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Civiltà al bivio. In dialogo con Fabrizio Pezzani.

PezzaniUno degli autori più interessanti per capire il senso di quel che storicamente e socialmente si sta vivendo è senz’altro Fabrizio Pezzani. In due libri, La competizione collaborativa del 2011, e il più recente È tutta un’altra storia del 2013, i cui sottotitoli sono rispettivamente Ricostruire il capitale sociale ed economico e Ritornare all’uomo e all’economia reale[1], disegna un quadro di grande ampiezza e profondità, che le vicende in corso paiono ampiamente confermare.

Cercherò, in dialogo con lui, di mostrarne le articolazioni e di chiarirne il senso.

 

Quello che Pezzani si propone di formulare è una critica dell’economia ufficiale, quel pensiero unico da tempo dominante a livello mondiale che considera l’economia stessa, nei termini abituali e indiscussi della ricerca del profitto, come un criterio non subordinato ad altri nel determinare le relazioni sociali. Il che a sua volta presuppone che un certo tipo di razionalità, desunto dalle scienze naturali e in ultimo dal formalismo matematico, sia considerato a fondamento dell’intera complessità della vita umana. Si tratta di un riduzionismo che semplifica e distorce la comune percezione della vita e finisce per fallire nella stessa previsione dei fenomeni economici, soggetti a fattori non sempre quantificabili e che spesso una più ampia saggezza umana meglio potrebbe spiegare.

Ebbene, secondo tale pensiero, arrogantemente inconsapevole dei suoi limiti, la soluzione della crisi in corso dovrebbe essere cercata all’interno di quella stessa razionalità di cui è portatore, non tenendo conto che insistere su una via sbagliata può solo peggiorare le cose. Bisogna invece capovolgere la prospettiva e considerare, non l’economia a fondamento della società, bensì al contrario la società a fondamento dell’economia. Quest’ultima non è che un mezzo attraverso cui gli uomini perseguono le loro finalità più proprie: che, secondo un orientamento critico della teoria economica che ha il suo capofila in Karl Polanyi, non sono solo di sussistenza ma innanzitutto di ordine relazionale e spirituale. Da questo capovolgimento può scaturire un diverso paradigma capace di condurci davvero fuori dalla crisi in corso.

 

… una cultura e un pensiero unico tecnico-razionale e materialista e il suo distacco dalla cultura umanistica, che si sono sviluppati nel corso degli ultimi due secoli, ci impediscono di cogliere l’essenza, più metafisica e spirituale che fisica, della crisi in corso, perché è stata legittimata una cultura che afferma come unico principio di verità solo «ciò che si vede, si tocca e si misura». Infatti, se la realtà fisica è misurabile, quella spirituale ed emozionale non lo è, così il suo perimetro definitorio diventa opaco e non rilevante nelle decisioni; termini come etica, solidarietà, equità, rischiano di non essere più compresi dai giovani e purtroppo non solo da loro.[2]

 

In questa diversa prospettiva, che secondo Pezzani è quella che risponde a una corretta comprensione della natura umana, acquista particolare rilievo una distinzione concettuale che è centrale in tutto un orientamento sociologico internazionale, di cui fanno parte autori famosi come Robert Putnam e Francis Fukuyama: la distinzione tra capitale economico e capitale sociale.

L’idea è che l’accumulazione di capitale monetario non vada considerata come un processo isolato ma posta in relazione con un altro tipo di ricchezza che è insita nel tessuto delle relazioni sociali: per l’appunto il capitale sociale. Gli scambi economici presuppongono infatti che tra gli individui di una società sussistano legami di fiducia, e questi a loro volta sono resi possibili da un contesto sociale che essi percepiscono come favorevole alla realizzazione delle loro aspirazioni.

È significativo che nella prima fondamentale opera di Putnam, La tradizione civica delle regioni italiane[3], consista in un’ampia analisi delle condizioni che hanno determinato il divario economico, su cui Pezzani stesso a lungo si sofferma[4], tra il Nord e il Sud Italia. Nel primo un ricco tessuto di relazioni sociali ha determinato le condizioni per lo sviluppo economico, nel secondo la sua assenza lo ha impedito.

Lo stesso sviluppo economico può però distruggere il tessuto sociale, cosa che avviene quando un orientamento unilateralmente rivolto al profitto determina il divaricarsi della forbice che divide la piccola minoranza di coloro che si arricchiscono da una grande maggioranza che si va sempre più impoverendo; il che si realizza nel nostro tempo in primo luogo nel paese che è stato alla testa dello sviluppo economico mondiale: gli Stati Uniti d’America. In quello che è forse il più famoso testo di Putnam, Bowling alone[5], si analizza infatti la condizione di crescente isolamento degli individui nella società americana, in contrasto con la vivacità di relazioni che è stata all’origine della sua ascesa. La stessa condizione che, nell’opera di Francis Fukuyama dal titolo La grande distruzione[6], è posta in rapporto col grande evento dei nostri tempi: la rivoluzione determinata dalla tecnologia mediatica, che produce un estremo allentamento delle relazioni tra gli individui, oltre che fenomeni di disgregazione come l’aumento della disoccupazione.

