Non bisogna vendere l’anima. In ricordo di Goffredo Fofi

no vendere animaUn’inaspettata attenzione mediatica ha suscitato la morte di Goffredo Fofi. Mi si consenta allora un breve ma commosso ricordo personale.

Ci sono persone che, per quanto apparentemente fugace sia l’incontro con esse, riescono a entrare tanto profondamente in noi da diventare inseparabili da una verità di noi che hanno saputo portato alla luce. E così è stato lui per me.

In realtà non ricordo bene quando l’abbia incontrato la prima volta: la sua immagine affiora in me come da vite precedenti, ma suppongo sia avvenuto a Roma nel 1976, avendovi vissuto vari mesi per certi incarichi nell’ambito di quella che, in un tempo sideralmente lontano, era la militanza politica; o poi ancora l’anno successivo, avendo preso parte a un certo libro (I non garantiti) in rapporto a quel famoso movimento del ‘77, dove mi ero trovato un’ultima volta ad avere un ruolo di quel tipo. Dovevo essere entrato in rapporto con gli ambienti di quella rivista, Ombre Rosse, che era un’importante espressione culturale di quel mondo dell’estrema sinistra, e che Fofi dirigeva.

Quello che è per me però indimenticabile è un incontro avvenuto, nell’estate o nell’autunno del ‘77, a Torino, in una riunione della redazione di quella rivista stessa.

Ricordo come tra me e lui fosse sorta una profonda simpatia reciproca, ponendosi lui in modo un po’ paterno nei miei confronti. E io non potevo che essere colpito dalla sua sottile intelligenza, unita a una indubitabile bontà. Era, nel senso migliore, la personificazione di quella figura dell’intellettuale che per varie generazioni è stata così importante nella nostra coscienza culturale, nella quale di volta in volta chi era giovane poteva riconoscere il ruolo di maestro. Forse solo oggi tutto questo si è interrotto, e so che lui, come me, ha avvertito questa frattura dolorosamente.

Ebbene, ricordo che avrebbe avuto piacere che a quella rivista io collaborassi, e naturalmente l’avrei avuto anch’io, e me ne sentivo onorato, ma non potei fare a meno di dirgli che avevo preso la decisione, dopo anni di quella militanza che avevo posto al centro della mia vita, di tornare a quella che era stata la mia prima vocazione: cioè la filosofia.  

Non era cosa da poco. Era una decisione carica di sottintesi. C’era la consapevolezza in me che tutto un ciclo si fosse chiuso, e non solo nella mia esistenza ma in tutta la storia collettiva: si era chiusa la vicenda del comunismo, senza dover attendere la caduta del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica. Lo scioglimento di Lotta Continua (novembre del ‘76) e poi ancora l’estrema fiammata del ‘77 avevano quel significato, per chi avesse saputo coglierlo. E io ne ero molto consapevole, e mi trovavo, a vent’anni o poco più, già a sentirmi reduce di tutta una grande vicenda storica che avevo appena fatto in tempo a vivere. Quel che si apriva adesso era tutto da scoprire.

Non dissi niente di tutto ciò, ma nel mio ricordo è come se lui l’avesse colto, e deve esserci stato come un attimo di tristezza. E poi lui disse quello che è sempre rimasto inciso in me: “E ho studiato ahimè filosofia, e teologia... “; e, con sguardo penetrante, aggiunse: “A settant’anni venderai l’anima al diavolo!”

Per chi non lo sappia, le prime parole erano una citazione dal Faust di Goethe: il vecchio sapiente si dispera di tutta una vita trascorsa nello studio, senza poter mai afferrare quello a cui lo studio avrebbe dovuto condurlo. È la situazione di grave crisi esistenziale che prelude a quel che avverrà immediatamente dopo: gli si presenterà il diavolo, a cui venderà la propria anima per tornare giovane e immergersi nel vortice di quella vita a cui aveva inutilmente rinunciato.

Si può immaginare con quale stupore accogliessi quelle parole, pur pronunciate con l’ironia bonaria che gli era tipica; ma è difficile comprendere fino a qual punto mi colpissero. C’era infatti una ragione di cui lui non poteva essere al corrente: quei versi e quella scena erano come in me da sempre.

Per quanto possa apparire molto singolare, io avevo letto il Faust prima di mettere piede al liceo. Sarà stato per un’infanzia un po’ infelice e soprattutto solitaria, ma mi ero prematuramente immerso in letture che mi avevano presentato, prima di essere in grado di elaborarli, i grandi nodi dell’esistenza. Anzi, potrei dire, quando venne la politica, fu per me il modo attraverso cui divenni in grado di sostenerne il peso.

Non ero certo il primo a farlo, perché sicuramente da varie generazioni alcuni rivoluzionari avevano trovato quell’espediente come via d’uscita a nodi altrimenti soffocanti. Posso però dire di essere stato fra gli ultimi a cui quella possibilità si sia presentata. E Goffredo Fofi non poteva sapere come in cuor mio quei nodi stessi accettando di reincontrarli, con tutto il pericolo che rappresentavano...

Non so a sufficienza di lui, ma suppongo che, per parlarmi così, avesse lui stesso quanto meno sfiorato vissuti di quel tipo, e del resto Faust, nella versione di Goethe almeno, alla fine riesce a non cadere nella dannazione per essergli capitato, quasi involontariamente, di essere di aiuto ad altri. E certo la militanza rivoluzionaria aveva un senso di quel tipo: la salvezza è per chi riesce a uscire da se stesso.

Per questo penso che in quello che mi sentii dire quel giorno ci fosse una sincera preoccupazione per me. Come dire: tu che hai potuto già conoscere quale sia la soluzione, come puoi tornare indietro, in meandri che sappiamo senza uscita?

