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Cristianesimo e interdipendenza

salgado2 1430215Una lettura attenta dell’enciclica Laudato si’, che ne cerchi la struttura profonda, non può non convenire che il suo cuore pulsante è l’individuazione del legame del degrado dell’ambiente col peccato.

 

La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi.[1]

 

Al tempo stesso ciò acquista senso sullo sfondo di una visione dell’Essere su cui l’enciclica ritorna costantemente:

 

Poiché tutte le creature sono connesse tra loro, di ognuna dev’essere riconosciuto il valore con affetto e ammirazione, e tutti noi esseri creati abbiamo bisogno gli uni degli altri.[2]

 

… essendo stati creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile.[3]

 

Non è superfluo insistere ulteriormente sul fatto che tutto è connesso. Il tempo e lo spazio non sono tra loro indipendenti, e neppure gli atomi o le particelle subatomiche si possono considerare separatamente. Come i diversi componenti del pianeta – fisici, chimici e biologici – sono relazionati tra loro, così anche le specie viventi formano una rete che non finiamo mai di riconoscere e comprendere.[4]

 

E facendo riferimento al Genesi, alle vicende da Caino e Abele a Noè:

 

In questi racconti così antichi, ricchi di profondo simbolismo, era già contenuta una convinzione oggi sentita: che tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri.[5]

 

Qualcuno potrebbe esprimere sorpresa nel vedere come una visione ecosistemica della realtà, basata sull’universale interconnessione e interdipendenza, venga così radicalmente connessa con il Cristianesimo. Eppure ciò è stato riconosciuto nello stesso Catechismo della Chiesa Cattolica:

 

Questo insegna il Catechismo: « L’interdipendenza delle creature è voluta da Dio. Il sole e la luna, il cedro e il piccolo fiore, l’aquila e il passero: le innumerevoli diversità e disuguaglianze stanno a significare che nessuna creatura basta a se stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servizio le une delle altre ».[6]

 

Si ha ragione tuttavia di pensare che le cose non siano così ovvie. L’enciclica sembra anzi prima di ogni altra cosa preoccuparsi di sfatare un’idea “antiecologica” del Cristianesimo, e in genere dei monoteismi, ampiamente diffusa nel contesto contemporaneo. L’affidamento della terra all’uomo, con l’invito a soggiogarla, sarebbe all’origine, nella vicenda umana, del percorso che conduce al degrado. Eppure, sostiene l’enciclica, il principio stesso della creazione dovrebbe confutare tale visione.

 

Noi non siamo Dio. La terra ci precede e ci è stata data. Ciò consente di rispondere a un’accusa lanciata contro il pensiero ebraico-cristiano: è stato detto che, a partire dal racconto della Genesi che invita a soggiogare la terra (cfr Gen 1,28), verrebbe favorito lo sfruttamento selvaggio della natura presentando un’immagine dell’essere umano come dominatore e distruttore. Questa non è una corretta interpretazione della Bibbia come la intende la Chiesa. Anche se è vero che qualche volta i cristiani hanno interpretato le Scritture in modo non corretto, oggi dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature. È importante leggere i testi biblici nel loro contesto, con una giusta ermeneutica, e ricordare che essi ci invitano a « coltivare e custodire » il giardino del mondo (cfr Gen 2,15). Mentre « coltivare » significa arare o lavorare un terreno, « custodire » vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura. Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future. In definitiva, « del Signore è la terra » (Sal 24,1), a Lui appartiene « la terra e quanto essa contiene » (Dt 10,14). Perciò Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: « Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti » (Lv 25,23).[7]

 

In ogni caso, per quanto Francesco abbia cura di citare i suoi predecessori, soprattutto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, nonché in genere la dottrina della Chiesa, forte è l’impressione che nell’enciclica l’ecologia venga a svolgere un’importanza finora sconosciuta, fino a diventare paradigma culturale. Il riferimento a Francesco d’Assisi, sotto questo aspetto, diventa chiave di lettura di un intero pontificato, che non a caso a lui si è richiamato fin dal nome, e del rinnovamento della Chiesa che vi si connette.

Cerchiamo di valutare la portata di ciò di cui si parla e le sue profonde implicazioni.

 

 

Genesealogia del paradigma ecosistemico

 

In generale ciò che intendiamo con ecologia nasce in ambienti strettamente scientifici ancora nell’Ottocento e poi diventa movimento d’opinione sempre più diffuso, soprattutto a partire dagli anni settanta del Novecento. Si può senz’altro dire che in Occidente il tema dell’ecologia, insieme a quello della pace, abbia nel patrimonio delle idealità “laiche” preso il posto della giustizia sociale, compromesso dalla crisi del Marxismo. Il segnale di quel passaggio, al livello più alto della cultura filosofica, fu fornito soprattutto nel 1979 da un testo di Hans Jonas, che era stato allievo di Heidegger, dal titolo Il principio responsabilità[8]: un titolo che si poneva in rapporto con quello di un importante testo, scritto molti anni prima, del filosofo marxista Ernst Bloch: cioè Il principio speranza[9].

Il discorso su Bloch sarebbe lungo, ma sia sufficiente dire che nel suo pensiero il Marxismo si era confrontato con la sua matrice religiosa occulta, cioè il messianismo ebraico e l’escatologia cristiana, e aveva fatto del futuro un fondamento ontologico in cui collocare la piena realizzazione di ciò di cui le stesse religioni sono state lungo i secoli promessa. Il passaggio che Jonas voleva segnalare era dunque drastico: l’inaudito sviluppo del potere distruttivo della tecnica pone per la prima volta gli uomini di fronte alla possibilità che il futuro non si dia. Anziché continuare a proiettarvi il compimento delle aspirazioni umane, si tratta di stabilire un’etica il cui principio sia di renderlo possibile.

In realtà però il testo di Jonas non incise più di tanto in una coscienza collettiva, che attingeva altrove i suoi riferimenti. L’idea che la vita sulla terra sia minacciata dalla tecnica sorge senz’altro negli ambienti della filosofia tedesca, a cominciare da Heidegger, ma le sue fondamentali categorie vengono elaborate in altri ambiti.

