Alle sorgenti del Gange

gangotriOgni anno il popolo d’Israele andava verso l’altura di Gerusalemme. Vi saliva per adorare Yawèh nel tempio che egli si era scelto per fissare la sua dimora terrestre.

Anche Gesù compì questo pellegrinaggio insieme ai figli del suo popolo. E la sua ultima ascesa a Gerusalemme lo condusse sul Calvario.

Allo stesso modo ogni anno le folle dell’India vanno in pellegrinaggio ai luoghi santi dell’Himalaya, al monte Kailāsa, alle sorgenti del Gange.

Ovunque la stessa risposta dell’uomo alla chiamata che gli viene dalle altezze dove, istintivamente, colloca la dimora di Dio, suo creatore. Irresistibilmente egli sale, quasi per ritornare alla sua “fonte”, lassù, da dove provengono tutte le acque: quelle che si diffondono su tutta la terra per fecondarla e quelle a cui misticamente possono ritornare le anime.

La stessa Gerusalemme non è forse una sorgente, come fu rivelato al profeta Ezechiele? Da sotto l’ingresso del suo tempio, a oriente, nasceva un fiume che subito si gonfiava; esso ricopriva presto la terra santa intera e portava dappertutto, fino al mare, le sue acque benedette e vivificanti (Ez 47, 1-12)

 

Le vette della catena dell’Himalaya, la cima dell’universo, lo sforzo supremo della terra per raggiungere il cielo.

Protese il più possibile verso l’alto, esse si slanciano verso il firmamento come per carpire le acque che sono sopra il cielo, come dice la Genesi.

Per captarle e farle cadere sulla terra: dapprima torrenti impetuosi che spaccheranno il fianco della montagna, più tardi fiumi tranquilli che attraverseranno la pianura e la renderanno fertile, per il benessere e la gioia degli uomini.

Perché le sorgenti del Gange non sono tanto quei ghiacciai dalle cui labbra filtrano le sue prime acque, quanto quelle grandi sommità stagliate in pieno cielo – luogo d’incontro del mondo di lassù, inaccessibile, dal quale pur tuttavia proviene l’uomo e al quale ritorna, e del mondo di quaggiù dove si svolge la sua provvisoria vita terrena.

Il mito hindū l’aveva ben compreso, poiché fece del Gange un fiume celeste. Shiva, il dio per eccellenza delle montagne, lo ricevette a nome degli uomini sul suo capo, e su tutto il suo corpo fece colare le acque della grazia.

Shiva è anche l’asceta che medita lungo le cascate e nelle gole dell’Himalaya, scavando sempre più profondamente dentro di sé, per giungere alla sorgente dell’Essere e accedere alla Presenza.

 

(…)

 

Il monte Kailāsa è ormai proibito ai pellegrini. I nuovi signori della Montagna non ne conoscono più il segreto. Essi vorrebbero estirparne persino il ricordo dal cuore degli uomini. Ma questi padroni di un giorno passeranno, e il Kailāsa resterà. I pellegrini torneranno ad immergersi nel lago Manasarovar e a compiere giri intorno alla montagna sacra fra tutte.

Le folle continuano a salire ad altri santuari, Gangotrī, Kedārnāth, Badrīnāth, i luoghi in cui hanno la loro sorgente i tre rami principali del Gange, il Bhāgīrathi, il Mandākinī, l’Alakānanda.

 

(…)

 

le saux panikkarEra ben giusto allora che anche il Cristo salisse sull’Himalaya, come un tempo era salito a Gerusalemme e al Calvario.

Che vi salisse non più soltanto nella persona di coloro che gli appartengono senza saperlo e che lo adorano e lo servono sotto immagini e segni di cui non percepiscono il senso  ultimo – ma ora anche nella persona di coloro la cui fronte fu segnata con la santa croce e portano il suo nome impresso nel più profondo del cuore.

