
Diario di viaggio. 7 ottobre
Martedì, 7 ottobre. Una data che non può non pesare.
So che nelle piazze si è colto in modo anche esplicito quello che molti pensano: cioè che la sua fondamentale natura fosse quella di un atto di resistenza. E ciò su cui si insiste su questa nave è che nulla è davvero iniziato quel giorno.
Sono due affermazioni entrambe vere, eppure io quel giorno ho telefonato ai miei amici ebrei, accogliendo sinceramente il loro sgomento. Ho sentito che davvero affiorava in loro una paura antica.
Non importa quanto quella paura sia stata strumentalizzata - quanto tutto un Paese e un'intera comunità mondiale ne sia tenuta ostaggio: quella paura di per sé è autentica e merita rispetto. Chi come me sostiene che bisogna ascoltare la sofferenza altrui lo deve in questo caso fare in tutte le direzioni.
Per questo io, che due anni fa telefonavo ai miei amici ebrei per esprimere la mia vicinanza, adesso sono qui.
La resistenza ha senz'altro una dignità maggiore di una guerra di sterminio, ma anche la resistenza può essere terribile. Non dobbiamo dimenticarlo.
Oggi è l'ultimo giorno in cui navighiamo in acque che si possono dire tranquille. Domani entreremo nella zona di pericolo.
Questa è quasi sicuramente l'ultima pagina che trasmetto di questo mio diario. Se dovessimo ancora avere un giorno prima di essere intercettati, salvo situazioni nuove, penso mi raccoglierò nel silenzio, nella meditazione e nel reciproco sostegno coi miei compagni di viaggio.
Chi mi conosce personalmente e mi legge avrà capito che la mia partecipazione a questo viaggio non si pone su un piano direttamente politico, come è per lo più per i miei compagni; o meglio lo è su quello di una politica più ampia, che cerca di cogliere, al di là di quel che ci divide, quel che più profondamente ci unisce. Il che non esclude che si debba di volta in volta prendere posizione, ed è per questo che io sono qui.
Dobbiamo nutrire la speranza che un giorno la pacificazione sia possibile, per quanto assurdo paia adesso.
Nei miei colloqui a bordo, e soprattutto nei momenti meditativi, invito a pensare al senso interiore che ha quel che stiamo vivendo, al ruolo che ha nel nostro cammino esistenziale.
Noi stiamo navigando verso Gaza, ma al tempo stesso stiamo procedendo più profondamente in noi stessi.
Senza nulla togliere a coloro che cerchiamo di sostenere, noi stiamo realizzando qualcosa di essenziale nel nostro destino. Tra l'uno e l'altro aspetto c'è interdependenza, e l'uno non può stare senza l'altro. Questo dovremmo tenere in considerazione rispetto all'evento verso il quale il nostro viaggio è indirizzato.
Se ci fosse concesso di raggiungere Gaza, cosa che avverrebbe venerdì, noi entreremmo ancora più profondamente nella storia di quella gente, ma insieme ancora più profondamente loro entrerebbero nella nostra. Vale però anche lo stesso per i soldati israeliani che più plausibilmente irromperanno a bordo interrompendo il nostro viaggio.
Potrebbe sembrare questa una conclusione meno degna, ma proprio questo è forse il nodo che in questi giorni siamo chiamati a sciogliere.
Non si può negare la paura che quel momento suscita, per quanto fin da subito fosse nel nostro orizzonte; e, chiedendo di essere imbarcati, lo abbiamo implicitamente accolto.
Abbiamo scelto la strada del coraggio, per noi e per quanti sono a casa - anche per i palestinesi, che ci sono grati per condividere in una parte anche solo piccola quello che essi vivono senza generalmente averlo scelto.
E allora, proprio perché abbiamo scelto la via del coraggio, è bene che comprendiamo bene in cosa mai consista. Provo a dirlo con le parole che uso qua, nei momenti di meditazione, che non sono poi diverse da quelle usate tante volte negli incontri che facciamo in Italia.
Mentre ci pare dunque che il nostro viaggio inesorabilmente ci conduca verso quel momento nel quale i soldati israeliani saliranno a bordo, e si tratta di un pensiero che la nostra
mente ricorrentemente incontra, non si può tuttavia
negare che si tratti di un momento diverso da quello che si sta vivendo.
In questo infatti i soldati non ci sono. Siamo semplicemente qua su questa nave, in tranquillità e sicurezza, su un mare neppure troppo agitato e nella luce radiosa del sole.
Non ci sono i soldati, qua, c'è solo la paura di essi: ma sono due cose ben diverse. È presumibile che verranno, ma adesso non ci sono.
Senza rincorrere a Buddha, diceva Sant'Agostino che il passato non c'è più, il futuro non c'è ancora e solo il presente c'è realmente. Noi viviamo sempre nel presente. Il passato non è che ricordo, il futuro non è che attesa, e a rigore anche il ricordo e l'attesa sono parte di questo presente.
In questo nostro momento presente, nel quale i soldati non ci sono, c'è dunque una particolare attesa che li riguarda, che assume la prevalente tonalità della paura. Questo c'è nel nostro presente, di questo dobbiamo essere consapevoli, questo dobbiamo accogliere. La paura dobbiamo finire per rendecela amica, e vedremo che non saremo più in suo potere.
Quando verranno i soldati, sarà un altro presente e dovremo cercare di stare in quello. Ci sarà il ricordo di tutto quello che abbiamo pensato nell'attesa, di tutto ciò che quei soldati significano per noi, e ci sarà la preoccupazione di cosa accadrà dopo. E noi dovremo accogliere tutto ciò, senza però che ci distragga da quel che di vivo avviene in quel momento.
Anche quei soldati dovremo in un certo senso rendeceli amici. Non si pretende in senso politico, ma in un senso più profondo.
Entrano a far parte della nostra vita, addirittura lo sono già da tempo: da quando abbiamo deciso di partire.
In un momento successivo, in un altro presente, riconosceremo quanto quel momento, con i soldati che irrompono, sia stato importante: ebbene, riconosciamolo adesso che lo stiamo vivendo.
Si dice in una battuta attribuita a Woody Allen: "la vita è quel che accade mentre pensiamo ad altro". Ebbene, smettiamo di pensare ad altro: entriamo pienamente nella vita.
Nel nostro cammino esistenziale quei soldati sono qui per questo: per insegnarci a stare pienamente nel presente, per insegnarci a vivere davvero.
In varie sapienze spirituali si dice che bisogna vivere il momento che viviamo come se fosse l'ultimo. Ebbene, se grazie a questi soldati dovessimo imparare questo, cosa ci sarebbe di importante? E, nel pensare questo, toglieremmo qualcosa alla popolazione di Gaza, a cui accade così spesso di dover pensare che questo momento potrebbe esser l'ultimo?
Ecco: quando verrà il momento... Ci è accaduto e ci accadrà più volte nella vita di pensarlo. Nella forma più solenne può trattarsi del momento della morte.
Qui parliamo di un momento in ogni caso notevolmente forte, che merita un particolare rispetto; ma, se saremo capaci di accordarglielo, ogni momento di lì in poi sarà per noi in grado di pretenderlo. E, se accettteremo che sia così, sarà per noi la pace.
E la pace è una condizione che, quando la viviamo, non rimane chiusa in noi, ma si comunica misteriosamente intorno.
Per quel che ci riguarda sono sicuro che giunga a Gaza, così come giunga in Israele, perché un'azione come questa, senza fare appello a sentimenti ostili ma attraverso il rischio che comporta comporta per chi la vive, oltre che alla sua bellezza, giunge a toccare corde profonde nel cuore umano.