Su un piano intermedio merita senz’altro di essere ricordata l’ecologia profonda del filosofo norvegese Arne Naess, che mette in discussione l’antropocentrismo, cioè l’idea che il valore della vita degli altri esseri viventi vada subordinato all’uomo. Si tratta di un passaggio di fondamentale importanza nella cultura del nostro tempo, che l’enciclica recepisce pienamente riconducendolo al principio della Creazione e dell’universale destinazione di tutti gli esseri all’incontro con Dio.

 

Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio, in una pienezza trascendente dove Cristo risorto abbraccia e illumina tutto. (…) Tutto l’universo materiale è un linguaggio dell’amore di Dio, del suo affetto smisurato per noi. Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio.[10]

 

I fondamentali riferimenti culturali dell’ecologia sono comunque forniti da un modello di pensiero variamente articolato, noto come ecosistemico, o della complessità o dell’interdipendenza, che ha preso forma intorno alla metà del Novecento in certi ambiti della cultura scientifica, nei quali talora agivano suggestioni provenienti dall’Oriente. È ben vero che non era del tutto assente una connessione con la filosofia tedesca e, attraverso essa, con la mistica cristiana e prima ancora neoplatonica; ma si tratta di legami tanto sottili da non essere avvertiti.

Sul piano della comunicazione più diffusa, per merito soprattutto di divulgatori del calibro di Fritjof Capra o Edgar Morin, l’idea che prese forma è che, nella nostra epoca, stia avvenendo all’interno della scienza un mutamento di paradigma con conseguenze sociali molto ampie. Si passerebbe cioè da un modello riduzionista e meccanicista, basato sulla segmentazione della realtà in entità e piani separati e sequenze lineari, a un modello complesso e olistico, basato invece sull’interdipendenza dei piani e su sequenze circolari.

 

Il contesto culturale in cui tali idee si delinearono era visibilmente determinato da due eventi.

Il primo è una rivoluzione in ambito tecnologico, costituita dall’avvento dell’informatica. La vecchia tecnologia basata sulla potenza, tipica della prima e della seconda Rivoluzione Industriale, era in procinto di venire sostituita da una nuova basata sull’informazione: ciò avrebbe comportato una riorganizzazione delle forme della vita sociale e la crisi presente doveva intendersi come il travaglio inevitabile che accompagna il passaggio. Recentemente Jeremy Rifkin, parlando di Terza Rivoluzione Industriale, esito del connubio di internet ed energie rinnovabili, ha rilanciato quel tipo di prospettiva[11].

Bisogna pensare che nel secondo dopoguerra, mentre il clima culturale europeo era ancora collocabile nella cornice della filosofia tradizionale, quello degli Stati Uniti esplorava territori nuovi. Due movimenti soprattutto vennero a convergere: la Cibernetica, cioè la nuova scienza della comunicazione direttamente legata agli sviluppi tecno-scientifici, dove le ricerche sull’intelligenza artificiale comportavano ricadute inarrestabili sul modo di concepire la mente umana e il mondo delle relazioni, e la Teoria Generale dei Sistemi. Quest’ultima, a cui lavorava già dagli anni trenta il biologo austriaco Ludwig von Bertalanffy, si pose l’ambizioso compito di unificare tutti gli ambiti del sapere sulla base di un unico concetto: quello di sistema. Ogni realtà, naturale e sociale, doveva essere pensata come sistema: cioè come struttura organizzata di elementi e funzioni interdipendenti, che comprende al suo interno sottosistemi ed è a sua volta collocata entro un sistema di livello superiore: l’ecosistema. È facilmente intuibile come tale visione fosse destinata a incontrarsi con la preesistente ma ancora poco nota nozione di ecologia, fornendole un fondamento teorico di notevole rilievo.

La convergenza dei due filoni determinò comunque in genere  una propensione a leggere la realtà in termini di processi comunicativi e di organizzazione, sviluppando una particolare attenzione al cambiamento. Ogni sistema tende a realizzare un equilibrio, il quale però in fondo è sempre instabile e può mutare anche radicalmente in presenza di particolari condizioni. Prevedere o anche provocare il cambiamento, entro realtà per definizione complesse, divenne sempre più esplicitamente l’obiettivo comune di ingegneri, fisici, biologi, medici, sociologi, psicologi.

 

A Gregory Bateson si deve in particolare una rivoluzionaria teoria antropologica, che ebbe ricadute soprattutto in ambito psicoterapeutico.

Intendendo la comunicazione tra esseri umani come un fatto di portata generale, non limitato cioè a quel che essi dicono o fanno intenzionalmente, ma insito in ogni loro comportamento in quanto determina effetti sul sistema delle relazioni, ebbe l’intuizione che la comunicazione avvenisse simultaneamente a diversi livelli. Ogni messaggio comunicativo è accompagnato insomma da una metacomunicazione, cioè una comunicazione di livello superiore, generalmente non verbale, che ridefinisce la relazione in cui si trovano i soggetti comunicanti, contribuendo a precisare il senso del messaggio di primo livello. Ad esempio, dato un certo contenuto verbale, è il tono di voce a precisare se quel che viene detto va inteso come comando, richiesta o altro.

Dal punto di vista psicoterapeutico tale visione parve immediatamente interessante pensando a situazioni in cui si determina una ricorrente incongruenza tra i due livelli comunicativi. Tipico caso è quello della madre che a parole comunica affetto al proprio bambino ma col tono di voce e la gestualità trasmette invece distacco. Venne così formulata dallo stesso Bateson la teoria del doppio legame nella genesi della malattia mentale[12], dando così inizio alla scuola di terapia sistemica, il cui maggior teorico fu Paul Watzslawick[13].