Che in questi loro corpi stremati dalla fatica egli offrisse al Padre il prezzo del riscatto degli uomini; che nei loro occhi rapiti dalla bellezza delle cime dicesse al Padre la gioia raggiante dei redenti; che attraverso le loro labbra avide abbeverasse la sua chiesa alle meravigliose sorgenti…

Che in essi realizzasse tutti i simboli e colmasse tutte le attese; che in essi infine conducesse tutti i segni alla Realtà che lui è!

Poiché anche Cristo è il Dio delle altezze. Fu sul monte che egli trasmise ai discepoli la charta del vangelo; sul monte si manifestò loro nella sua gloria; sul monte infine li condusse per benedirli un’ultima volta e sparire ai loro occhi di carne – quest’ultima trasfigurazione, più misteriosa ancora di quella del Tabor, annunziava il suo darshana definitivo, la sua epifania nello Spirito, nel più profondo delle anime.

Prima di morire non aveva forse detto a coloro che lo cercavano: quando sarò innalzato da terra – prima sulla croce, poi nell’ascensione – attirerò tutto a me?

Egli verrà sulle nubi, quando ritornerà, avvolto egli stesso, dice la scrittura, dalle nuvole che avvolgono le cime.

È Cristo la “vetta” che ogni cima rappresenta: è la sommità che si eleva in pieno cielo per captare l’essere e la vita. Con il suo capo egli penetra il vertice più alto del mistero del Padre. La terra è lo sgabello dei suoi piedi, anzi la solida base in cui egli si radica toccando la più densa profondità della nostra umanità.

Egli è colui che il mito di Shiva, l’asceta dell’Himalaya, significava, ricevendo la grazia sul suo capo e attraverso il suo corpo la faceva scorrere sugli uomini. Egli è il mediatore, nel quale Dio si fa conoscere all’uomo e gli dà la gioia di contemplare il suo volto.

Egli è quella colonna di luce e di fuoco che il mito di Shiva-Arunācala celebrava, che penetrava i cieli, s’immergeva nella terra, e nessun uomo, nessun dio poté mai sapere fin dove essa salisse, più alta di tutti i cieli, né fin dove discendesse, più profonda del centro stesso della terra…

 

(…)

 

Alcuni anni dopo, salii a Gangotrī.

Con i pellegrini, questa volta – era infatti il mese di giugno, in piena stagione dei pellegrinaggi -, seguii il Bhāgīrathī attraverso i sentieri rocciosi e scoscesi, con la bisaccia in spallee il bastone di bambù i mano, scambiando con i passanti il saluto tradizionale in onore del Gange, l’Alma mater, più spesso però rispondendo loro con l’OM, che sulla montagna è il saluto abituale rivolto al sādhu e che si attende da lui in risposta.

OM non è infatti il mantra per eccellenza, se non l’unico, del vero sādhu, soprattutto del sādhu pellegrino? Lungo tutta la strada non è forse l’OM che scaturisce dal suo core come scaturisce dal fiume, dalla montagna, dalla foresta, come scaturisce da ogni essere vivente incontrato sul cammino? L’OM che aleggia sopra il fragore del Gange, sul fremito delle foglie, il cinguettio degli uccelli; che si ripercuote senza limiti sulle rocce a picco, e che trova ne cuore del sādhu come un’eco infinita, dove si congiunge con l’OM primordiale nel cui silenzio tutto è detto?

 

(…)

 

Quando fu compiuto il tempo del mio silenzio, un amico venne a raggiungermi. Egli era sacerdote dell’Altissimo, dell’ordine del Signore Gesù Cristo.

