riformato solo attraverso l’Hinduismo, e non attraverso moderni movimenti di riforma. Al tempo stesso i riformatori devono essere capaci di riunire in loro la cultura tanto dell’Oriente quanto dell’Occidente. Ora, pensate di aver già visto il nucleo di un tale grande movimento, di aver udito i profondi rimbombi del maremoto che giunge? Il centro, l’uomo di Dio destinato a guidare, è nato in India. È il grande Ramakrishna Paramahamsa.

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Fu mentre riforme di vario genere venivano inaugurate in India che un bambino nacque da poveri genitori brahmani, il 18 febbraio del 1836, in uno dei remoti villaggi del Bengala. Il padre e la madre erano persone molto ortodosse…

Erano molto poveri, e ancora molto spesso la madre avrebbe rinunciato a mangiare un intero giorno per aiutare un povero. Da costoro il bambino nacque; e fu un bambino speciale fin dall’infanzia. Ricordava il passato fin dalla nascita, ed era consapevole dello scopo per il quale era venuto nel mondo, e ogni energia era dedicata all’ottenimento di quello scopo.

Quando era molto giovane, il padre morì, e il ragazzo fu mandato a scuola…[Vedendo i maestri che disputavano tra loro in una riunione], ne ricavò il seguente insegnamento: “Questo è il risultato di tutta la loro conoscenza. Perché competono così duramente? È semplicemente per denaro; colui che è  in grado di mostrare la più alta dottrina, qui otterrà i migliori vestiti, ed è ciò per cui queste persone stanno lottando. Io non andrò più a scuola”. E così avvenne, smise di andare a scuola. Ma il ragazzo aveva un fratello maggiore, un dotto professore, che lo portò a Calcutta… a studiare con lui. Dopo poco tempo il ragazzo si convinse che lo scopo di tutto l’insegnamento laico era di ottenere vantaggi puramente materiali, e decise di smettere di studiare e di dedicarsi alla ricerca della conoscenza spirituale. Essendo morto il padre, la famiglia era molto povera, e il ragazzo doveva procurarsi da vivere. Giunse in un luogo vicino a Calcutta e divenne sacerdote presso un tempio…

Nel tempio c’era un’immagine della “Madre Beata”. Il ragazzo doveva condurre la preghiera mattina e sera, e a poco a poco quest’unica idea si impadronì della sua mente: “C’è qualcosa dietro l’immagine? È vero che c’è una Madre di Beatitudine nell’universo? È vero che Lei vive e guida l’universo, o è tutto un sogno? C’è qualche realtà nella religione?”…

Quest’idea prese possesso del ragazzo, e la sua intera vita finì per essere concentrata su di essa. Giorno dopo giorno egli piangeva dicendo: “Madre, è vero che tu esisti, o è tutta poesia? È la Madre Beata un’immaginazione di poeti e persone fuorviate, o davvero realtà?” Abbiamo visto che di libri ed educazione in senso mondano non ne aveva, e tanto più naturale, tanto più sana era la sua mente, tanto più puri i suoi pensieri, non diluiti per essersi egli abbeverato nei pensieri altrui… Tuttavia questo pensiero – se Dio possa essere visto – che si era insediato nella sua mente, divenne ogni giorno più forte fino a che egli non poté pensare altro. Non era più in grado di condurre correttamente la preghiera, né di curare minuziosamente i vari dettagli. Spesso dimenticava di collocare le offerte di cibo davanti all’immagine, talvolta dimenticava di far oscillare la luce; altre volte la faceva oscillare per ore, e dimenticava ogni altra cosa.

E quell’unica idea era nella sua mente ogni giorno: “È vero che tu esisti, o Madre? Perché non parli? Sei forse morta?”… Alla fine divenne impossibile per lui servire nel tempio. Lo lasciò ed entrò in una piccola foresta lì vicino per viverci. Circa questa parte della sua vita mi ha detto più volte che non avrebbe saputo dire quando il sole sorgeva o tramontava, né come vivesse. Abbandonò ogni pensiero di sé e dimenticò di mangiare. Durante quel periodo si prese amorevolmente cura di lui un familiare, che poneva nella sua bocca del cibo che egli meccanicamente deglutiva.