C’è insomma non da oggi un convergere della riflessione sociale nel mettere in luce che l’aspetto più critico della società contemporanea è costituito dal suo impoverimento in termini di capitale sociale. Quando nel 2008 prese forma la crisi economica attuale, c’era ampiamente la possibilità di comprenderne le cause al di là dei fattori immediatamente scatenanti. Si tratta di capire, direbbe Fukuyama, entro quali forme, sicuramente diverse dal passato, il capitale sociale può essere ricostituito.

 

Rispetto agli autori citati e ad altri ancora, il contributo di Fabrizio Pezzani alla formazione di un quadro culturale in grado di orientare negli scenari attuali sta in una più profonda esplorazione di quel che oggi è in gioco dal punto di vista dei valori etico-filosofici e delle alternative che si presentano alla nostra civiltà, in aderenza o meno a una natura umana che nessun evento storico ha il potere di cambiare. Il suo punto di vista si mantiene vicino alla tradizione degli studi umanistici, oltre che alla dottrina sociale della Chiesa.

 

Il mondo occidentale si è cullato nell’idea che l’abbondanza di beni elargita da una magica cornucopia e l’illusoria felicità che da tale abbondanza derivava non avessero mai fine; poi il brusco risveglio, in cui si è trovato di fronte ai problemi posti da una crisi che lo ha investito fin nelle sue fondamenta, mettendo in discussione i suoi modelli di vita e di società e decretando il fallimento di quel modello di sviluppo che sembrava la panacea di tutti i mali. La crisi, che subito è apparsa nella sua dimensione economica e finanziaria, quella che oggi condiziona maggiormente il nostro sistema di valori, ha radici e cause più profonde legate a modelli di vita, di consumo, di cultura e alla storia della nostra civiltà. Le analisi ex post, essendo di fatto quasi nulle quelle ex ante e comunque inascoltate, sono state quasi tutte di carattere economico-finanziario perché quelle erano le variabili in gioco, ma quasi nessun macroeconomista si è posto il problema di quanto i fondamentali dell’economia possano dipendere dai fondamentali della natura umana.[7]

 

Per quanto la sua ricerca muova da premesse strettamente economiche, la tradizione a cui Pezzani si connette, quella dell’economia aziendalistica italiana, è originariamente portatrice di una visione più ampia rispetto a quella di impronta anglosassone oggi dominante; essa infatti considera l’impresa come solo uno degli istituti della società, insieme alle famiglie, agli istituti pubblici e agli istituti non profit, ciascuno dei quali svolge attività economiche, le quali però devono essere conciliate con altre finalità spesso dominanti, contribuendo a determinare il bene comune[8]. Ne consegue un orientamento che conduce Pezzani ad affermare che il fine delle relazioni umane è la conservazione del capitale sociale, mentre il capitale economico è solo uno dei mezzi per conseguirlo. Disconoscere questa verità, ponendo l’economia a fondamento della società, vuol dire produrre una cultura che opera distruttivamente sulla società, e alla fine anche sull’economia.

 

Usando la terminologia tecnico-ragionieristica possiamo dire che ogni società umana ha un bilancio composto da un conto economico – espressivo del capitale economico – e da uno stato patrimoniale sociale – espresso dal capitale sociale. L’obiettivo di lungo periodo di una società – cioè il fine – è la conservazione del capitale sociale operando tramite la combinazione dei fattori economici la cui dinamica è espressa dal conto economico – cioè il mezzo. Abbiamo scambiato il mezzo con il fine e pensiamo di risolvere i problemi del depauperamento del capitale sociale – ridotto a mezzo – facendo ricorso alla dinamica economica – diventata il fine - con il ricorso alle regole, ma se non si ridefinisce il fine non si risolverà ami il problema, perché nel lungo tempo le regole vengono sempre sottomesse al fine.[9]

 

Ciò comporta conseguenze di vario ordine.

In primo luogo bisogna che avvenga un’inversione di tendenza rispetto a quello che è avvenuto: cioè il fatto che il sapere economico, da sapere tecnico, ha abusivamente assunto dignità di sapere morale, a cui si riconosce la facoltà di indirizzare i comportamenti umani.