Poiché la situazione di sofferenza veniva considerata conseguenza di problemi comunicativi che caratterizzano il sistema delle relazioni, soprattutto familiari, ci si poneva il problema di produrre un cambiamento nel funzionamento del sistema. Ciò a sua volta, al di là delle tecniche specifiche, dischiudeva da una prospettiva inedita il problema esistenziale del senso della vita. La condizione patologica è una condizione di mancanza di senso, perché il soggetto ha interiorizzato un’incongruenza tra il piano della consapevolezza e quello dei vissuti profondi; la guarigione, reintegrando i due piani, comporta un cambiamento che è una vera e propria conversione della persona.

Le implicazioni di tale teoria rispetto all’educazione, all’apprendimento e all’interpretazione del cammino personale sono enormi, ma ancora scarsamente recepite. 

 

Il secondo evento che contribuì alla diffusione del paradigma ecosistemico è già costituito dall’esplodere della consapevolezza della crisi ambientale. Il vecchio paradigma ne era considerato responsabile: essendo basato sull’idea del dominio sulla natura, quindi incapace di vedere in essa l’ecosistema che accoglie la vicenda umana, aveva operato distruttivamente su di essa, come se le conseguenze  potessero non ricadere sull’uomo.

La questione ecologica veniva quindi ricondotta al cambiamento di paradigma. Si trattava in ogni ambito di passare dalla causalità lineare a quella circolare, dal riduzionismo alla complessità, dall’isolamento alla relazione. L’ecologia della mente, usando la celebre espressione di Bateson, doveva accompagnare il cambiamento sociale e tecnologico.

 

 

Radici nell’Oriente

 

Tutto ciò ebbe a suo tempo scarso ascolto nel mondo cattolico, lacerato da tutt’altri problemi, per quanto le psicoterapie sistemiche apparissero fin da subito congeniali, sviluppandosi non a caso come terapie della famiglia anziché dell’individuo. Troppo forte era all’epoca l’estraneità culturale, e anche il sospetto.

Quel clima, notevolmente diffuso tra le élite intellettuali occidentali tra gli anni sessanta e ottanta del Novecento, oltre a ispirare i movimenti ecologisti e no-global, ebbe infatti a livello di massa un ruolo non secondario nello sviluppo della cultura New Age. Anche perché alcuni dei suoi protagonisti avevano un profondo legame con l’Oriente.

Bisogna dunque pensare che alla genesi e alla diffusione del paradigma ecosistemico abbia concorso anche un terzo evento, per quanto non sempre chiaramente sotto gli occhi di tutti: l’emergere sul piano internazionale delle grandi culture asiatiche. Come scrisse il celebre orientalista Giuseppe Tucci: “L’avvenimento maggiore al quale oggi assistiamo è l’ingresso dell’Asia nella storia”. [14]

 

Si tratta di un avvenimento, come già segnalato, già in preparazione da lungo tempo, fin dall’epoca del colonialismo.

Nello sviluppo della moderna cultura occidentale, l’Oriente è diventato lo specchio entro cui si riflettono le sue diverse tendenze. La Cina piaceva agli Illuministi, che vedevano in essa il modello di una società che da sempre sapeva governarsi senza bisogno di trascendenza. Per i Romantici invece, che per primi diedero voce al disagio di un mondo secolarizzato, era l’India oggetto di attrazione, in quanto patria originaria della spiritualità umana.

Lungo il Novecento, mentre il dominio mondiale è conteso tra potenze ancora in fondo occidentali, sono le vicende asiatiche a riempire sempre più la scena. L’Oriente non è più un luogo solo dell’immaginario, ma una presenza sempre più importante sotto ogni aspetto. Sul piano culturale ci si avvede che tutta un’idea della civiltà di cui l’Occidente è portatore non è che una tra le possibili, e che altre visioni della vita sono concepibili.

Il Sessantotto guarda alla Cina in senso politico, all’India in senso esistenziale, cercando in entrambi i casi una via nuova e antica insieme. In generale, l’Oriente è il luogo in cui l’uomo non è più racchiuso entro i suoi confini individuali, ma si integra in realtà più ampie, per un verso rigorose e disciplinate, per l’altro fluide. Mentre l’Occidente è fissato alle categorie astratte attraverso cui ha plasmato la sua visione della realtà, in Oriente ogni cosa pare immersa nello scorrere della vita.

Secondo Fritjof Capra gli scenari più sorprendenti della fisica contemporanea non sono più interpretabili con le categorie della filosofia occidentale, bensì mostrano affinità con le visioni hinduiste, buddhiste e taoiste[15]. Vari illustri scienziati, tra cui Francisco Varela, intraprendono uno stabile confronto con il Dalai Lama, dando luogo a simposi che sono tra le maggiori esperienze intellettuali del nostro tempo[16].

 

Nella visione buddhista, “interdipendenza” è la traduzione più opportuna di ciò che risulta dal convergere, nel contesto Mahayana, delle tradizionali nozioni di “mancanza di sé”, (anatman) e “originazione dipendente” (pratityasamutpada) con quella tipicamente Mahayana di “vacuità” (shunyata).

Riassumendo il senso di complesse questioni dottrinali, si tratta di pensare che quel che comunemente appare, cioè l’interagire di entità originariamente dotate di esistenza indipendente, non corrisponda alla reale natura delle cose, che deve essere pensata come radicalmente relazionale: il darsi di un certo stato dipende da cause e condizioni che lo determinano, venendo meno le quali esso viene meno. Sono le necessità di tipo pratico della vita a comportare che un certo stato sia isolato dal flusso dell’esperienza e gli venga attribuito, mediante l’applicazione di un concetto, un’esistenza indipendente. La quale peraltro, a un’attenta analisi, non può essere accertata: nulla infatti può essere detto che non rinvii a cause e condizioni e soprattutto al soggetto cognitivo responsabile della designazione.