Giorni e notti così passarono per il ragazzo. Quando un intero giorno era passato, sul far della sera, quando il rintocco delle campane nei templi, insieme ai canti, raggiungevano la foresta, ciò rendeva il ragazzo molto triste, e piangeva: “Un altro giorno è trascorso invano, Madre, e tu non sei venuta. Un altro giorno di questa breve vita è trascorso, e io non ho conosciuto la Verità”. Nell’agonia della sua anima, talvolta strofinava la faccia per terra piangendo, prorompendo in questa sola preghiera: “O Tu Madre dell’universo, manifestati in me! Guarda quanto ho bisogno di te, e di nient’altro!” Voleva invero essere fedele al suo ideale.

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Così giorni, settimane, mesi passarono nella continua lotta dell’anima per giungere alla Verità. Il ragazzo iniziò ad avere visioni, a vedere cose meravigliose; i segreti della sua natura iniziavano a dischiuderglisi. L’uno dopo l’altro, per così dire, i veli si sollevarono. La Madre stessa divenne l’insegnante, e iniziò il ragazzo alla verità che cercava. A quel tempo venne in quel luogo una donna di bell’aspetto, istruita al di là di ogni confronto. Più tardi il santo era solito dire al suo riguardo che non era solo istruita, ma l’incarnazione della dottrina; ella era la dottrina stessa in forma umana…

Ella era una Sannyasi (asceta); perché anche le donne abbandonano il mondo, si disfano delle loro proprietà, non si sposano e dedicano se stesse all’adorazione del Signore. Ella giunse, e quando udì di quel ragazzo nel boschetto, si offrì di andare a vederlo; e suo fu il primo aiuto che lui ricevette. Immediatamente ella riconobbe la natura del suo turbamento, e gli disse: “Figlio mio, benedetto è l’uomo su cui scende una simile follia… [La gente può] chiamarti folle; ma il tuo è il tipo giusto di follia. Benedetto l’uomo che è folle per Dio. Tali uomini sono molto pochi”. La donna rimase vicino al ragazzo per anni, gli insegnò le forme religiose dell’India, lo iniziò nelle differenti pratiche dello Yoga e, per così dire, lo guidò a ricomporre in armonia quel tremendo fiume di spiritualità.

Poi sopraggiunse nel medesimo bosco un Sannyasi, uno dei monaci mendicanti dell’India, un uomo colto, un filosofo. Era un uomo particolare, un idealista. Non credeva che questo mondo esistesse in realtà, e per dimostrarlo non voleva mai rifugiarsi sotto un tetto; voleva sempre vivere all’aperto, che ci fosse il sole o la bufera. Quest’uomo cominciò a insegnare al ragazzo la filosofia dei Veda, e scoprì molto presto, con suo sbigottimento, che l’allievo era sotto alcuni aspetti più saggio del maestro. Egli trascorse colà vari mesi con il ragazzo, dopo di che lo iniziò all’ordine dei Sannyasi e poi se ne andò.

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L’ulteriore desiderio che si impadronì dell’anima di quest’uomo fu di conoscere la verità intorno alle varie religioni. Fino a quel tempo non aveva conosciuto alcuna religione se non la propria. Egli voleva dunque conoscere come fossero le altre religioni. Così cercò insegnanti di altre religioni. Per insegnanti bisogna sempre ricordare cosa intendiamo in India: non un topo di biblioteca ma un uomo realizzato, uno che conosce la verità di prima mano e non attraverso un intermediario. Egli trovò un santo musulmano e si mise sotto di lui; si sottopose alla disciplina da lui prescritta, e con sua meraviglia scoprì che, quando vi si dedicava pieno di fede, quei metodi devozionali lo conducevano agli stessi risultati che aveva già ottenuto. Visse una simile esperienza seguendo la religione di Gesù Cristo. Si accostò a tutti i culti che fu in grado di incontrare, e qualunque cosa intraprendesse lo penetrò con tutto il cuore. Faceva esattamente come gli era stato detto, e in ogni circostanza giungeva allo stesso risultato. Così, dall’attuale esperienza, venne a sapere che lo scopo di ogni religione è il medesimo, che ciascuna cerca di insegnare la stessa cosa, essendo per lo più la differenza nel metodo, e ancor più nel linguaggio…

