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Filosofia della famiglia.

RicondaLa cosiddetta crisi della famiglia deve essere inserita nell’ambito più largo della crisi etico-religiosa del nostro tempo. La crisi della famiglia è crisi etico-religiosa, la sua difesa e la difesa degli individui che essa è capace di produrre, se la si vuole svolgere coerentemente su un piano filosofico, non può che passare che attraverso una riaffermazione della dimensione etico-religiosa dell’uomo. Una riaffermazione dell’etica disgiunta dalla religione non è sufficiente perché, mi pare di potere dire, la morale autonoma, nel senso dell’ammissione di questa disgiunzione, non ha saputo resistere, e non vedo come possa resistere, alle critiche che le possono essere rivolte, e di fatto le sono state rivolte, dal nichilismo e dal sociologismo, che sono oggi le filosofie dominanti nel nostro ambiente dopo il fallimento della rivoluzione, ancora ben presente almeno come speranza nella prima metà del secolo appena scorso. La famiglia borghese in quanto si costituiva sullo sfondo di questa separatezza portava già seco i germi della sua crisi. L’espressione «etico-religiosa» esige però una chiarificazione: quando parlo di dimensione etico-religiosa voglio parlare della religiosità immanente all’etica stessa, in termini filosofici di una dimensione metafisica dell’uomo, in termini teologici cristiani della religione che la fede presuppone ma che non implica immediatamente l’assenso a una fede determinata. Si tratta di una dimensione dell’uomo che tutte le religioni riconoscono e in cui è il loro possibile punto di incontro.

Per questo motivo, tenuto conto dell’invadenza delle spinte verso il totalitarismo tecnocratico, sarei per dire che la reazione ad esso si configura quasi come richiesta di una conversione [1].

 

(…)

 

Il sapere costituire un’unità rispettosa dell’alterità è il segreto della vita famigliare. E questa costruzione è possibile perché ogni individualità è un’individuazione di quell’essere che vive nelle sue realizzazioni molteplici senza mai esaurirsi in esse, che stimola ciascuna di esse a questa realizzazione. Amare è partecipare a questa vita dell’universo.

Nella famiglia si ha una personalizzazione del sesso, che ne svela il significato profondo, al di là di ogni sua banalizzazione o riduzione ad un gioco erotico. Guardando a questo lato del problema si potrebbe dire che  nella famiglia  e solo nella famiglia l’umanità giunge veramente ad un’espressione vivente di se stessa. Mascolinità e femminilità appartengono certo a quel che Marcel chiama il mistero, hanno una densità di significati che difficilmente si lasciano catturare: quel che può trarsi dall’idea di famiglia indicata è che la sessualità deve essere vissuta personalisticamente, nel cerchio di un’interpretazione aperta a trarne forme di realizzazione non mistificanti, al di là di ogni mortificante sacrificio dell’una e dell’altra delle sue dimensioni, rompendo ogni nesso fra sesso e potere, sia come ripetizione del passato, sia in forme nuove, che per la loro novità sono meno evidenti ma non meno pericolose.

Non si può toccare questo punto senza evocare le teoria del gender, anche perché è divenuta, almeno nelle sue applicazioni pratiche, largamente dominante, penetrando in istituzioni ufficiali, organizzazioni varie governative e non governative…

In realtà quello a cui queste teorie giungono è la cancellazione del mistero dell’amore attraverso una banalizzazione del sesso, la sconnessione del sesso dal senso profondo della vita. È evidente che questo impegno nella sovversione del sesso si oppone all’amore in cui abbiam visto l’aspetto più profondo della famiglia: «decostruendo le condizioni del dono di sé, in particolare la  femminilità e la mascolinità, volendo fare di tutte le persone umane dei “cittadini egualitari”, attaccandosi alla maternità come ad un ingiustizia sociale, riducendo la vocazione dell’uomo e della donna alla loro funzione sociale, facendone dei partner legati fra di loro da un “contratto”, il gender rende l’amore personale impossibile, lo uccide anche nella cultura»[2]