Attenzione. Tale concezione viene solitamente contrapposta al sostanzialismo tipico della filosofia occidentale, che sembra venire incontro alla visione cristiana dell’unità della persona. Si pongono quindi delicate questioni di tipo ontologico. Il timore è soprattutto che vada disgregandosi quell’unità, insieme a ogni autonoma consistenza del reale, e che si tratti dunque di una visione nichilistica: nulla esiste se non ciò che un soggetto designa come tale, isolando alcuni aspetti per lui rilevanti in un flusso indifferenziato di esperienza. Ciò condurrebbe a un radicale soggettivismo, che non riconosce alcuna realtà se non quella che il soggetto stesso viene definendo. Non è il caso di dilungarci su quanto una tale visione sia pericolosa, soprattutto oggi.

Bisogna però dire che tale esito non è affatto necessario, e anzi sarebbe contraddittorio, in quanto paradossalmente attribuirebbe realtà affermativa alla negazione, entificando il nulla. Si tratta dunque di altro. Non di pensare che le apparenti realtà dell’esperienza non esistano, ma che non esistono come le pensiamo, nel senso che il pensiero non può coglierle, se non nei due modi indicati.

Il primo, corrispondente al senso comune, consiste nell’attuare un inconsapevole processo di reificazione, ovvero trasformare in cose, dotate di precisi confini spazio-temporali, ciò che a un’attenta analisi mostra una ben maggiore e forse inesauribile complessità. Il secondo, frutto dell’analisi, è la constatazione dell’irriducibile interdipendenza di ogni supposto oggetto, e anche dello stesso soggetto conoscente, quindi la confutazione dell’autonoma realtà di entrambi. Il che però a sua volta non significa che essa non esista, ma che il pensiero non la può conoscere.

Tale visione paradossalmente, anziché dissolvere ogni realtà trascendente il pensiero, la salva nella sua trascendenza, proprio dichiarandola irraggiungibile. Se fosse raggiungibile, in realtà ne dipenderebbe.

La filosofia buddhista ha quindi fatto i conti fino in fondo con ciò di cui quella occidentale non è solitamente consapevole, cioè il carattere appropriativo di quel che comunemente si intende con conoscenza: ovvero il fatto che gli oggetti non siano semplicemente scoperti, bensì definiti, e in certo modo costruiti, sulla base di esigenze pratiche ed esistenziali, che a loro volta trascendono le possibilità di controllo da parte del soggetto. Concentrare l’attenzione su ciò però vuol dire rendere possibile un terzo livello di conoscenza non più concettuale, traducibile nell’esperienza propriamente spirituale o, come si dice, nell’apertura del terzo occhio.

 

 

Ecologia e Cristianesimo

 

Detto ciò, e sottolineando che siamo propriamente sul terreno di quel che in Occidente si intende con filosofia, si ripropone la perenne questione del rapporto tra filosofia e Cristianesimo.

Storicamente il Vangelo viene annunciato in un contesto diverso da quello in cui era nata la filosofia greca, ma fin da subito ne tiene conto nella sua diffusione, varcando i confini del mondo ebraico e rivolgendosi alle élite ellenizzate. In particolare sarà il Platonismo a offrire per molti secoli la fondamentale mediazione culturale, come poi l’Aristotelismo. Naturalmente né Platone né Aristotele erano stati cristiani, ma il loro pensiero consentiva quella sintesi di cui la novità cristiana aveva bisogno allora. In questo modo il Cristianesimo assunse la forma culturale entro cui ci è pervenuto, plasmando d’altra parte la civiltà occidentale.

Ebbene, è possibile che quella forma oggi non sia più riproponibile, per una ragione che meglio di ogni altro ha messo in luce Raimon Panikkar, in un libro meditato lungo quarant’anni che significativamente si intitola Il silenzio del Buddha[17].

Al centro della filosofia greca c’è un modello di pensiero in un certo senso analogo a quello buddhista, ma con un esito rovesciato. Le cose non sono come appaiono, ma sono come le mostra il pensiero. E poiché quest’ultimo è in grado di rivelarne la natura, tra pensiero ed Essere c’è coincidenza.

Questa è la visione entro cui è stato possibile pensare Dio come fondamento razionale della realtà, ma è anche la stessa della scienza: tant’è vero che in epoca moderna Dio viene meno, lasciando alla scienza l’intero campo. Aggiungiamo che il dominio della tecnica si fonda sul presupposto originario dell’identità di pensiero ed Essere, che vuol dire che l’Essere si riduce al pensiero umano che se ne appropria. Direbbe Heidegger: la struttura originaria è già quella della Volontà di Potenza.

Secondo Panikkar ritrovare la fede comporta rinunciare a quell’identità di pensiero ed Essere, cioè al pensiero appropriativo, compiendo quindi oggi una svolta analoga a quella rappresentata dal Buddha nell’India antica.

È possibile che una tale svolta sia oggi effettivamente in atto?

Cosa implica l’incontro del Cristianesimo con il paradigma ecosistemico e con l’interdipendenza, di cui l’enciclica Laudato si’ è testimonianza più che evidente?

Su quali basi tale incontro avviene?

 

Si possono formulare due risposte.

La prima, di ordine strettamente filosofico, è che, nel corso della storia, la Chiesa ha compiuto in epoche diverse scelte filosofiche diverse, tenendo però sempre conto di un’esigenza imprescindibile: salvaguardare un senso della realtà che i soggettivismi e i relativismi pongono di volta in volta in discussione. Con tutto un atteggiamento culturale che lungo i secoli viene riproponendosi in forme varie, dalla Sofistica al Postmoderno, non c’è mai stata possibilità di conciliazione.

Già a suo tempo le ragioni che indussero il Cristianesimo a incontrare il Platonismo vanno valutate in questa luce. Si tratta infatti di un orientamento di pensiero che non solo propone chiaramente una visione spirituale della vita, ma soprattutto fonda su di essa un’apertura alla realtà concepita come indipendente dal soggetto conoscente.

