Il sonno della ragione genera mostri

sonno ragioneCredo che per comprendere la causa e l’origine di ciò che sta avvenendo in quella che una volta chiamavamo “terra santa”, occorra risalire soprattutto al famoso processo Eichmann, che ebbe luogo a Gerusalemme nel 1961, immediatamente prima del Concilio Vaticano II. Perché occorre evocare quel famoso processo? Perché esso pose un suggello inaudito al diritto ebraico “ad avere una patria”.

Ma innanzi tutto, di quale diritto si trattava? Sotto un certo aspetto, esso non differiva dal diritto che avevano posseduto gli Stati colonialisti europei fra il 1600 e il 1900 di occupare terre asiatiche, africane o transoceaniche, semplicemente piantando una bandiera sulla sabbia del primo approdo: perché la civiltà europea dell’epoca escludeva le terre extraeuropee dalla sfera del diritto, ed erano quindi terra di nessuno (giuridicamente parlando) o del primo che le “scopriva” (nel 1500 le terre americane occupate dagli spagnoli almeno erano ancora soggette al mandato papale di evangelizzazione!).

A Berlino, nel 1884, il re del Belgio nella spartizione del continente africano enunciò, a nome di tutti gli Stati della terra, il “diritto della civiltà” con queste parole: “Squarciare le tenebre che avvolgono popolazioni intere è, oso dire, una crociata degna di questo secolo di progresso”.

Le terre escluse dal riconoscimento di sovranità, benché abitate, ebbero precisamente il destino che oggi ci offre lo spettacolo palestinese; per capirci, quello che ci narrò Kevin Kostner nel film “Balla coi lupi”.

E che altro accadde se no, in Palestina nel 1948?

Chiaro che le potenze vincitrici nel 1945 (per capire la storia bisognerebbe vederla dalla parte dei vinti) allora considerarono la Palestina dal punto di vista del colonialismo come avevano fatto già nel 1919 (dalle stanze di Versailles), benché fosse cominciata una rivoluzione anticolonialista mondiale. L’Onu, del resto, apparteneva ai vincitori della guerra e non vi ebbe che una modesta parte formale.

Ma fu quel processo svoltosi nel 1961 a Gerusalemme d Ben Gurion a confermare (nel senso “cresimale” del termine) il diritto ebraico all’acquisizione dei territori e lo fece attraverso un grande spettacolo mediatico che acquistò, come doveva, una dimensione mondiale. Se l’occupazione dei territori palestinesi era stata legittimata da un diritto coloniale, il processo Eichmann costruì l’immagine che si sarebbe tradotta nel mito del “male assoluto”: ovvero, di un simbolo oscuro e irrazionale del male subìto, che avrebbe conferito alla vicenda dello Stato ebraico un crisma di eccezione nei confronti del suo posto nel mondo.

Eichmann, un ufficiale nazista responsabile di deportazioni ed eccidi di vasta portata, incarnò agli occhi del mondo mediatico di allora questo mito, e la sua esecuzione sancì l’eccezionalità di cui abbiamo detto. Il processo non era nemmeno fondato sul diritto imposto dalle potenze vincitrici (esso avvenne infatti prescindendo dalle istituzioni penali internazionali da poco istituite all’Aja). Né avvenne nello spirito del processo di Norimberga del 1946, ma sull’affermazione del carattere di unicità dello sterminio perpetrato nei campi di concentramento nazisti.

Fu questo, dicevamo, ad autolegittimare lo Stato di Israele, giustificandone la presa di sovranità sui territori palestinesi, quelli assegnati e quelli occupati al di fuori del diritto internazionale (cioè, nonostante le numerose denunce e dichiarazioni di condanna delle Nazioni Unite).

E non v’è alcun dubbio che questa seconda fondazione dello Stato di Israele sollevasse una pretesa morale eccedente qualsiasi espressione corrente del diritto internazionale; tanto è vero che le legislazioni di alcuni Stati occidentali inserirono questo riconoscimento nel proprio diritto penale, ponendo perciò una tale eccezione sotto la tutela penale della propria legge.

In tal modo si fece appartenere la nascita dello Stato alla sfera del puro irrazionale, appunto in quanto katékon fondato sulla memoria di un male assoluto. Esso poté occupare la memoria temporale dell’Occidente nella seconda metà del XX secolo persino come una paralisi della storia. Né va dimenticato che confluiva nel clima di silenzio e di autoassoluzione imposto dagli Stati belligeranti vincitori su tutti i propri crimini di guerra, fra il 1939 e la seconda metà del secolo, in una sorta di intenzione assolutoria che nell’entità dei crimini nazisti copriva o giustificava moralmente i propri.

Fu solo Hanna Arendt, con il suo lungo reportage, commento (e critica), cioè ne La banalità del male (1962), a rovesciare l’impianto di questo mito in termini ben più razionali, e perciò subito aspramente controversi. Nella banalità del male la filosofa non solo cercò di demitizzare l’insorgente interpretazione demonizzante dello sterminio (che a un certo punto, prima nei media americani e poi in Europa, prese la figura emblematica di olocausto).

Non si trattava certo di una tesi riduzionista. L’allieva di Heidegger nella figura di Eichmann semplicemente non vide affatto un’apparizione demonica, ma più squallidamente la perdita della responsabilità individuale entro la complessità burocratica della società di massa, con la scoperta che il male nella nostra epoca non consiste nell’intenzione, ma nell’incoscienza. In altre parole, al mondo non esistono mostri, ma milioni di uomini che vivono indifferenti o completamente staccati dagli effetti finali delle proprie azioni. La Arendt riportava alla misura umana il colpevole sottoposto a giudizio per gli effetti di uno spirito di obbedienza automatica, che agiva ignorando o non volendo sapere quello che ne derivava.

“Eichmann non era uno Jago o un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” – come Riccardo III – per fredda determinazione. Egli non aveva motivi per esser crudele, e anche quella diligenza [di burocrate] non era di per sé criminosa. Naturalmente i giudici sapevano che sarebbe stato quanto mai confortante credere che Eichmann fosse un mostro. Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti, e che questi uomini non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali…questo nuovo tipo di hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”.

Era una denuncia della oggettiva indifferenza propria di una società di massa, allora nella forma totalitaria, ma oggi ben riconoscibile nell’organizzazione tecnico-mediatica della società della comunicazione. Ma veniva anche indirettamente delegittimata la pretesa di eccezione di cui abbiamo parlato, che deriva dal carattere irrazionale del male che ne sarebbe all’origine presentandola come un katékon.

Non si tratta qui, in riferimento a quanto oggi accade a Gaza, di considerare l’attualità o l’inattualità della riflessione della Arendt, ma di evocarne lo spirito: ovvero l’adozione di una razionalità che riconosce l’appartenenza comune a un ordine umano giuridicamente e moralmente inteso; che previene la guerra e, a maggior ragione, ogni spietatezza che derivi dalla pretesa di dare un significato ontologicamente negativo al nemico. Come era accaduto agli ebrei fra le due guerre. Come oggi accade in Palestina. Poiché nessun ordine internazionale può basarsi su un mito irrazionale.

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