
Diario di viaggio. 29 settembre
Sera del secondo giorno qua a Otranto, lunedì.
Sono tornato al presidio sul porto, che esercita su di me una particolare attrazione. Vi ritrovo un mondo che su da noi, in quella che fu la Torino operaia, è completamente scomparso.
È incredibile come la Flotilla e la causa della Palestina abbiano saputo riaggregare una solidarietà popolare in cui tante persone prestano senza risparmiarsi la loro opera e insieme sperimentano il piacere di stare insieme e di condividere il cibo e la festa. Io, che sono venuto per amore, non posso non sentire innanzitutto l'amore di questa gente, e non corrispondervi interamente.
L'Arca su cui mi imbarcherò vorrei potesse salvare in primo luogo loro. Vorrei che la giovane generazione delle nostre città più progredite potesse ancora conoscere quello che decenni di consumismo e neoliberismo scatenati hanno per lo più spazzato via, lasciando un panorama di macerie.
È stato un diluvio inarrestabile, che ha reso almeno in apparenza impraticabili le vie attraverso cui generazioni innumerevoli hanno dato vita a società che potessero dirsi umane.
Tornando indietro, la giornata ha ospitato il secondo giorno del percorso formativo. Si sono simulate le scene più prevedibili, quando i soldati israeliani irromperanno a bordo, o poi quando, portati in Israele, verremo interrogati.
Bisogna sapere cosa fare, e non commettere errori. Ammesso che, naturalmente, questo si verifichi.
Il momento è davvero delicato, difficile esser certi di quello che accadrà. Quand'anche poi le cose andassero secondo copione, difficile poi esser certi di riuscire a mantenere la calma in situazioni che chiunque considererebbe traumatiche. Ed difficile pensare di andarvi incontro volontariamente. Bisogna attingere la forza da zone molto profonde.
Mi guardo intorno. Guardo ad uno ad uno il centinaio di persone con le quali so che domani salirò a bordo della nave Conscience.
Hanno tratti somatici diversi, data la diversa provenienza, eppure molto di comune: è un certo tipo di cultura a unirli, un ideale umano, e poi ancora qualcosa di più essenziale: sono persone coraggiose.
In queste nostre società, dove tutto un sistema che garantisce maggiori sicurezze di quanto non fosse in passato ottiene paradossalmente il risultato di rendere più paurosi, ci sono ancora persone disposte a mettere la loro vita in gioco per valori di giustizia.
Naturalmente guardo bene, perché il coraggio può essere di vari tipi.
C'è in particolare nell'etica guerriera un certo tipo di esaltazione, ovviamente funzionale a sconfiggere la paura, ma che è all'origine spesso di gravi atti, tanto personali quanto collettivi.
Ecco, cerco quel tipo di coraggio ma non riesco quasi del tutto a scorgerlo. Vedo piuttosto gli sguardi limpidi e tranquilli di chi davvero, mettendo in gioco la propria vita, non ha propensioni aggressive verso quella altrui.
La nonviolenza richiede evidentemente un coraggio purificato da ciò che per lo più lo inquina.
Mi viene dunque in mente che la parola "coraggio" , almeno in italiano e in altre lingue europee che si riferiscono alla radice latina, ha il significato etimologico di "avere cuore". Cioè mettere davvero il cuore in quello che facciamo, lasciando che sia lui a indicarci le scelte giuste.
Il coraggio non esclude dunque la paura, che è al servizio dell'autoconservazione, ma è la capacità, quando sia necessario, di superarla. Per questo, probabilmente, è tra le virtù considerata la più nobile: perché ci spinge fuori da noi stessi, anche incontro all'ignoto.
Ed è, in questa vicenda, ciò che avrà domani un suo primo momento culminante, quando finalmente scenderemo in mare...