Ciò è quel che il mio Maestro ha trovato, e ha iniziato allora a insegnare l’umiltà, perché aveva scoperto che l’unica idea in tutte le religioni è: “Non me, ma Tu”, e colui che dice “Non me”, il Signore colma il suo cuore…  Egli ora si dispose a realizzare ciò. Come vi ho detto, quando voleva fare qualcosa, non si limitava mai a belle teorie, ma voleva immediatamente entrare nella pratica. Si vedono molte persone che dicono nel modo più mirabile belle cose intorno alla carità e all’uguaglianza e ai diritti degli altri e a tutto ciò, ma è solo in teoria. Io sono stato così fortunato da trovare uno che era capace di mettere in pratica la teoria. Aveva la più straordinaria facoltà di mettere in pratica qualsiasi cosa pensasse fosse giusto.

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I suoi gioielli di spiritualità guadagnati a caro prezzo, per i quali aveva speso tre quarti della sua vita, erano adesso pronti per essere donati all’umanità, e allora iniziò la sua missione.

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La prima parte della vita del mio Maestro fu dedicata ad acquisire la spiritualità, e i rimanenti anni a distribuirla… Gli uomini venivano a frotte ad ascoltarlo, ed egli avrebbe parlato venti ore su ventiquattro, e non solo per un giorno ma per mesi e mesi, fino a che il corpo cedette sotto la pressione di quel tremendo sforzo. Il suo intenso amore per il genere umano non gli avrebbe consentito di rifiutare l’aiuto anche per il più umile delle migliaia che cercavano il suo soccorso. Gradualmente si sviluppò una grave malattia alla gola, e ancora non si lasciava convincere a desistere da quelle fatiche. Non appena udiva che persone chiedevano di vederlo, insisteva perché fossero introdotte, per poter rispondere a tutte le loro domande. Quando gli si facevano rimostranze, replicava: “Non mi preoccupo. Sono pronto a donare ventimila di questi corpi per aiutare un solo uomo. È glorioso aiutare anche un solo uomo”. Non si concesse alcun riposo. Una volta un grande uomo gli chiese: “Signore, tu sei un grande Yogi, perché non rivolgi un po’ la tua mente sul tuo corpo e non curi la tua malattia?” Dapprima egli non rispose, ma quando la domanda gli fu ripetuta, gentilmente disse: “Amico mio, pensavo che tu fossi un saggio, ma parli come altri uomini del mondo. Questa mente è stata donata al Signore. Vuoi dire che dovrei riprenderla e subordinarla al corpo, che non è altro se non una prigione per l’anima?”

Così andò avanti a predicare alla gente, e si sparse la voce che il suo corpo stava per venir meno, e la gente cominciò a riversarsi su di lui in folle più che mai numerose… e il mio Maestro continuava a insegnare loro, senza il minimo riguardo per la sua salute. Noi non potevamo impedire che accadesse. Molte persone venivano da lunghe distanze, ed egli non avrebbe riposato prima di aver risposto alle loro domande. “Finché posso parlare, devo insegnare loro”, diceva, ed era buona come la sua parola. Un giorno ci disse che in quella giornata avrebbe deposto il corpo, e, ripetendo la più sacra parola dei Veda, entrò nel Samadhi e ci lasciò.

 

Swami Vivekananda, ‘On Homself’, Advaita Ashrama, Kolkata (India) 2006, pp. 46 - 59

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