 

Nella prospettiva platonica si circoscrive l’ambito del relativo a quello dell’esperienza dei sensi: il soggetto non può avere conoscenza delle cose se non sulla base della sua interazione con esse. Ma, scrutando più profondamente dentro di sé, può riconoscere quel che a prima vista sfugge: vale a dire che la conoscenza delle cose presuppone delle forme che le classifichino, che il soggetto è indotto a considerare indipendenti da sé. Parliamo ovviamente delle idee. La parola deriva dalla radice id del verbo greco orào, che vuol dire vedere. L’idea è dunque ciò che si vede, ma non certo con gli occhi del corpo bensì con quelli dell’anima: ovvero ciò che il soggetto coglie nella dimensione spirituale sua propria.

La realtà è stata quindi concepita, nel suo fondamento di verità e dunque al di là dell’apparenza, come una struttura razionale soggiacente all’esperienza dei sensi.

Come noto, ciò ha posto delicati problemi circa il rapporto tra la dimensione materiale e quella immateriale, ovvero tra il corpo e la mente. La filosofia di Aristotele può sotto questo aspetto intendersi come la proposta di un sorta di interdipendenza tra le due sfere, pur mantenendo una delle due la supremazia rispetto all’altra. La visione di Dio come motore immobile ha una forte suggestione sul piano religioso perché esprime in forma dinamica la convinzione che il mondo naturale si strutturi in forme di complessità crescente in quanto guidato dal principio ultimo della realtà, che è pura realtà intellettiva. Oggi si direbbe che la natura è progetto intelligente.

In ogni caso la visione platonica, di una struttura razionale soggiacente all’esperienza dei sensi, ha costituito lungo l’intero arco della civiltà occidentale il presupposto, per lo più inconsapevole, di quel che intendiamo con scienza. Gli scienziati, anche in piena epoca moderna e in qualche modo tutt’oggi, hanno la convinzione di andare alla ricerca delle leggi che regolano la natura, al di là dell’esperienza sensibile, e che quindi esse abbiano un’esistenza oggettiva. La natura, nella struttura delle leggi che la ordinano, viene tacitamente intesa come un universo normativo che l’uomo riconosce, essendone egli stesso parte.

 

Ciò entra però in conflitto con un diverso principio, che sempre più emerge in epoca moderna.

La crescente importanza della tecnica nella vita sociale induce a concepire la natura come oggetto di sfruttamento e manipolazione, rendendo così problematico riconoscerne la funzione normativa. Ciò a sua volta produce un movimento di pensiero, caratterizzante la filosofia moderna, che implacabilmente sovverte il Platonismo. Si fa strada infatti il sospetto che la struttura razionale, che il soggetto scopre in sé come presupposto della conoscenza, non sia davvero indipendente da lui. 

Già nel nominalismo tardo-medievale l’intera scienza è ridotta a sistema di segni linguistici, che ordinano entità puramente individuali. Così anche nel moderno Empirismo. Nella filosofia di Kant la Modernità raggiunge una posizione di equilibrio: la struttura razionale è insita normativamente  nel soggetto, ed egli non può ordinare la realtà se non nel modo in cui lo fa. È però evidente che il soggetto, seppure in modo non arbitrario, si è posto a fondamento della realtà.

Il resto viene di conseguenza. Nella seconda metà dell’Ottocento la crisi dei fondamenti della scienza mostra che questi ultimi, anziché appartenere intrinsecamente alla realtà, sono costrutti concettuali che possono anche essere cambiati. Le geometrie non euclidee dischiudono infatti nuove visioni dello spazio, di cui la fisica novecentesca si avvarrà. Contemporaneamente Nietzsche scaglia il suo atto d’accusa contro il platonismo implicito nella scienza e in tutta la civiltà occidentale, a cui il Cristianesimo ha assicurato diffusione tra le masse: si tratta della costruzione di un “mondo dietro il mondo”, una menzogna che ha avuto la funzione di assicurare l’ordine morale. Ora che però si verifica la morte di Dio, la distinzione tra il vero e il falso e quella tra il bene e il male vengono parallelamente meno. Le cose non hanno più né senso né struttura, se non ciò che viene loro attribuito. Fondamento di tutta la realtà non è altro che la Volontà di Potenza.

Quando Benedetto XVI inaugurò il suo pontificato all’insegna della lotta contro la dittatura del relativismo, aveva dunque ben presente che la situazione attuale è frutto di un corso di pensiero che viene da lontano. Ricercando tra l’altro il dialogo con gli uomini di scienza, egli volle in ogni modo riaffermare la razionalità del Cristianesimo, cioè il suo fondarsi su un ordine della realtà che è quello stesso di cui la scienza è in cerca, cioè quell’eterno Logos di cui Cristo è l’incarnazione. Le cose però erano ormai andate troppo avanti. Il clima sociale in Occidente è dominato da una concezione radicalmente soggettivistica, al punto che la sua estrema manifestazione, cioè l’ideologia del gender, fa dipendere dall’arbitrio individuale la stessa identità sessuale. Il Platonismo vive insomma un irrimediabile discredito. 

D’altra parte, riflettendo su Nietzsche, Heidegger era arrivato a pensare la Volontà di Potenza come il principio che fin da Platone domina, dapprima implicitamente e inconsapevolmente, l’Occidente. Ciò che egli chiama riduzione dell’Essere a ente è quello che Panikkar traduce come riduzione dell’Essere al pensiero. Proprio perché definito concettualmente, l’Essere è imprigionato entro le griglie della razionalità. Sotto questo aspetto il moderno dominio della tecnica non fa che portare allo scoperto ciò che nell’antica metafisica era nascosto. Non è quindi tornando a essa che si trova la soluzione, bensì cercando oltre.

Come Francesco osserva incidentalmente, riferendosi al dialogo con i diversi soggetti che interagiscono sull’emergenza ambientale e citando l’Evangelii gaudium, “la realtà è superiore all’idea”[18].

 

Il paradigma ecosistemico formula una visione della realtà che non pretende che sia indipendente dal soggetto che la pensa. Sono inevitabilmente le sue categorie a definirne i tratti. Altrettanto però non si pretende che l’ordine che il soggetto attribuisce alla realtà sia semplicemente sua proiezione. Nell’enciclica questo appare chiaramente.

