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L’incontro con lo straniero alla luce della filosofia di Panikkar

panikkar 4Può essere abbastanza ovvio che il nodo dell’incontro con lo straniero abbia oggi notevole rilevanza sociale, e che affrontarlo richieda una filosofia adeguata: cioè una filosofia non più solo occidentale ma a tutti gli effetti interculturale. Poiché si tratta di una strada che a livello accademico trova già qualche riscontro, in particolare nell’ambito della cosiddetta filosofia comparata, ma il cui senso deve ancora essere chiarito, quel che segue è innanzitutto la presentazione di un autore, Raimon Panikkar, che può fornire un contributo decisivo in merito.

Nel prospettare ciò, avverto però che a un livello più profondo il rapporto potrebbe invertirsi, e l’incontro con lo straniero diventare la metafora per comprendere un pensiero così sorprendente come quello di Panikkar, collegabile con una grande svolta culturale.

Consentendomi di mantenere una certa ambiguità fra i due piani, vorrei preliminarmente esplicitare i presupposti da cui il discorso viene formulato: a tal fine introdurrò una chiave di lettura non direttamente desunta da Panikkar, ma che si incontra felicemente col suo pensiero.

Sul piano storico risulta evidente che la vicinanza in cui si trovano a vivere oggi le diverse culture del pianeta ha le sue radici nel movimento espansionistico della civiltà occidentale degli ultimi secoli, con un parziale precedente nell’antichità greco-romana. Un movimento che ha esercitato una fortissima pressione sulle altre culture, talora distruggendole, talora costringendole a ridefinirsi, anche con successo, nelle nuove condizioni date; col risultato che attualmente coesistono due opposte tendenze: da un lato persiste l’onda lunga dell’occidentalizzazione, dall’altro è iniziato da tempo un processo di de-occidentalizzazione. Ha scritto Giuseppe Tucci: “L’avvenimento maggiore al quale oggi assistiamo è l’ingresso dell’Asia nella storia”. [1]

In questa prospettiva si intende dunque come, non da oggi, l’Occidente sia indotto a interrogarsi sui caratteri della propria identità, mentre gli altri premono per collocarsi nella dimensione culturale che l’Occidente ha insegnato a chiamare Storia. Il punto è infatti che tale dimensione è originariamente a loro ignota, occupando un posto che invece è tipico della Tradizione: si può osservare, sotto questo aspetto, che la civiltà occidentale è quella che identifica se stessa con la Storia, mentre le altre si identificano nella Tradizione. Ne consegue che le vicende in atto assumono un diverso senso a seconda dell’orizzonte che le interpreta.

Nel dire ciò mi collego, sia pur succintamente, a una costellazione di pensiero che è stata centrale nella grande filosofia del Novecento, che proprio qui a Torino ha conosciuto un importante sviluppo con l’opera e la scuola di Pareyson, e in particolare vorrei citare un testo fondamentale: Tradizione e avventura, di Giuseppe Riconda[2]. Ripensando radicalmente dal punto di vista cristiano il senso della filosofia moderna, Riconda propone di pensare che lo sradicamento dalla Tradizione abbia generato i filoni di pensiero dominanti, che hanno di volta in volta emarginato altre possibilità. Mi permetto dunque di accogliere questa chiave di lettura, proponendo di estenderla alla cultura occidentale nel suo complesso, e identificando il senso del moderno paradigma storico, quale prende forma nel pensiero soprattutto di Hegel, di Marx e di Nietzsche, con quel che Riconda qualifica come “avventura”: cioè una visione degli eventi dimentica del fatto che è l’Origine a illuminarne il senso.

In questa prospettiva ritengo lecito pensare che la Tradizione sia ciò che nessuno meglio di Luigi Pareyson ha rappresentato in Verità e interpretazione[3]: un orizzonte di per sé insondabile che si rende attingibile attraverso le vie che lo rivelano. Si può dire allora che l’uomo della Tradizione sia sorretto da una duplice forza: dalla fede incrollabile nell’unicità dell’orizzonte e dalla consapevolezza del pluralismo dei linguaggi. Per questa ragione l’incontro con lo straniero può essere prezioso: perché consente di riattingere, al di là delle incomprensioni, una possibile ulteriore manifestazione della Verità. Viceversa, l’uomo della Storia ha volto le spalle alla Verità e si è reso sordo ai linguaggi che la interpretano. Riponendo ogni fiducia nell’unico linguaggio artificioso che egli stesso ha creato, si è reso lo straniero impenetrabile, essendo in fondo straniero a se stesso.  

Vedendo le cose in questa luce, si capisce come l’identità dell’Occidente, dimentica delle sue stesse radici spirituali, si sia di volta in volta costituita in antitesi a un’alterità intesa come barbarica, primitiva e comunque oggetto di rifiuto o di conquista, salvo suscitare in talune circostanze un’inspiegabile nostalgia. Fino a che le vie del colonialismo hanno portato al confronto ineludibile con le grandi civiltà asiatiche.

Quando pensiamo alla forza d’attrazione esercitata dall’India su generazioni che dall’Europa e dall’America vi hanno condotto il loro pellegrinaggio, non dobbiamo pensare a un fenomeno recente. È nel contesto del Romanticismo che l’India comincia a essere fondamentale.

La ragione è semplice: agli occhi di un Occidente sempre più radicalmente investito dall’onda della secolarizzazione, l’India è apparsa la terra dove la Tradizione, nelle sue radici più profonde, può ancora essere incontrata. Chi ancor oggi vi si reca infatti, malgrado gli imponenti processi di modernizzazione, può incontrare, più che in qualsiasi altro luogo del mondo, l’intera stratificazione della vicenda umana. Sulla base di tale straordinaria ricchezza, l’India è stata in grado, non solo di resistere alla penetrazione europea, ma di produrre risposte culturali la cui ampiezza e articolazione è tuttora da valutare. Forse un giorno si dirà: India capta ferum victorem cepit.