 

(…)

 

Tutto ciò che ho detto spiega perché la famiglia possa essere considerata come luogo eminente e insostituibile di educazione e perché ad essa ci si rivolga nei momenti di crisi sperando di trovarvi quel che non si può trovare altrove;  il che è certo giusto se l’appello alla famiglia è l’appello ad un impegno etico dei suoi membri, che tenga però conto che essa è luogo di possibili deformazioni di rapporti umani che tanto costo umano richiedono poi per essere vinti nella negatività delle loro conseguenze. Si può parlare di forza e di fragilità della famiglia insieme[3].

Pur nella sua fragilità, in quanto in essa completamente non si riassorbe, e continua a vivere nonostante se ne sia decretata molte volte la morte, la famiglia può essere segno di speranza. (…) In questo senso nella famiglia si trovano segni che possono invitare a non disperare: si ingenera una fiducia nella vita e nell’altro. In realtà tutte le nostre realizzazioni di valori hanno sempre carattere di parzialità, di frammentarietà, e non vanno oltre di esse, ma quel tanto che in esse si realizza basta a non chiuderci in un mondo asfittico che non conosce la speranza, a dare senso alla domanda se quel che si riveli nel frammento non sia il senso del tutto, e se la sua frammentarietà non sia dovuta ad uno stato di deviazione in cui ci troviamo, il cui superamento su un piano di trascendenza  costituisce la nostra destinazione ultima. 

 

 

Da Giuseppe Riconda, “Filosofia della famiglia”, Editrice La Scuola, Brescia 2014, pp. 27-28, 48-49, 51-52, 72-74 passim



[1]  La società tecnocratica in cui viviamo è caratterizzata non solo dell’ipertrofia della tecnica ma dalla diffusione del pensiero tecnico strumentale che porta a vedere l’altro unicamente come condizione della propria realizzazione. Ora  il contrario di un rapporto strumentale è un rapporto di rispetto, e il minimo che un’etica esige è il rispetto di sé e degli altri come fini in sé. Ma come è possibile l’affermare questa  idea se non connettendola  con quella che v’è nell’uomo qualche cosa di cui non si può disporre, una dimensione per cui è un riflesso del divino in lui e che perciò merita infinito rispetto? È questo io credo il principio presente in ogni religione: presente nel cristianesimo certo, ma presente in ogni religione, che segna il punto di incontro fra religioni diverse che proprio nella resistenza alla deriva tecnocratica potrebbero trovare la loro unità in vista di un nuovo ecumenismo. Un nuovo totalitarismo, il totalitarismo tecnocratico, ci minaccia e non vedo come la resistenza ad esso possa darsi al di fuori di un riferimento a questa concezione dell’uomo come immagine di Dio, che lo rende degno di infinito rispetto, contro ogni tendenza manipolatrice del suo essere, contro ogni tendenza dissolutrice della sua dignità.  Dopo il fallimento della rivoluzione è da domandarsi se possa esistere altra contestazione degli aspetti negativi dell’esistente al di fuori dello spirito religioso; la promozione di una rivoluzione è necessaria perché di fatto la società tecnologica è irriformabile, ma  si tratta di una rivoluzione anzitutto  nelle coscienze,  per cui più che di rivoluzione necessaria parlerei di necessaria conversione. Naturalmente uso “necessaria” nel senso di moralmente necessaria: penso che si debba mirare oggi ad una restaurazione dei valori etico religiosi, ma sono ben consapevole delle difficoltà che ciò importa. Quel che qui ipotizzo è che il mondo d’oggi  possa essere salvato solo da un risveglio religioso, da una conversione vera e propria e non da tecniche sociologiche ed economiche o da qualsiasi forma di pensiero che postuli un’autosufficienza umana, come del resto ha suggerito Giovanni Paolo II nella Redemptor hominis, ma risveglio e conversione  non sono in nessun modo garantiti. Forse la filosofia non può fare altro che cercare intanto di rimuovere sul piano intellettuale, che è l’unico che le è proprio, le cause che questa conversione ostacolano (innanzi tutto quei consolidati idola fori, per usare un linguaggio baconiano, con cui la società tecnocratica tenta di autogiustificarsi (l’equivalenza di modernità e progresso, l’idea di un processo irreversibile, la connessione arbitraria di permissività con democrazia, ad esempio). Questa restaurazione  non può avere carattere pragmatico: come osserva Del Noce «il detto corruptio optimi pessima vale per l’involgarimento che  [gli ideali etico-religiosi] subiscono quando si vedano in essi, almeno in primo luogo, degli strumenti di utilità sociale. Occorre pensarli sotto la categoria della verità e del bene perché siano socialmente utili; il contrario è impossibile. Certo un tale risveglio non può  essere soltanto opera dell’uomo. Ma pure esso abbisogna, per attuarsi, che i cuori degli uomini siano attenti. E oggi l’attenzione viene bloccata da quella serie di idola» di cui si diceva. Quanto all’esito ultimo del processo, esso deve essere lasciato impregiudicato: la fine dell’uomo non è né contraddittoria né impossibile. Cfr. A. Del Noce, Rivoluzione Risorgimento Tradizione, Milano, Giuffré, 1993, p.170).