 

(…)

 

Durante le nostra conversazioni, parlavamo molto del mistero hindū e del mistero cristiano: quest’ultimo così profondamente presente nel nostro cuore dall’infanzia, l’altro così intenso in luoghi come questi, così evocatore, al fondo delle nostre anime, di esperienze uniche…

«Sono hindū», affermava egli con forza, «E ne sono fiero. Mio padre era hindū e, col sangue, mi ha trasmesso tutta l’eredità dei santi e dei profeti di Bharat. Il battesimo non mi ha fatto rinnegare la mia discendenza hindū  più di quanto abbia fatto rinnegare a Paolo, a Pietro e a Giovanni l’origine ebrea. L’India e le sue scritture fanno parte dell’immenso testamento cosmico che precedette l’alleanza del Sinai e quella che Dio concluse con Abramo – l’alleanza stabilita con Noè, se vuoi, secondo la Bibbia. È così all’interno di questo testamento, di questa alleanza originaria, che lo Spirito prepara la pienezza dei tempi, la venuta e la rivelazione della gloria del Verbo incarnato, attraverso tutti i popoli, tutti i luoghi, tutti i tempi dell’universo. Senza dubbio fu per Israele dapprima, e anche in Israele, che suonò l’ora di Dio. Ma, come disse Gesù alla samaritana, si avvicina l’ora – ed è già venuta – in cui non sarà più sul monte Garizim né a Gerusalemme che i popoli andranno ad adorare Dio. In seno a ciascuno di essi sorgeranno gli adoratori «in spirito e in veità» che il Padre attende – ciascuno allora porterà alla chiesa i tesori di verità e di grazia che lo Spirito sviluppò in lui con i suoi tempi di preparazione. (…) Questo passaggio implica la pasqua, e la pasqua è il grano che non germina se non morendo. Questa pasqua siamo noi, cristiani e hindū  insieme, che dobbiamo viverla sia nel nome dell’India sia in quello della chiesa. Se in effetti è gioia indicibile per l’una e per l’altra, essa è ugualmente per entrambe un parto. Ora, dopo l’Eden, non c’è parto sulla terra che sia senza dolore… È in vista di questa pasqua che sono venuto qui, pellegrino della chiesa e dell’India. Sono venuto seguendo i miei antenati, che vi salirono un tempo, portando sulla loro fronte le tre strisce di cenere, segno di Shiva. Vengo a mia volta con la fronte segnata dalla croce di Cristo».

 

(…)

 

È necessario che ci siano a Gangotrī dei monaci cristiani che raccolgano l’OM fluente dal Gange e dalla montagna, e lo raccolgano alla sua sorgente, per cantarlo nel nome di Cristo, attraverso lo Spirito, nella chiesa. Per mormorare l’OM, per meditare l’OM, per penetrare fin nel più profondo di sé nell’OM.

Ed è necessario che ci siano monaci profondamente umani, nelle città e nelle campagne in cui vivono gli uomini – per raccogliere l’OM che sale da auto e da treni, dalla folla di quanti corrono a piaceri e affari. Per raccoglierlo, mondarlo e dargli compimento nel silenzio dell’anima.

Poiché il compito del monaco è quello di ricondurre tutto dal temporale all’eterno, dal divenire all’essere, dall’esterno all’interno.

Egli è il grande sacerdote della solitudine e anche il grande sacerdote della folla, che libera questa dalla solitudine che porta nel suo seno.

Presente a tutto, libero da tutto.

 

 

(…)

 

… era la festa del sacro Cuore.         

 

Quando il sole apparve sopra le montagne dell’est, partimmo, (…) risalendo lungo il fiume nella direzione del ghiacciaio da cui esso ha principio.

Camminammo così per parecchi chilometri sui sassi, sulle rocce, attraversando i ruscelli che di continuo confluivano nel Gange. Passammo accanto a molti eremitaggi nascosti negli anfratti delle rocce. Alcuni sādhu ci fecero cenno di fermarci e di andare nelle loro capanne. Ma quel mattino non avevamo tempo. Un’opera preziosa da compiere ci attendeva.

Continuammo così ad andare avanti cercando un luogo idoneo, vicino al fiume ma al riparo dal vento; al riparo inoltre dagli sguardi curiosi di pellegrini che senza saperlo si fossero spinti verso quel luogo. Quella prima eucaristia alle sorgenti del Gange doveva essere offerta in segreto, perché nessuno lì ancora era preparato a capirla, tranne coloro che erano venuti come primizie della chiesa.