Non deve stupire allora in questo quadro che a metà del Novecento prenda forma una vicenda che sarà forse ricordata come tra le più avvincenti sul piano simbolico degli ultimi secoli.

Il contesto è quello di un mutamento d’indirizzi all’interno della Chiesa Cattolica: il passaggio dall’idea, subalterna alla logica coloniale, di portare il Vangelo di Cristo ad altri popoli, sostituendosi alle precedenti tradizioni, a quella in cui invece si cerca un incontro: dove non si va soltanto a insegnare ma anche e forse soprattutto a imparare. E di imparare c’è più che mai bisogno: la fede pare in Occidente regredire; una nuova visione della vita viene affermandosi, in cui Dio diventa  inutile.

In tale contesto, già dalla fine degli anni trenta, un sacerdote francese, Jules Monchanin, si trasferisce in India con l’intento di fondare un insediamento cattolico radicato nella tradizione spirituale indiana. Verrà poi raggiunto da un monaco bretone, Henry Le Saux, e dalla loro opera nascerà l’ashram di Saccidananda. Sat, Cit e Ananda sono in lingua sanscrita i tre fondamentali attributi del divino, cioè rispettivamente Verità, Intelligenza e Beatitudine, e verranno assimilati alla Santissima Trinità. Soprattutto Le Saux, che assumerà il nome di Abhishiktananda, cioè “Beatitudine dell’Unto del Signore”, vivrà un’esperienza di profonda integrazione tra fede cristiana e spiritualità hindū, così come Bede Griffiths, il monaco inglese sopraggiunto ad assumere la guida di Saccidananda.

Ebbene, a questi tre personaggi, che qualcuno ha chiamato “i tre Magi venuti dall’Occidente”[4], si affiancherà Raimon Panikkar, che formulerà il suo pensiero sulla base non solo del suo personale vissuto, ma anche dell’esperienza interiore dell’amico Abhishiktananda. Le sue stesse origini familiari furono da lui sempre intese come ciò che lo predisponeva a quella missione.

Nato nel 1918 a Barcellona, suo padre era indiano e il giovane Raimon, cresciuto nell’ambiente cattolico materno, non poteva tuttavia credere che egli, in quanto non cristiano, sarebbe un giorno finito all’Inferno. Entrato a far parte del gruppo originario dell’Opus Dei, da cui poi si separerà, e indotto al sacerdozio dallo stesso Escrivà de Balaguer, venne dopo alcuni anni destinato all’India, dove ebbe inizio un viaggio spirituale di immersione in tradizioni che non volle considerare separate dalla propria, come è testimoniato nelle parole sue più famose: “Sono “partito” cristiano, mi sono “scoperto” indù e “ritorno” buddhista, senza avere mai cessato di essere cristiano”[5]. Il pensiero di Panikkar è inseparabile da questa esperienza, a cui egli stesso si riferì come all’“avventura mistica di vedere la verità dall’interno di più di una tradizione religiosa”[6].

È evidente che un simile vissuto sembra porre in discussione il modo abituale di intendere il nesso tra identità e alterità. Per quanto nella cultura moderna, come nella classica formulazione di Hegel, sia chiaro il reciproco rimando e la complementarità, il principio del conflitto consente di mantenerli separati, e l’unità si trova a un livello superiore, ma in una nuova identità in cui le precedenti sono annullate. Invece in Panikkar le identità si compenetrano, senza al contempo perdere i loro caratteri. In un testo significativo, così si esprime al riguardo:

Permettetemi ancora una volta di fare riferimento alla mia esperienza personale. Posso comprendere e anche parlare più di una lingua come se fosse la mia. Vale a dire che posso pensare all’interno di un dato universo linguistico senza bisogno di tradurre da un altro. Ciò naturalmente si applica anche alle religioni in quanto lingue. (…)

Nessuno ha il monopolio della verità, né tantomeno si può dire che i cristiani abbiano il monopolio di Cristo. Cristo è semplicemente (a questo livello del discorso) il simbolo cristiano per la verità, ma non costituisce l’unica definizione possibile, né si può dire che la parola «Cristo» riveli tutti gli altri possibili aspetti della verità. Tuttavia i cristiani non possono che usare questo nome pur confessando che non conoscono l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza, la profondità di quel mistero che sorpassa ogni conoscenza (Ef 3,18-19).

Questo è detto in termini cristiani, ma è possibile parlare altre lingue che esprimono forza di liberazione e Grazia salvifica – non solo per i credenti delle rispettive religioni (il che è ovvio), ma anche per me. Non è necessario tradurre dal cristianesimo, ma è possibile parlare più lingue. Così facendo scopro che non dico la «medesima cosa», ma che è il mio stesso sé che esprime con sincerità le sue convinzioni. Si tratta di un lingua parallela e posso capire entrambe.

(…) Sono un cristiano che Cristo ha condotto a sedersi ai piedi dei grandi maestri dell’induismo e del buddhismo diventando anche loro discepolo. (…)

Ma questo non è tutto. All’altro estremo dello spettro posso compiere passi analoghi. Sono un hindū portato dal suo karman a incontrare il Cristo e un buddhista che grazie all’impegno personale ha conseguito risultati simili nelle altre due tradizioni.

(…)

Qual è allora la mia religione? Non appartengo simultaneamente a tutte e tre? O piuttosto non vengono armoniosamente trasformate in me? Non sono forse le acque del Bhāgirāthī, dell’Alaknanda, del Gomati, dello Yamunā, del Ghaghra, del Son, dell’Assi, del Varuņa, tutte acque del Gange dopo un certo punto? (…) [7]

            Nel testo ora citato in realtà coesistono tre elementi.