 

Come ogni organismo è buono e mirabile in sé stesso per il fatto di essere una creatura di Dio, lo stesso accade con l’insieme armonico di organismi in uno spazio determinato, che funziona come un sistema. Anche se non ne abbiamo coscienza, dipendiamo da tale insieme per la nostra stessa esistenza.[19]

 

Si può senz’altro intendere che la conoscenza sia un sistema di concetti e parole, dotato di regole sue proprie, che entra in comunicazione con altri sistemi; i quali a prescindere dal primo non sono direttamente attingibili, ma a cui non abbiamo diritto di negare un proprio ordinamento intrinseco, seppure sulla base di altri codici rispetto alle nostre concettualizzazione. Possiamo ad esempio pensare che una specie animale sia senz’altro da noi definita sulla base della nostra zoologia, che è una costruzione teorica sempre in qualche modo falsificabile; il che però non impedisce ai suoi membri di riconoscersi tra loro del tutto indipendentemente. Il nominalismo ha quindi valide ragioni, ma non in assoluto.

Pensando all’ideologia del gender, è senz’altro vero che l’identità di genere è culturalmente definita: cioè quello che comporta essere uomo o donna dipende da vari condizionamenti socio-culturali. Tuttavia essere uomo o donna comporta una realtà che si radica in sistemi pre-linguistici e pre-concettuali, da cui le realtà socio-culturali sono a loro volta e innanzitutto condizionate. Si può senz’altro dire che la realtà è superiore all’idea. In una visione ecosistemica, la natura è in ogni suo aspetto il contesto-ambiente a cui innanzitutto apparteniamo.

 

Quando parliamo di “ambiente” facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra la natura e la società che la abita. Questo ci impedisce di considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati.[20]

 

Essere parte della natura esclude che la si possa osservare dall’esterno, quindi la conoscenza non può essere oggettiva, se a questo termine si attribuisce il significato di un rispecchiamento a cui sia estraneo ogni coinvolgimento del soggetto; non può però neppure essere soggettiva, se si intende che la natura non abbia leggi se non quelle che il soggetto le attribuisce. La prima posizione potrebbe dirsi ingenua, la seconda delirante. Soggetto e oggetto nella conoscenza sono interdipendenti, in quanto inclusi in un sistema di ordine superiore.

L’idea poi che l’uomo possa realmente dominare sulla natura, dal momento che ne è parte, mostra palesemente una grave sconnessione dei piani logici dell’esperienza. Può senz’altro paragonarsi alla condizione patologica come risulta dall’analisi di Bateson.  

Piuttosto l’apertura e la comunicazione dei sistemi, nonché il rapporto gerarchico di inclusione, può indurci a pensare la natura nel suo insieme come sistema aperto alla trascendenza.

 

In questo universo, composto da sistemi aperti che entrano in comunicazione gli uni con gli altri, possiamo scoprire innumerevoli forme di relazione e partecipazione. Questo ci porta anche a pensare l’insieme come aperto alla trascendenza di Dio, all’interno della quale si sviluppa.[21]

 

 

 

Contemplare il mondo dall’interno

 

La seconda ragione per l’incontro odierno tra il Cristianesimo e il paradigma dell’interdipendenza riguarda propriamente il piano teologico.

Al centro del Cristianesimo è l’Incarnazione. Come si dice nel prologo di San Giovanni, “il Logos si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”[22]. Nello stesso Vangelo, si dice dice: “Dio nessuno l’ha mai visto; il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui ce l’ha rivelato”[23].

La filosofia platonica non ha mai potuto fornire un modello concettuale davvero in sintonia con l’Incarnazione. La realtà sensibile è sempre stata pensata come drasticamente subordinata al sovrasensibile. Come noto per Platone il corpo era prigione dell’anima. In genere il Platonismo nelle sue varie forme concepisce la dimensione spirituale, per lo più coincidente con quella razionale, come superiore alla materia e bisognosa di separarsi da essa e dalle sue contaminazioni. La vita corporea è quindi esilio, da cui si aspira a fare ritorno al Cielo.

Tutto ciò non è a rigore conciliabile con l’Incarnazione, e neppure con la Creazione. Tant’è vero che in alcune visioni gnostiche la Creazione è opera di un principio malvagio. Pur tenendo conto che, parlando di Platonismo, si deve intendere un fenomeno  complesso, il suo nucleo originario non è purtroppo estraneo all’idea del dominio sulla natura, che potrebbe esserne l’esito secolarizzato.

Bisogna pensare invece che nel Cristianesimo lo Spirito né coincide con la razionalità né si contrappone alla materia, bensì va inteso come un’unità più profonda che entrambe le comprende. Si tratta al riguardo di uscire da equivoci che del Cristianesimo hanno pesantemente condizionato la percezione.

 

Gesù viveva una piena armonia con la creazione, e gli altri ne rimanevano stupiti: « Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono? » (Mt 8,27). Non appariva come un asceta separato dal mondo o nemico delle cose piacevoli della vita. Riferendosi a sé stesso affermava: « È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco, è un mangione e un beone” »  (Mt 11,19). Era distante dalle filosofie che disprezzavano il corpo, la materia e le realtà di questo mondo. Tuttavia, questi dualismi malsani hanno avuto un notevole influsso su alcuni pensatori cristiani nel corso della storia e hanno deformato il Vangelo. [24]

 

Bisogna pensare che nel Cristianesimo la realtà cosmica non è dunque per nulla estranea a Dio. Il che ci rimanda a un senso della Creazione non ancora forse del tutto compreso.

 

Per la tradizione giudeo-cristiana, dire “creazione” è più che dire natura, perché ha a che vedere con un progetto dell’amore di Dio, dove ogni creatura ha un valore e un significato. La natura viene spesso intesa come un sistema che si analizza, si comprende e si gestisce, ma la creazione può essere compresa solo come un dono che scaturisce dalla mano aperta del Padre di tutti, come una realtà illuminata dall’amore che ci convoca ad una comunione universale.[25]

 

Questo senso della Creazione si radica nel cuore del Cristianesimo, che è la Trinità.