[2] M. A. Peeters, Le gender, une norme mondiale? Pour un discernement,, Paris, MamE, 2013, p. 83. A questo libro rimando anche per una eccellente esposizione della  Gender Theory e della Queer Theory: in particolar alla discussione delle tesi di J. Butler, Gender Troubles: Femminism and the Subversion  of Identtity, New York, Routledge, 1990 [tr.it Milano, Sansoni, 2004] che è l’opera ormai classica sull’argomento. Cfr anche ID, Body that Matter. On the Discursive Limits of Sex, Stanford, Stanford University Press, 1993 [tr.it. Milano, Feltrinelli, 1996] e T. De Lauretis, Soggetti eccentrici, Milano, Feltrinelli, 1999.   

Per una reazione critica cfr. S. Agacinsky, Politique des sexes, Paris, Seuil, 1998 (tr.it, Firenze, Ponte della grazie, 1999);T. Anatrella, Le règne de Narcise. Les enjeu du dèni de la différence sexuelle, Paris, Presss de la Renaissance, 2005 ; X. Lacroix, Homme e femme. L’insaisissable difference, Paris, Ed: du Cerf, 1993, ID:  La confusion des gendres, Paris, Bayard, 2005; AAVV, L’éducation à l’âge du “Gender”. Construire ou déconstruir l’homme?. Paris, Salvator, 2013.  Lo sfondo filosofico prossimo di queste teorie è da ricercarsi nelle filosofie poststrutturalistiche e postmoderne:  M. Foucault,  J. Derrida, G. Deleuze, J.-F. Lyotard (la bibliografia sull’argomento è ormai vastissima), quello remoto in un miscuglio  di Marx, Nietzsche e Freud variamente interpretati.

[3] Ricordo  che nell’ambito del pensiero tradizionale la condizione umana è condizione di peccato, nel senso che in lui si fanno sentire le conseguenze del peccato contro cui deve combattere. Non abbiamo in via esperienza di un bene puro ma sempre e soltanto di un bene in lotta contro un male reale o possibile. Occorrerebbe un lungo discorso sul rapporto teologia e filosofia nel quadro del pensiero tradizionale cui mi sono ispirato che qui non è possibile svolgere. Osserverò  però  che la situazione di peccato  come un residuo di tendenza al male in noi contro cui dobbiamo combattere è largamente confermata dall’esperienza ed è di per sé singolare che un filosofo come Kant  nel delineare la figura di una religione nei limiti della sola ragione non possa non incontrarsi con essa.

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