Il primo, espresso dalla metafora delle lingue parallele, è quanto abbiamo introdotto parlando della filosofia di Pareyson, cioè l’intima coappartenenza della Verità e delle interpretazioni attraverso cui essa si manifesta. Quando parliamo, non è possibile non usare una lingua, e quel che diciamo è condizionato dalle sue strutture. Il che non significa che esistano solo lingue e non ciò che abbiamo da dire, ma che, nel parlare, siamo vincolati ai limiti della lingua che usiamo.

Il secondo elemento è dato dall’esperienza di conoscere più lingue. Ciò comporta una radicale esperienza di decentramento, a cui, come abbiamo visto, Panikkar attribuisce valore addirittura mistico.  

            Il terzo elemento, espresso dalla metafora della confluenza delle acque fluviali, indica invece la connessione della tradizione ricevuta con l’esperienza personale. Le condizioni di un tempo rendevano inevitabile pensarla in termini di appartenenza, ma non così necessariamente è oggi, e a ben vedere non è detto che questo sia il senso profondo della Tradizione. Panikkar, nello stesso testo, distingue la novità storica che caratterizza i giorni nostri dalla sfida metafisica che vi è implicita, connessa con il “nucleo mistico” delle religioni e con la de-assolutizzazione delle visioni.

La novità storica è ovvia. Le religioni un tempo venivano identificate a seconda della tribù di appartenenza. Successivamente, la loro identità era basata su una credenza dottrinale che si supponeva fosse la forza unificante delle istituzioni religiose. In termini generali ancora oggi definiamo così le religioni. Il prossimo periodo storico metterà l’accento sul fattore esperienziale. Le religioni verranno principalmente identificate dall’insieme di esperienze di fede che gradualmente troveranno le dottrine appropriate e fonderanno strutture e istituzioni più adeguate. La tradizione non è semplicemente la ripetizione del passato ma il «passaggio di mano» (traditio) delle esperienze fin lì accumulate, in forma adeguatamente trasformata. Le caratteristiche polimorfe dell’induismo possono darci un’idea di ciò di cui sto parlando.

Quella che ho chiamato «sfida metafisica» potrebbe essere l’altro nome del pluralismo. (…) la dimensione religiosa degli esseri umani, o religiosità, è qualcosa di più di un mero costrutto sociologico. Le religioni hanno un nucleo mistico.

La sfida metafisica de-assolutizza tutti i nostri modi di pensare e persino di essere. Le religioni non devono per forza seguire le vie note e già percorse. (…)

Le religioni non sono dighe immobili e artificiali che devono contenere l’acqua per produrre energia. Le religioni sono fiumi che scorrono, nutriti dai ghiacciai dei rśi e dei profeti, fonti distinte delle passate tradizioni rinnovate dalle nuvole prossime della storia contemporanea che pure vengono dal cielo per dare vita alla terra e agli esseri umani. [8]

L’aspetto della sfida metafisica qualifica la novità storica: quest’ultima non discende solo dalla fattualità delle cose, ma dal riemergere, nelle circostanze date e nelle forme corrispondenti, di un fondamento originario. Il che autorizza a introdurre un terzo elemento: si può cioè parlare di mutazione religiosa, non come passaggio da una religione all’altra ma come “fedeltà superiore all’insondabile Grazia dello Spirito”. Così il testo continua:

La mutazione religiosa non è frutto di una rivoluzione violenta o di un attacco esterno, ma frutto di una crescita interiore a ogni tradizione. La via non passa dunque dall’apostasia o dall’abbandono della religione, ma da una fedeltà superiore all’insondabile Grazia dello Spirito, che, come dice la Bibbia ebraica, «è un vento silenzioso» (1 Re 19,12)

Siamo co-creatori e non solo delle nostre vite. Siamo anche co-creatori delle nostre religioni. Il futuro del’umanità dipende da questo. Il nuovo millennio sarà determinato da una radicale metanoia umana oppure non sarà. (…) [9]

In questa luce appare chiaro che, qualora l’opera di Panikkar venga pensata come all’origine di una svolta nel pensiero, tale svolta si colloca innanzitutto in una condizione che l’emergere del pluralismo qualifica in profondità: una condizione in cui le culture sono chiamate a collaborare, anzi fecondarsi reciprocamente. In un testo di cui avremo da parlare, Il silenzio del Buddha, Panikkar dice:

Nessuna cultura, nessuna religione può da sola risolvere il problema umano. (…) Da qui la necessità urgente di una mutua fecondazione tra le tradizioni umane, fecondazione che da vari decenni vado difendendo. Siamo vicendevolmente relazionati e la soluzione non potrà mai essere unilaterale. «Salus ex judaeis» (la salvezza viene dai giudei) poteva forse valere di fronte ai samaritani, ma non è un principio universale.[10]

Sotto questo aspetto la sua personale esperienza di compenetrazione di più identità religiose, più che essere un modello proposto ad altri, vuol essere la testimonianza fondativa, in quanto tale condotta all’estremo, di un compito che egli ritiene sia oggi proposto all’umanità. Una testimonianza in cui convergono una vocazione profondamente cristiana, cioè il dono di sé all’altro, sentito, attraverso l’amore, come non separato da sé, e la critica dell’identità come entità separata che è tipica della filosofia dell’India, soprattutto buddhista. L’idea infatti di una mancanza di esistenza inerente del sé, correttamente intesa, non conduce alla sua nullificazione, bensì alla comprensione dell’Interdipendenza. Identità e alterità non esistono in assoluto, ma come termini che si definiscono di volta in volta in un continuum.