 

Il Padre è la fonte ultima di tutto, fondamento amoroso e comunicativo di quanto esiste. Il Figlio, che lo riflette, e per mezzo del quale tutto è stato creato, si unì a questa terra quando prese forma nel seno di Maria. Lo Spirito, vincolo infinito d’amore, è intimamente presente nel cuore dell’universo animando e suscitando nuovi cammini. Il mondo è stato creato dalle tre Persone come unico principio divino, ma ognuna di loro realizza questa opera comune secondo la propria identità personale. Per questo, « quando contempliamo con ammirazione l’universo nella sua grandezza e bellezza, dobbiamo lodare tutta la Trinità ».

Per i cristiani, credere in un Dio unico che è comunione trinitaria porta a pensare che tutta la realtà contiene in sé un’impronta propriamente trinitaria.[26]

 

Raimon Panikkar, che dal punto di vista spirituale era profondamente radicato nell’esperienza trinitaria, ha sviluppato una visione, detta cosmoteandrica, in cui Dio, in quanto concepito nella sua trascendenza, è una dimensione di realtà che coesiste con altre due: l’Uomo e il Cosmo. Tutta la storia delle religioni, e in genere la storia culturale, è data dalla preminenza di volta in volta avuta da ciascuna di esse. Sicuramente l’epoca in cui la dimensione cosmica era preminente è la più antica nella vicenda umana, ma ciò non vuol dire che essa non continui a essere presente nella coscienza religiosa successiva. Nel Cristianesimo in particolare è connessa coi Sacramenti.

 

I Sacramenti sono un modo privilegiato in cui la natura viene assunta da Dio e trasformata in mediazione della vita soprannaturale. Attraverso il culto siamo invitati ad abbracciare il mondo su un piano diverso. L’acqua, l’olio, il fuoco e i colori sono assunti con tutta la loro forza simbolica e si incorporano nella lode. La mano che benedice è strumento dell’amore di Dio e riflesso della vicinanza di Cristo che è venuto ad accompagnarci nel cammino della vita. L’acqua che si versa sul corpo del bambino che viene battezzato è segno di vita nuova. Non fuggiamo dal mondo né neghiamo la natura quando vogliamo incontrarci con Dio. Questo si può percepire specialmente nella spiritualità dell’Oriente cristiano: « La bellezza, che in Oriente è uno dei nomi con cui più frequentemente si suole esprimere la divina armonia e il modello dell’umanità trasfigurata, si mostra dovunque: nelle forme del tempio, nei suoni, nei colori, nelle luci e nei profumi ». Per l’esperienza cristiana, tutte le creature dell’universo materiale trovano il loro vero senso nel Verbo incarnato, perché il Figlio di Dio ha incorporato nella sua persona parte dell’universo materiale, dove ha introdotto un germe di trasformazione definitiva: « Il Cristianesimo non rifiuta la materia, la corporeità; al contrario, la valorizza pienamente nell’atto liturgico, nel quale il corpo umano mostra la propria natura intima di tempio dello Spirito e arriva a unirsi al Signore Gesù, anche Lui fatto corpo per la salvezza del mondo ».[27]

 

Questa connessione con l’esperienza cosmica si trova soprattutto nell’Eucaristia. In essa cielo e terra si uniscono e il mistero dell’Incarnazione ci compenetra profondamente, in modo che, non dall’alto ma da dentro, ci facciamo atto d’amore cosmico.

 

Nell’Eucaristia il creato trova la sua maggiore elevazione. La grazia, che tende a manifestarsi in modo sensibile, raggiunge un’espressione meravigliosa quando Dio stesso, fatto uomo, arriva a farsi mangiare dalla sua creatura. Il Signore, al culmine del mistero dell’Incarnazione, volle raggiungere la nostra intimità attraverso un frammento di materia. Non dall’alto, ma da dentro, affinché nel nostro stesso mondo potessimo incontrare Lui. Nell’Eucaristia è già realizzata la pienezza, ed è il centro vitale dell’universo, il centro traboccante di amore e di vita inesauribile. Unito al Figlio incarnato, presente nell’Eucaristia, tutto il cosmo rende grazie a Dio. In effetti l’Eucaristia è di per sé un atto di amore cosmico: « Sì, cosmico! Perché anche quando viene celebrata sul piccolo altare di una chiesa di campagna, l’Eucaristia è sempre celebrata, in certo senso, sull’altare del mondo ». L’Eucaristia unisce il cielo e la terra, abbraccia e penetra tutto il creato. Il mondo, che è uscito dalle mani di Dio, ritorna a Lui in gioiosa e piena adorazione: nel Pane eucaristico « la creazione è protesa verso la divinizzazione, verso le sante nozze, verso l’unificazione con il Creatore stesso ». Perciò l’Eucaristia è anche fonte di luce e di motivazione per le nostre preoccupazioni per l’ambiente, e ci orienta ad essere custodi di tutto il creato.[28]

 

Merita osservare che il sì cosmico, che Francesco riprende da Giovanni Paolo II, vuole cancellare secolari equivoci accumulati intorno al Cristianesimo e alla sua pretesa negazione della natura. Viene da pensare al suo più estremo accusatore, Nietzsche, il quale oppose la fedeltà alla terra alle sovraterrene speranze. Ma non è forse, quell’opposizione, sintomo della malattia che egli denunciava? Dal momento che, superati gli equivoci, un’autentica esperienza religiosa è anche un’esperienza cosmica, non sarà che un’autentica esperienza cosmica è anche un’esperienza religiosa?

 

La struttura trinitaria della realtà è infine il vero fondamento teologico dell’interdipendenza. Poiché la relazione è insita in Dio stesso, necessariamente la si ritrova nel mondo. In questa luce si deve anche concepire il senso del cammino personale di ciascuno, orientato verso una realizzazione che è comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature.