Infine scoprimmo un posto che ci parve adatto. Il sole era già alto all’orizzonte e scaldava forte.

Per prima cosa gettammo i nostri vestiti sulla sabbie, e, nudi come quando si nasce, ci immergemmo nell’acqua gelida, compiendo innanzitutto, in quel luogo predestinato, una specie di rito cosmico del ritorno alla matrice originante, alla sorgente dell’essere – rievocazione anche del rito battesimale che, riprendendo e compiendo il rito cosmico, simbolizza con tanta efficacia il mistero della nostra rigenerazione.

Poi, quando venne l’ora, ci sistemammo nel cavo della roccia prescelta. Sulla pietra pareggiata con un po’ di sabbia, deponemmo le “tovaglie” di lino, il messale e il calice d’argento. Trasportammo in una coppa dell’acqua attinta dove scaturiva il fiume. Per offrire e consacrare, ci eravamo forniti, oltre al vino, di uno di quei pani azzimi di frumento (chapatti) che qui sono nutrimento comune dei pellegrini.       Tentammo invano di accendere dei ceri: il vento li spegneva subito. Li sostituimmo allora con bastoncini d’incenso incandescente. E lassù, allo zenit, c’era il grande luminare celeste, il cui splendore faceva brillare le nevi tutt’intorno: il sole, che vede tutto ciò che accade sulla superficie della terra, che illuminò gli occhi del primo uomo e che gli occhi di Gesù morente sulla croce contemplarono; il sole presente a tutto e testimone di tutto ciò che è, fu o sarà.

 

Ci sedemmo l’uno di fronte all’altro, e, prima di iniziare la celebrazione liturgica, cantammo qualche versetto delle Upanishad, poi una litania in sanscrito al Cristo salvatore, Figlio di Dio, Figlio dell’uomo, unico Signore.

L’eucaristia è il rito cosmico per eccellenza. Questo doveva essere ricordato qui. L’albero della croce portava la salvezza al mondo. Con la sua sommità si elevava verso il cielo, con le sue braccia si rivolgeva al mondo, ma in piena terra era piantato. Anche il pane e il vino eucaristico provengono dalla terra. Allo stesso modo, in piena terra, si radica il rito cristiano, nel rito primordiale che è quello dell’uomo e della terra.

Di ciò il nostro “introito” vedico voleva esser segno, come lo sarebbe stato all’offertorio l’offerta dell’incenso, dei fiori e della fiamma d’olio.

 

Il rito eucaristico si svolse lento e discreto. Per quanto alzassimo la voce per sentirci e risponderci, la voce del fiume copriva le nostre, come l’accompagnamento di un ripieno d’organo. Mistero pure della voce dello Spirito che tutto riempie e nella quale è detto tutto ciò che di Dio o a Dio si dice…

Insieme cantammo il Pater. Le nostre labbra si accostarono per il bacio di rito. Dividemmo il pane. Insieme bevemmo alla coppa sacra.

 

Il sacrificio era consumato. Sulle rive del Gange, alla sua sorgente, l’offerta escatologica era stata celebrata. Tutto ciò che in quei luoghi era stato pregato e cantato, tutto ciò che era stato offerto simbolicamente nel tempio o presso le acque del fiume, tutta la sofferenza dei duri pellegrinaggi, tutto il silenzio e l’austerità degli asceti, tutto ciò era stato infine compiuto nel Sacrificio.

 

Dalle sorgenti il Gange continuava a scendere verso la pianura, all’inizio torrente tumultuoso, trasportando con le sua acque tutto quello che aveva strappato dalle alte cime, e ben presto fiume largo e tranquillo, portatore di fecondità e di grazia…

 

Era la festa del sacro Cuore, la Sorgente.

 

 

Henri Le Saux (Abhishiktānanda), ‘Alle sorgenti del Gange. Pellegrinaggio spirituale’, Servitium, Sotto il Monte 2005, passim

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                   

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