Una certa difficoltà che la lettura dei testi di Panikkar comporta è senz’altro legata a questa diversa struttura del pensiero rispetto alla filosofia che ci è abituale, salvo tendenze rizomatiche del post-moderno; le quali peraltro hanno il difetto di non definire l’ambito esperienziale a cui si riferiscono. È noto che modi del pensiero tipici dell’esperienza religiosa, il cui senso è legato a percorsi rigorosamente strutturati, possono avere effetti devastanti qualora proposti in modo incontrollato al di fuori di quel contesto.

A riprova di questa particolare qualità del pensiero di Panikkar, nel testo citato, Il silenzio del Buddha, egli riformula la sua professione di plurima appartenenza non citando più l’Hinduismo e invece introducendo, accanto a Cristianesimo e Buddhismo, il “mondo culturale contemporaneo”[11], intendendo l’Occidente secolarizzato, particolarmente caratterizzato dal fenomeno dell’ateismo. Nell’apparente incoerenza si mostra un atteggiamento di fondo.

L’Occidente secolarizzato non è infatti certo il punto di vista da cui guardare le altre culture, tutte intimamente impregnate di religione, ma neppure ciò a cui contrapporsi, e neppure ancora la condizione con cui le culture religiose devono confrontarsi. Il punto è che infatti in Panikkar la comprensione dei fenomeni non si basa su un pensiero dicotomico, ma su una più ampia e articolata visione, in cui più possibilità sono in vario modo compresenti a costituire una realtà organica. Sotto questo aspetto la moderna società secolarizzata è una possibilità accanto ad altre, che andrà compresa in un più ampio quadro della civiltà umana e del destino stesso dell’Essere. Il che significa, tornando a un discorso iniziale, che, se la Storia esclude la Tradizione, la Tradizione può benissimo includere la Storia.

Detto ciò, se consideriamo il pensiero di Panikkar, o meglio il nesso inscindibile della sua esperienza e dei suoi scritti, in connessione con una grande svolta culturale, dobbiamo anzitutto affrontare una ridefinizione del senso della filosofia. Al riguardo Panikkar ha esitato ad adottare addirittura la parola, ritenendola legata a un significato riduttivo. Nell’opera che, a torto o a ragione, viene ritenuta più qualificante per comprendere la “sua filosofia”, cioè Il ritmo dell’Essere, propone di parlare invece di Sofia [12], volendo porre in luce il carattere sapienziale del sapere di grado più elevato.

In ogni caso, al di là delle parole, è chiaro che si deve ritrovare un rapporto originario con quel che in genere è chiamiamo “ricerca spirituale”; intendendo ciò che Panikkar intende con “mistica”: cioè l’esperienza di una più profonda e ricca pienezza di vita [13].

Bisogna dunque abbandonare ogni facile distinzione tra logos e mito, per non dire tra filosofia e religione. Il mito torna anzi in Panikkar a essere centrale in senso trasversale alle culture, come il complesso dei presupposti che una certa epoca accetta come indiscutibili: col risultato sorprendente di scoprire mitica la moderna visione scientifica della realtà. Si tratta di un percorso di cui non possiamo qui seguire il tracciato né valutare l’esito, ma di cui mi preme stabilire il presupposto, in una sede che non può che essere filosofica.

C’è infatti un testo, ed è quello stesso già nominato, cioè Il silenzio del Buddha, in cui Panikkar affronta il compito decisivo: quello di fondare, in un giudizio o in una scelta ben precisa, tutto il senso del suo discorso. Questo avviene, riprendendo il filo della metafora, attraverso un incontro: quello con il Buddha. Un incontro non previsto, perché ciò di cui Panikkar era andato in cerca era l’Hinduismo, ma proprio per questo risolutivo. Sotto un certo aspetto per lui, che in un certo senso hindū era già fin dalla nascita, Buddha fu davvero lo straniero, che gli consentì di intraprendere quella che sarebbe stata la sua via. Una via che egli sempre più intese come testimonianza della mutazione religiosa di cui si diceva, tant’è che anche gli atti esteriori della sua vita si disposero con una particolare attenzione agli aspetti simbolici: si veda ad esempio il pellegrinaggio compiuto in tarda età, in compagnia di Milena Carrara Pavan, al monte Kailāsa [14].

Buddha è del resto lo straniero per l’Occidente in quanto tale, perché la sua enigmatica alterità consente a molti di accettare quel che, per ostacoli culturali troppo radicati, si vietano dal Cristianesimo. Straniero è addirittura per l’India, per quanto tutta la sua storia ne sia stata plasmata.

Il silenzio del Buddha è un’opera che ha conosciuto una gestazione di ben cinque decenni, che furono per Panikkar di progressivo chiarimento intorno al senso del suo percorso. Ebbene, a un certo punto apparve che fin dall’inizio esso era inconsapevolmente orientato dal problema emergente nella cultura occidentale moderna: quello dell’ateismo.

Quando all’inizio degli anni Sessanta cominciai a lavorare alla stesura di questo libro, avevo già raggiunto la confluenza del cristianesimo con l’induismo, ma non si era ancora sufficientemente delineata la mia identità personale, né mi ero liberato di certi elementi circostanziali non assimilati. Mi mancava ancora di integrare con profondità intellettuale e intensità esistenziale il grande fenomeno post-cristiano, noto con il nome di ateismo, e il grande fenomeno post-hindū, noto con il nome di buddhismo. Soltanto ora, dopo molti anni, mi rendo conto del significato profondo della mia odissea.[15]

Il fatto che il titolo che originariamente Panikkar aveva pensato per il libro fosse Il silenzio di Dio getta un’ulteriore luce sul senso del suo percorso.