 

Le Persone divine sono relazioni sussistenti, e il mondo, creato secondo il modello divino, è una trama di relazioni. Le creature tendono verso Dio, e a sua volta è proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra cosa, in modo tale che in seno all’universo possiamo incontrare innumerevoli relazioni costanti che si intrecciano segretamente. Questo non solo ci invita ad ammirare i molteplici legami che esistono tra le creature, ma ci porta anche a scoprire una chiave della nostra propria realizzazione. Infatti la persona umana tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da sé stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature. Così assume nella propria esistenza quel dinamismo trinitario che Dio ha impresso in lei fin dalla sua creazione. Tutto è collegato, e questo ci invita a maturare una spiritualità della solidarietà globale che sgorga dal mistero della Trinità.[29]

 

Attenzione.

Quel cammino di uscita da sé per vivere in comunione, attraversi cui si cresce, si matura e ci si santifica, non è mai fuga dal mondo ma più profonda aderenza a esso. È vivere pienamente nel presente, anziché proiettarsi vanamente nel futuro[30]. È lavoro, che è cosa ben diversa dalla tecnica[31]. È ritorno a un’economia reale[32], e a un’imprenditoria che crei lavoro[33]. È comunità[34]. È sobrietà[35]. È attenzione alle piccole cose, oltre che alle grandi scelte, secondo l’esempio di Teresa di Lisieux[36]. È bellezza[37].

Se il cammino ha poi il suo fondamento nell’esperienza contemplativa, essa viene ridefinita in modo da non suscitare equivoci. Si tratta di contemplare il mondo non da fuori ma da dentro, riconoscendo i legami che uniscono a tutti gli esseri.

 

Per il credente, il mondo non si contempla dal di fuori ma dal di dentro, riconoscendo i legami con i quali il Padre ci ha unito a tutti gli esseri.[38]

 

L’idea di poter contemplare il mondo dall’esterno è tipica di quell’atteggiamento appropriativo che è all’origine del paradigma tecnocratico, la cui radice ultima, in termini cristiani, è il peccato. La condizione che all’uomo è data, che può intendere come volontà di Dio o realtà comunque delle cose, è di appartenere al mondo: qualunque diverso pensiero, per quanti vantaggi abbia a promettere, conduce in errore. Dal che si ricava che il peccato consiste anche proprio in un errore logico: quello di concepirsi esterni a ciò di cui si è invece parte.

La scelta di Francesco d’Assisi, e di tutti i santi, è sotto questo aspetto chiara. Ciò a cui si rinuncia è la pretesa, variamente connotata, a quello sguardo esterno. La rinuncia al mondo, erroneamente pensata come chiusura a esso, è in verità un’apertura più profonda, essendo rinuncia allo sguardo appropriatore. E poiché l’io stesso si è costituito in quell’appropriazione, è rinuncia all’io. Quel che resta è la gioia della liberazione, il ritrovamento dell’innocenza. Per colui che fiduciosamente contempla il mondo nell’unico modo in cui esso davvero si mostra, cioè dall’interno, la natura diventa luogo della presenza di Dio.

 

… tutta la natura, oltre a manifestare Dio, è luogo della sua presenza. In ogni creatura abita il suo Spirito vivificante che ci chiama a una relazione con Lui.[39]

 



[1] Laudato si’, 3

[2] Ibidem, 42

[3] Ibidem, 89

[4] Ibidem, 138

[5] Ibidem, 70

[6] Ibidem, 86. Catechismo della Chiesa Cattolica, 340.

[7] Ibidem, 67

[8] Hans Jonas Das Prinzip Verantwortung: Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation. Frankfurt/M., 1979, trad. it. Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 2002

[9] Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung, 3 Bde, 1954–1959, trad. it. Il principio speranza, Garzanti, Milano 2005

[10] Laudato si’, 83-84

[11] Jeremy Rifkin, The Third Industrial Revolution; How Lateral Power is Transforming Energy, the Economy, and the World, 2011, trad. it. La terza rivoluzione industriale. Come il “potere laterale” sta trasformando l’energia, l’economia e il mondo, Milano, Mondadori, 2011

[12] Gregory Bateson,  Steps to an Ecology of Mind, 1972, trad. it. Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977

[13] Watzslawick, Beavin, Jackson, Pragmatics of Human Communication, 1967, trad. it. Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma 1971

[14] Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Laterza, Roma-Bari 1977; TEA, Firenze 1992, p. 3

[15] Fritjof Capra, The Tao of physics, 1975, trad. it. Il Tao della fisica, Adelphi, Milano 1982

[16] Ci si riferisce agli incontri Mind and Life, tenutisi soprattutto a Daharamsala, in India, a partire dal 1987

[17] Mondadori, Milano 2006

[18] Laudato si’, 201. Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 231: p. 1114.

[19] Ibidem, 140

[20] Ibidem, 139

[21] Ibidem, 79

[22] Gv 1,14

[23] Gv 1,18

[24] Laudato si’, 98

[25] Ibidem, 76

[26] Ibidem, 238-239. Giovanni Paolo II, Catechesi (2 agosto 2000), 4: Insegnamenti 23/2 (2000), 112

[27] Ibidem, 235. Citazioni da Giovanni Paolo II, Lett. ap. Orientale lumen (2 maggio 1995), 11: AAS 87 (1995), 757

[28] Ibidem, 236. Citazioni da Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003), 8: AAS 95 (2003), 438, e Benedetto XVI, Omelia nella Messa del Corpus Domini (15 giugno 2006): AAS 98 (2006), 513

[29] Ibidem, 240

[30] Ibidem, 266

[31] Ibidem, 98

[32] Ibidem, 189

[33] Ibidem, 129

[34] Ibidem, 219

[35] Ibidem, 223

[36] Ibidem, 230

[37] Ibidem, 234

[38] Ibidem, 220

[39] Ibidem, 88

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