
Diario di viaggio. 27 settembre
Partenza.
Non manca di una certa ironia la situazione in cui sorge il timore di non riuscire a raggiungere l'aeroporto, in quanto sull'aeroporto stesso marciano i dimostranti per Gaza, con l'intento di bloccarlo. Agenti ovunque che bloccano e controllano gli accessi, un elicottero è in volo. Per un momento, il tempo di raggiungere insolitamente a piedi l'imbarco, la percezione è che la guerra sia giunta fino a qui.
Non c'è in realtà tensione, gli agenti sono gentili; ma l'atmosfera è sospesa, come a richiamare la solennità del momento che si sta vivendo.
L'aereo si alza in volo. Staccandosi da terra non si lascia però detto niente: o almeno non gli affetti, non i legami profondi in rapporto ai quali è stato presa la decisione di partire. Tutto questo non rimane a terra, ma accompagna dolcemente in questa traversata del cielo, preludio di quella che ci si attende avvenga in mare.
Quello che è lasciato a terra sono i sentimenti contrastanti che mi hanno accompagnato lungo tutto questo tempo, da quando questa decisione si è fatta strada in me: con la paura di quello che avvertivo inequivocabilmente chiamarmi.
Non ho finora detto a nessuno per pudore di esser stato quella sera a sperimentare una condizione che non senza sgomento mi ha fatto pensare a Gesù nel Getsemani: in quel momento, se avessi avuto, come supponevo, da partire subito, il mio cuore lo avvertivo tanto fragile da pensare che non avrei fatto ritorno.
Non sarebbe stato biasimevole tirarmi indietro: eppure sentivo dentro me di non doverlo fare, che la vulnerabilità di quel momento rendeva la chiamata tanto più importante.
E ho davvero vissuto la condizione nella quale dire sì è follia, secondo ogni ragionevole considerazione; eppure è un sì che libera, detto il quale non c'è più niente che possa far paura. Ricordo quella sera che scambiavo messaggi con un fraterno amico musulmano; e lui a un certo punto mi diceva: se senti di doverlo fare, fallo. Dio si prenderà cura del tuo cuore.
È un sì che però ho dovuto dire molte volte in questo tempo, mentre i tempi si allungavano e non si sapeva più se sarei infine partito o no. E una parte di me sperava in fondo di non partire; che il sì fosse stato sufficiente, senza dovermi mettere nei fatti in una situazione comunque di pericolo.
Ecco quello che ora ho lasciato a terra.
L'aereo è partito, il viaggio ha avuto inizio. Davvero.
All'aeroporto di Brindisi mi viene a prendere il responsabile di quello che chiamano equipaggio a terra, insieme a due giovani gemelle che lo hanno accompagnato per aiutarlo a stare sveglio lungo il viaggio. È tutto il giorno che lavora all'allestimento della spedizione. Si è occupato in particolare del rifornimento per la cambusa. Mi chiede se sono vegetariano, perché si sono organizzati in tal senso.
Lungo il viaggio parliamo molto. Era di Rifondazione Comunista, coloro con cui collabora, che siano italiani, palestinesi o di qualsiasi parte del mondo, li chiama compagni. E mi dice di questo mondo multinazionale, ma anche della grande collaborazione della gente locale: sono attenti, offrono sostegno economico, oppure lavoro. Tutto ovviamente è volontariato.
E mi dice di come lui, che il padre comunista non ha voluto fosse battezzato, sia vicino ai missionari comboniani, e di come questi ultimi siano solleciti nell'accoglienza degli immigrati. E dei rapporti col vescovo, che è venuto a benedire l'imbarcazione su cui salirò, insieme all'imam.
Emerge un quadro di persone generose, che mi fa sentire a casa.
Giunti a Otranto, andiamo direttamente al porto, dove c'è il presidio con la tenda e le bandiere palestinesi. Mi danno da mangiare ceci, e del buon vino.
Ascolto animatamente parlare del capitalismo e della lotta di classe, come da tanto tempo non mi capitava, insieme ai problemi dell'ecologia e dell'intelligenza artificiale. Ma al tempo stesso una delle due gemelle mi dice che sta facendo una tesi su Schopenhauer e la malattia mentale...