Il titolo iniziale di quest’opera, Il silenzio di Dio, rifletteva l’inquietudine di buona parte dell’umanità attuale. (…) Il divino, o il sovrumano se si preferisce, è stato un punto di riferimento quasi costante nella storia dell’umanità, anche se ha dato luogo a varie interpretazioni. Ebbene, è proprio questo punto di riferimento a essere oggi in crisi. Questo è il problema di Dio, anche se viene chiamato con numerosi altri nomi: è la questione del centro della realtà e del senso della vita umana.[16]

Evidentemente il “silenzio di Dio” era la domanda e il “silenzio del Buddha” la risposta a cui, dopo lungo cammino, si arriva. Il che non significa un cambio di religione, ma qualcosa di più complesso. Se volessimo dirlo con un’immagine, può senz’altro essere quella della confluenza dei fiumi. Si prenda comunque atto di quel che Panikkar da parte sua fa intendere in ogni modo: che il suo immergersi nella spiritualità indiana è una ricerca delle sorgenti vive della fede, in gran parte disseccate in Occidente. Una ricerca in cui egli rimane cristiano e insieme trascende il Cristianesimo, attingendo un senso originario e universale dell’esperienza religiosa che solo può costituire una base per il futuro.

Il fatto che la necessità di un incontro col Buddhismo scaturisca dal particolare carattere del fenomeno che occupa la scena contemporanea, cioè l’ateismo, spalanca uno scenario tanto ampio quanto la vicenda umana.

Manchiamo, evidentemente, di una prospettiva che ci consenta di caratterizzare in modo appropriato il nostro tempo e di riconoscere con autorità «i segni dei tempi». Non ci pare, tuttavia, di essere lontani da una diagnosi corretta se riconosciamo nel cosiddetto ateismo contemporaneo un fenomeno nuovo e di rilevante grandezza, paragonabile a uno dei grandi momenti dell’umanità e degno di essere collocato in quel VI secolo prima dell’era cristiana. [17]

Il riferimento al sesto secolo è importante, perché collega l’epoca attuale a quell’altro momento nella vicenda umana, l’Epoca Assiale di cui parla Jaspers[18], in cui si verificò una profonda crisi della coscienza, da cui trasse origine una svolta i cui effetti giungono fino ai giorni nostri. Il riferimento a Jaspers, per quanto fugace, non deve passare inosservato, perché egli fu l’unico, tra i grandi filosofi del Novecento, a tentare una ricostruzione del pensiero umano tenendo conto non solo dell’Occidente. Nell’opera, rimasta incompiuta, dal titolo I grandi filosofi[19], Jaspers traccia il disegno di una quadruplice ascendenza della filosofia universale, riconducendola a quattro personalità decisive: Socrate, Buddha, Confucio e Gesù. Si potrebbe dire che Panikkar si ricolleghi, con le debite differenze, a quel disegno.

Quello che infatti si verificò intorno al sesto secolo, che Panikkar analizza in riferimento al contesto ebraico, persiano, greco, cinese e indiano, fu un cambiamento nei rapporti fra quelle che per Panikkar sono le tre dimensioni della realtà, il Mondo, Dio e l’Uomo, nel quale fu quest’ultimo a emergere con particolare forza. Sotto un certo aspetto il moderno ateismo non è che il giungere alle estreme conclusioni di un movimento che si generò allora, quando ebbero luogo le riforme religiose da cui scaturiscono le tradizioni che segneranno la storia successiva.

L’Uomo scopre se stesso e in se stesso incontra (o forse perde) Dio e il Mondo. È questo il momento in cui si risveglia l’autocoscienza o la coscienza riflessa, e nascono le grandi riforme religiose. Per un certo periodo l’antropocentrismo sarà sfumato e anche dissimulato, e si manifesterà piuttosto come purificazione e interiorizzazione del concetto di Divinità; alla lunga, però, esso risplenderà in tutta la sua forza, quando l’uomo si considererà non solo «misura di tutte le cose» e mediatore tra Cielo e Terra, ma anche come suo centro di riferimento e, più avanti, come suo stesso centro ontologico. (…) Lo «spirito» che, anche se definito divino, è il potenziamento dello spirito umano, invade tutto. In una parola, l’antropologico raggiunge il primato. [20]

Veniamo così all’oggi:

Da un punto di vista pratico si potrebbe dire che quello che sta succedendo all’interno dell’uomo è la messa in opera di una specie di concentrazione della trilogia Mondo, Uomo, Dio, in un’unica «cosa» che, chiaramente, si avvicina di più all’Uomo che alle altre dimensioni del Reale. Non si tratta quindi, a rigore, della «morte di Dio» ma piuttosto dell’assimilazione, della deglutizione di Dio da parte dell’Uomo. In realtà Dio non è morto, ma l’uomo se lo è mangiato, espressione, questa, che in un certo senso indica perfettamente la conseguenza dello sviluppo secolarizzato del rito cristiano fondamentale. L’uomo ha ricevuto il suo Dio in comunione e lo ha inghiottito definitivamente. [21]

Sotto un altro aspetto però ha inizio, in quel sesto secolo, un processo destinato ad avere conseguenza altrettanto rilevanti: il superamento dell’originario antropomorfismo del divino attraverso la sua progressiva identificazione con l’oggetto per eccellenza del pensiero, cioè l’Essere.

Questo secondo atto nasce dallo sforzo compiuto dall’intelletto umano di purificare il concetto di Dio con l’intento di disantropomorfizzarlo. In tale processo la nozione di Dio va acquistando una sempre maggior consistenza metafisica, e finisce a poco a poco per convertirsi in Essere.[22]

Si tratta di un processo che avviene parallelamente in Occidente, quando “il Motore primo di Aristotele si trasforma nel Dio dei cristiani”, e in India, dove “Indra, Varuna, Śiva altro non saranno che nomi diversi dell’unico brahman[23], anche se solo in Occidente si manifesteranno le conseguenze storiche che condurranno al moderno ateismo. Questa identificazione di Dio con l’Essere avviene infatti in Occidente sul presupposto di un’altra identificazione, quella operata da Parmenide tra l’Essere e il Pensiero, dando luogo all’ontologia platonico-aristotelica. Essa costituisce la base filosofica del monoteismo e pone, congiungendo ragione e religione, un inamovibile fondamento per la coscienza; ma è al contempo afflitta da un’intrinseca debolezza, perché a un certo punto l’Essere si separa da Dio, determinando così l’evento della morte di Dio quale è rappresentato da Nietzsche.