E in effetti non posso negare di avere spesso pensato a quelle parole, né di aver conosciuto in tutti gli anni successivi momenti di profonda disperazione.

Non potevo tornare indietro, perché la mia consapevolezza, oltre che la piega presa dagli eventi mondiali, me l’avrebbe impedito; eppure avevo spesso la percezione di aver perso qualcosa di importante, un vero e proprio fondamento della vita.

Pensavo di doverlo trovare in forma nuova, e non sarei probabilmente sopravvissuto se non avessi avuto fede che sarebbe accaduto. Il fatto stesso che andassi inoltrandomi in zone religiose me lo confermava: in qualche modo avevo sempre saputo che la rivoluzione era una specie di surrogato della vita spirituale, in un’epoca in cui quest’ultima non era facilmente attingibile – oltre che, in talune situazioni, il suo naturale prolungamento.

Eppure la vita religiosa non mi si presentava con la naturalezza con cui mi si era presentata la rivoluzione. Era una via lunga, faticosa. Non ho avuto madonne che mi siano apparse, né improvvise folgorazioni. O, meglio, le folgorazioni sono venute quando una strada mi si è davvero aperta. Ma sono passati tanti anni. Ero stato eccessivamente precoce, e in questi casi il contrappasso è di dover attendere davvero a lungo.

Non voglio comunque adesso dilungarmi troppo.

Certo, mancano ancora più di sei mesi ai miei settant’anni, e, non foss’altro che per questo, tutto può ancora accadere. Riesco però a pensare di aver trovato il punto che può salvaguardarmi, e mi appare chiaro proprio mentre scrivo. Provo a dirlo, e, se per caso me ne dimenticassi, prego chi legge di ricordarmelo.

Ecco, in breve penso che, quando Goethe fa incontrare Faust con il demonio, adotta un modulo narrativo per esprimere una condizione che il suo protagonista già viveva e che vanificava l’intera sua ricerca. Certo, aveva rinunciato a tutto per il sapere, e questo ci pare cosa nobile, ma quel sapere era indissolubilmente legato al potere. E cosa promette il diavolo, se non in fondo il potere?

E il potere può assumere varie forme, da quello nei rapporti ravvicinati a quello su vaste masse; ma una tra le forme più insidiose è proprio quella connessa col sapere. Chi se ne impadronisce può anche decidere del destino di chi non incontrerà mai, anche a distanza di generazioni. E può facilmente pensare che ne farà uso per il suo bene, senza per questo essere in cattiva fede: da Platone a Marx c’è un solco molto profondo nella nostra storia culturale.

Naturalmente la stessa rivoluzione è implicata in questo, anzi ne è una delle più alte espressioni; eppure non si può negare che per molti si sia trattato di tutt’altro, e di certo era così per Goffredo Fofi.

Ebbene, oggi io so che quello che ci può salvare è semplicemente l’amore, e, se la via di qualcuno è una via di conoscenza – e in qualche misura lo è per tutti –, la conoscenza non sia mai separata dall’amore.

Sicuramente per una persona naturalmente buona come Goffredo Fofi, e certo molti altri, la rivoluzione stessa era un atto d’amore – sembra oggi difficile capirlo, ma è così: i poveri, cioè il proletariato, erano la nostra via per il cielo. Questo dunque ora mi rimproverava: di non avere più quella fede che lui, figlio della terra di San Francesco, continuava a mantenere. Io da parte mia ero però troppo intimamente faustiano per non essere drammaticamente consapevole di tutto il male che su quella via si era accumulato, e dovevo assolutamente allontanarmene.  

Cosa avrei dovuto attraversare per decenni, mentre il mondo intorno a me faceva inesorabilmente il suo corso, per capire quella semplice verità – cioè che a riscattarci non può essere che l’amore? Dovevo attraversare tutta la filosofia occidentale e andare oltre, fino a diventare monaco buddhista, per scoprire quello che è in fondo, chiaramente, al cuore del cristianesimo...

Non ho mai più cercato Goffredo – mi si consenta di chiamarlo così, come un amico tra i più preziosi, al di là del tempo e dello spazio. Non l’ho fatto per pigrizia, per timidezza, per il timore che non comprendesse un percorso così apparentemente strampalato come il mio. Eppure solo qualche giorno prima di sapere di lui, a una persona che mi è tanto cara, proprio per via dell’amore, parlavo di lui e di quelle sue parole.

A chiunque non capisca verrebbe da sorridere, perché oggi tutto questo sembra più che mai lontano. Molti della sua e della mia generazione, verrebbe da dire, dell’anima non si sono più di tanto preoccupati, forse perché già la rivoluzione era stata vissuta con un inconfessabile desiderio di potere; e io, che per temperamento ero di certo tra i più a rischio, devo soltanto ringraziare le durezze della vita per avermi imposto un’ascesi non cercata.  

La conseguenza è che purtroppo oggi le anime si vendono molto a poco, e il commercio è così fiorente da non meritare menzione alcuna. Verrebbe da dire che si vendono fin da subito, come un tempo la Chiesa raccomandava il battesimo ai bambini, e potrebbe far notizia che qualcuno, quanto meno giunto all’adolescenza, la pretenda indietro. Ce ne verrà, un giorno magari prossimo, chiesto il conto?

Penso che Goffredo, senza mai perdere la sua dolcezza, di questo abbia sofferto. E, pensando a ciò, davvero mi rammarico di non averlo cercato, perché, adesso ne sono certo, ci saremmo capiti.

Ma confido che, in modi misteriosi, quello che di me ora confesso gli possa giungere.  

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