Dio è morto perché era stato identificato con l’Essere ed ecco che risulta che questo Essere dell’ontologia scompare e diventa problematico. Il significato primo della morte di Dio significa il rifiuto di qualsiasi meta-fisica, la negazione cioè di qualsiasi realtà che vada oltre a quanto i sensi certificano. [24]

Se qualcuno dubitasse del fatto che Panikkar si sia confrontato con gli assi portanti della filosofia occidentale, appare chiaro da quanto appena detto che egli riformula in termini forse più convincenti tutta la visione di Heidegger di un destino dell’Occidente come oblio dell’Essere, ovvero come riduzione dell’Essere a Ente, compreso il nesso intrinseco di metafisica e Volontà di Potenza. Dico più convincenti perché aderenti alle forme vive della coscienza collettiva, rappresentate in primo luogo dalle religioni; e anche perché capaci di accogliere quello a cui Heidegger rimase estraneo, cioè il senso emancipativo dell’ateismo quale invece viene espresso da tutt’altro versante di pensiero, ad esempio Feuerbach e addirittura Nietzsche. Occorre infatti pensare al moderno ateismo come un ateismo religioso, in quanto caratterizzato da una ricerca di salvezza che è normalmente tipica delle religioni.

Intendiamo dire che è un ateismo che «salva» l’uomo dagli artigli di una trascendenza alienante (senza la corrispondente immanenza), che lo libera dalla superstizione come dalla credulità nella scienza. E una delle funzioni di ciò che chiamiamo «religione» è quella di cercare una «salvezza», comunque la si voglia intendere. Si tratta di un ateismo che, vincendo l’illusione del passato e il miraggio del futuro, si trova nuovamente di fronte al presente e si vede obbligato, in un modo o nell’altro, a riconoscergli tutta la consistenza che gli «eternalisti» vorrebbero conferirgli senza però sostanzializzarlo, senza convertirlo in eternità, in altro (aliud), in idolo. [25]

La visione che Panikkar esprime del moderno ateismo è dunque tale da cogliere in esso la possibilità latente di una nuova visione spirituale, di cui però nessuno ancora ha saputo esprimere chiaramente il senso.

Nonostante siano già comparsi in questi ultimi secoli grandi figure profetiche e pensatori di notevole importanza, non si è visto nessuno che, come un Śākyamuni, un Zarathustra o un Confucio, sia stato in grado di personificare questo movimento e di dirigerlo, di «sublimare», di «far precipitare» (nel senso chimico della parola) o, per lo meno, di aiutare a venire alla luce questo «uomo nuovo» ancora in lenta gestazione. Sino a ora si è cercato soprattutto di gettare le basi di un comportamento sociale, sociologico ed economico, ma non si è quasi affrontato il problema da un punto di vista profondamente religioso, teologico-filosofico e antropologico che tenga conto di questa mutazione umana in senso strutturale. [26]

In assenza di ciò, l’ateismo è una condizione di fatto in cui, distrutta la precedente visione religiosa, l’uomo si mostra incapace di accedere a una visione che sappia davvero sostituirla e addirittura precipita nell’assenza di riferimenti.

… una volta eliminato il Dio Sostanza ed Essere Supremo, perché di questo si tratta, una volta introdotto l’ateismo, le conseguenze non sono molto migliori, anzi al contrario. Dio poteva essere o apparire una soluzione comoda, borghese, per molti problemi della vita dell’uomo moderno, ma nel bene e nel male rappresentava un’ipotesi che, una volta accettata, forniva un punto ultimo di riferimento e risolveva molti problemi. L’uomo solo, senza Dei e senza Dio, semplicemente non si sostiene e deve forgiarsi ogni sorta di idoli per sopravvivere. L’ateismo è forte quando si tratta di distruggere una determinata concezione di Dio, ma si manifesta impotente quando pretende di trasformarsi in una visione del mondo che sostituisca quanto ha distrutto; allora si può dire che il rimedio è peggiore della malattia. [27]

Sorge a questo punto la domanda cruciale: se sia possibile un atteggiamento religioso che sfugga al vicolo cieco dell’identificazione di Dio con l’Essere, e prima ancora dell’Essere col pensiero umano. Si tratta allora di esplorare una strada diversa da quella percorsa dalla teologia occidentale, o almeno dai suoi filoni dominanti, ed è qui che l’incontro col Buddha può rivelarsi fecondo.

Se la storia del Dio dell’Essere è stata in gran parte già scritta, la storia del «non-essere» di Dio, che suscita questi interrogativi, è ancora da percorrere da parte del mondo occidentale moderno. Non per niente c’è stato l’«Illuminismo». E questa storia ancora da viversi ci sembra appartenere al kairós del mondo presente. Il messaggio del Buddha, a nostro avviso, non si discosta molto da questa impresa, ardua come ogni nuovo cammino verso l’ignoto. [28]

La nuova via, cioè la mutazione religiosa a cui siamo chiamati, si presenta dunque sotto certi aspetti analoga a quella aperta dal Buddha duemilacinquecento anni or sono. Tale analogia, però, non deve far pensare che il Buddhismo in quanto tale sia destinato a diventare la religione dell’uomo d’oggi, ma piuttosto che la svolta profonda che a suo tempo ha rappresentato, mantenendo la cultura dell’India, a differenza di quanto accaduto in Occidente, sul terreno della Tradizione, potrebbe ora avere luogo in Occidente. Sotto questo aspetto il carattere religioso del moderno ateismo, di cui prima si diceva, potrebbe rivestire un senso più profondo di quanto non si immagini: in questo caso la mutazione religiosa di cui si parla sarebbe innanzitutto contenuta nel suo seno, più ancora che in quello delle religioni costituite, trattandosi fondamentalmente di un a-teismo religioso. Al riguardo le parole di Panikkar, in dialogo col Buddha, sono lapidarie.

Può esistere, a rigore, una religione atea? Se per ateismo s’intende anti-monoteismo la risposta del Buddha è drastica: solo una religione atea può essere veramente religione; il resto è pura idolatria, adorazione di un Dio opera delle nostre mani o della nostra mente. [29]

Bisogna però al riguardo dissolvere equivoci: non si parla assolutamente, come sarebbe facile intendere, di una sostituzione di Dio con l’Uomo. Anche qui, e forse soprattutto, il confronto col Buddha è decisivo.

A che serve demitizzare Dio, ci sembra dire il Buddha, se poi mitizziamo l’Uomo? Che vantaggio si ha nello scoprire che Dio può benissimo mutarsi in idolo se poi mettiamo al suo posto l’uomo? [30]

Veniamo qui al punto centrale dell’insegnamento del Buddha, che definisce la sua unicità nell’orizzonte di quel sesto secolo avanti Cristo in cui prende forma la vicenda umana che giunge fino a noi.

Abbiamo già detto che l’uomo, al tempo del Buddha, scopre l’autocoscienza. Il Buddha va oltre: scopre l’inganno di questo ātman o soggetto; ci fa vedere, cioè, come malgrado tutto l’autós, il se stesso della coscienza, finisce con l’essere trattato come un héteros, un altro, più o meno oggettivato. Quando il soggetto torna a se stesso, quando il soggetto diventa cosciente, si sdoppia e una sua parte (almeno quella che si conosce) si trasforma in oggetto. La coscienza più profonda non è autocoscienza. [31]

Veniamo allora senza esitazione alla lettura che Panikkar fornisce dell’insegnamento del Buddha; insegnamento che egli interpreta soprattutto nella chiave del silenzio. Un silenzio che emerge soprattutto dal rifiuto del Beato di pronunciarsi in merito a questioni tipicamente metafisiche: per la precisione, la finitudine o meno del mondo, in senso spaziale e temporale, l’esistenza dopo la morte e l’identità di corpo e anima. Potremmo facilmente aggiungere: l’esistenza di Dio

Il silenzio del Buddha non deve intendersi come un disinteresse verso tali questioni, tanto meno come agnosticismo; ma come la risposta appropriata, alla luce di un’esperienza spirituale che è andata oltre l’identificazione della realtà con le forme del pensiero, e che quindi non può essere testimoniata che col silenzio. Sorta fin dalle origini come antidoto a quell’ontologizzazione del divino che nella cultura vedantica dell’India si sviluppa parallelamente a quella occidentale, con la dottrina dell’ātman e della sua identificazione col brahman, la via del Buddha può apparirci oggi come una critica di tutta la tradizione filosofica dell’Occidente.

La posizione buddhista è qui veramente epocale. La sua sfida va dal citato Parmenide fino all’ultima e più possente delle sue scuole: la scienza moderna. (…) In effetti i risultati letteralmente meravigliosi della tecnoscienza ci hanno portato a credere che le leggi del pensare sono rivelazioni delle leggi dell’Essere, come se l’Essere potesse avere delle leggi senza cessare di essere Essere e trasformarsi in Idea, in Pensiero. Già l’immagine che l’Essere possa avere delle leggi rappresenta la fagocitosi dell’Essere da parte del pensare e significa anche postulare una legge al di sopra dell’Essere alla quale lo stesso Essere deve obbedire! Il dover-essere al di sopra dell’Essere. [32]

La spiritualità buddhista rifiuta qualsiasi fondamento metafisico, in quanto già implicato in quella rete del Pensiero da cui occorre sciogliersi.

Potremmo, nonostante tutto, trovare una «ragione» all’astensionismo buddhista. Il Buddha, infatti, non risponde non perché ignori la risposta, ma proprio perché conosce la non validità della domanda. Sa che non si sa ciò che si domanda. Sa, cioè, che l’Essere non sa di esserlo, che la realtà non è schiava del pensiero e che pertanto non si lascia pensare (manipolare) da questo; sa che il principio della ragion sufficiente forse è valido per gli enti ma non per l’Essere. Buddha rifiuta di divinizzare la ragione. [33]

Liberata dalla schiavitù del pensiero, la realtà può manifestarsi liberamente. Dice Panikkar: “L’Essere è Grazia, nel senso più profondamente filosofico” [34].

Ci si potrebbe in conclusione chiedere che ne sia, compiuto questo percorso, dell’originaria identità cristiana di Raimon Panikkar. Non si può dire che sia andata perduta, ma neppure, dopo l’incontro con la spiritualità dell’India e soprattutto col Buddha, che sia rimasta inalterata. Come nella metafora della confluenza dei fiumi, acque di diversa provenienza alimentano l’esperienza personale, rendendola più ricca e feconda. Più precisamente, il viaggio in India e l’incontro col Buddha costituiscono, dal punto di vista cristiano, un’esperienza di purificazione, indispensabile perché un nuovo inizio abbia luogo. A conferma di ciò si può leggere una pagina del Silenzio del Buddha dove l’elemento cristiano e quello buddhista interagiscono con straordinaria intensità, dando luogo a un’espressione di grande potenza spirituale. Si tratta di una riscrittura, intesa come “espressione dello spirito religioso del nostro tempo”[35], del celebre discorso delle Quattro Nobili Verità.

Questi due estremi devono evitare gli uomini di oggi per conseguire una vita pienamente umana e la pace e la gioia cui aspirano. Quali sono? Uno è la ricerca di se stessi, l’egocentrismo, la corsa al piacere e il disprezzo degli altri – che conduce alla competitività, alla guerra e al dolore (affogato nella stessa ambizione di potere). L’altro è l’alienazione da se stessi, l’ascetismo negativo e l’indifferenza per il mondo – che conduce all’autodivinizzazione, al mantenimento dell’ingiustizia e alla castrazione dell’uomo (compensata dall’orgoglio dell’autosoddisfazione). L’uno e l’altro estremo conducono alla distruzione dell’uomo, impedendogli di nascere alla vera Vita.

La via di mezzo del Beato evita questi due estremi, ed è una via personale, luminosa e serena, che può essere percorsa da qualsiasi viandante e conduce alla pace, alla gioia, alla realizzazione e alla pienezza.

E qual è, o uomini, la via che conduce alla pace, alla gioia, alla realizzazione umana e alla pienezza?

Questa, o uomini, è la via che contiene in sé la pace e la pienezza della meta.

Questa è la nobile verità della felicità. Quando l’Uomo inizia un lavoro, compie un’azione o intraprende una qualsiasi cosa, egli sta aspirando a raggiungere la felicità. La stella che guida ogni azione è la lucentezza della sua gioia. La Vita nella sua esperienza più profonda è godimento. Per questo gli esseri vivono e non si suicidano.

Questa è, o uomini, la nobile verità dell’origine della felicità: la fede che la gioia esiste ed è possibile; l’uomo proviene dalla felicità, è sensibile solo alla felicità e, in quanto riesce realmente a vivere, è felice. L’aspirazione profonda dell’uomo, il suo peso esistenziale, proviene da un centro che è pura gioia, gloria perfetta. Gli uomini non si muoverebbero verso la felicità se questa non fosse il centro stesso della loro vita.

Questa è, o uomini, la nobile verità dell’acquisizione della felicità: la speranza di raggiungerla, la vera aspirazione alla felicità che fa sì che non ci si distragga lungo la via e non ci si dimentichi che il cammino in quanto tale per il camminante è gioioso. Senza questa speranza l’uomo non beve della fonte di acqua viva che placa la sua sete in ogni momento. La speranza è dell’invisibile nel presente, non sogno del futuro, ed è per essa che confidiamo nella Vita.

Questa è, o uomini, la via che conduce al risultato della felicità: il semplice e nobile cammino dell’amore, dell’autentico e vero amore verso tutti gli esseri, senza tuttavia perdersi in nessuno di loro. Il nobile cammino dell’amore: la donazione totale di sé, che non può avere fine, perché inesauribile. Questo amore ci apre al nobile molteplice cammino: la retta coscienza, il cuore puro, il linguaggio trasparente, la condotta sincera e tutti quei nobili mezzi che l’esperienza umana multisecolare ha raccomandato dall’antichità.

Questa è la via di mezzo che offre visione e conoscenza, che conduce alla pienezza, alla realizzazione e alla Vita.

Finché la triplice esperienza della fede, della speranza e dell’amore non sarà purificata nelle quattro nobili verità, fino ad allora gli uomini in questo mondo, con le loro passioni, risentimenti, costruzioni, macchine, società, conoscenze e realizzazioni, non raggiungeranno il risveglio che porta la pace, la gioia, la vera libertà. [36]

Il testo riproduce un intervento svolto al convegno Alterità e identità come problemi filosofici: in dialogo con l’ecologia, l’etica, la letteratura e la psicoanalisi, Università di Torino, 11-13 giugno 2013. Pubblicato su Filosofia del 2015


[1] Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Laterza, Roma-Bari 1977; TEA, Firenze 1992, p. 3

[2] Giuseppe Riconda, Tradizione e avventura, SEI, Torino 2001

[3] Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971

[4] John Martin Kuvarapu, AV nn. 48-49

[5] Raimon Panikkar, Il dialogo intrareligioso, Cittadella Editrice, Assisi 1988, p. 60

[6] Raimon Panikkar, op. cit., p. 133

[7] Raimon Panikkar, Identità religiosa e pluralismo, Opera Omnia, VI/1, pp. 89-90

[8] Raimon Panikkar, op. cit., pp. 91

[9] Ibidem, pp. 91-92

[10] Raimon Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, Mondadori, Milano 2006, p. 31

[11] Raimon Panikkar, op. cit. p. 5

[12] Raimon Panikkar, Il ritmo dell’Essere, Opera Omnia, vol X/1, Jaca Book, Milano 2012, p. 37

[13] Raimon Panikkar, Mistica pienezza di vita, Opera Omnia, vol I/1, Jaca Book, Milano 2008

[14] Raimon Panikkar e Milena Carrara Pavan, Pellegrinaggio e ritorno alla Sorgente, Jaca Book, Milano 2011

[15] Raimon Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, Mondadori, Milano 2006, pp. 25-26

[16] Raimon Panikkar, op. cit., p. 32

[17] Ibidem, p. 165

[18] Karl Jaspers, Origine e senso della storia, ed. it. Edizioni di Comunità, Milano 1965

[19] Karl Jaspers, I grandi filosofi, ed. it. Longanesi, Milano 1973

[20]  Raimon Panikkar, op. cit., pp. 152-153

[21] Ibidem, p. 169

[22] Ibidem, p. 192

[23] Ibidem, p. 193

[24] Ibidem, p. 207

[25] Ibidem, p. 170

[26] Ibidem, pp. 165-166

[27] Ibidem, pp. 212-213

[28] Ibidem, p. 204

[29] Ibidem, p. 164

[30] Ibidem, p. 162

[31] Ibidem, p. 162

[32] Ibidem, pp. 135-136

[33] Ibidem, p. 114

[34] Ibidem, p. 135

[35] Ibidem, p. 262

[36] Ibidem, pp. 263-264

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