 

L’economia assunta a valore morale – essere verità incontrovertibile – ha tradito il suo ruolo originario di strumento per rispondere ai bisogni dell’uomo, ma è diventata essa stessa un fine e uno strumento di dominio culturale, che ha riportato la società di fronte al dilemma del suo divenire. Ancora una volta la natura dell’uomo, gettata fuori dalla porta, è rientrata con prepotenza dalla finestra: l’aggressività e l’avidità con questo modello di economia sono cresciute senza mai riuscire ad appagarsi.[10]

 

Si osservi tra l’altro che la scienza economica, nella sua asetticità, riconosce un unico aspetto emozionale umano, che infatti spesso risulta nei fatti decisivo: la paura.

 

L’idea di un mercato razionale analizzabile e governabile con sofisticati modelli matematici, statistici ed econometrici, è funzionale a garantire nell’uomo «il principio di sicurezza» necessario a rassicurarlo rispetto alla sua paura, spesso inconscia, dettata dalla dimensione di incertezza della propria vita.[11]

 

Sul piano dei criteri che devono orientare l’azione, Pezzani parla di competizione collaborativa.

Se la competizione è intrinseca all’operare economico, bisogna però che in ultimo sia finalizzata alla realizzazione di un bene comune, e quindi comporti un arricchimento reciproco. L’alternativa è lo scatenamento degli egoismi, che determina distruzione di capitale sociale. E ciò che consente di pensare che i due concetti, competizione e collaborazione, possano unirsi, è la stessa natura umana, in cui opposte tendenze tentano di armonizzarsi.

 

La definizione proposta di «competizione collaborativa» … non ha una valenza solo tecnico-economica, ma vuole anche comprendere la dimensione sociale. La definizione non rappresenta un ossimoro, come potrebbe apparire a prima vista, ma cerca di portare a sintesi le forze eterne che caratterizzano da sempre la natura dell’uomo, perennemente combattuto dal dare ascolto alla sua aggressività genetica – competizione – o all’idea di ridurre questa sua spinta per dare spazio al bisogno di essere sociale – collaborazione.

È, in altri termini, la lotta tra le forze eterne di Eros, esattamente come inteso da Platone nel Simposio, e di Thanatos, che tende a distruggere e a uccidere. Entrambe sono necessarie, entrambe sono nel corredo biologico dell’uomo e dal loro confronto la vita procede, ma l’incapacità di mediarle le fa diventare calamità fatali.[12]

 

Dato che il dualismo è insito nella natura umana, non si tratta dunque di affermare un’istanza a scapito dell’altra, bensì piuttosto di mediarle. L’alternativa non è quindi tra l’una e l’altra istanza ma tra una strategia sociale della mediazione e una invece dell’affermazione unilaterale, ovviamente della competizione.

 

… si vuole affermare l’opportunità di dare spazio a una competizione volta alla ricerca della collaborazione che unisce e cerca di mediare le istanze dell’animo umano (l’interesse sociale) a differenza della competizione proposta dal modello del mercato (l’interesse individuale), oggi inteso come verità assoluta che tende a dare spazio alla parte più aggressiva dell’animo umano e alla sua illimitata avidità ancestrale, che lo renderebbe inquieto anche in Paradiso.[13]

 

Ma l’affermazione unilaterale della competizione è destinata a portare alla rovina le società che se ne fanno sostenitrici.

 

Nel mercato inteso come assoluto, l’interesse individuale si afferma su quello degli altri fino a quando il modello socioculturale spinto agli estremi degenera e finisce per disintegrare le associazioni umane che nella storia, infatti, si sono sempre distrutte con le guerre e le differenze di classe.[14]

 

Ciò richiede l’apertura di un confronto, a cui gli economisti sono in genere poco inclini, su questioni di filosofia della storia.

In un capitolo della Competizione collaborativa, intitolato La civiltà occidentale al bivio, i riferimenti sono Spengler e Toynbee. In particolare quest’ultimo, per quanto scriva negli anni della Guerra Fredda, avrebbe individuato con chiarezza le chiavi di lettura per comprendere quel che avviene ai giorni nostri.

 

La civiltà occidentale, prima limitata al contesto europeo per poi includere anche gli USA, deve la sua formidabile espansione allo sviluppo seguito alla rivoluzione industriale della Gran Bretagna, che diventa uno dei principali fattori di unificazione europea e poi progressivamente del mondo occidentale; la comparsa sulla scena degli Stati Uniti determina la caduta dell’egemonia europea, rappresentata idealmente, dopo la prima guerra mondiale, come una sorta di pax britannica.

Il modello federale degli Stati Uniti suggerisce a Toynbee l’idea che nel tempo questo modello di cooperazione/collaborazione possa essere esteso al mondo intero come alternativa agli inevitabili conflitti che nella storia si sono sempre verificati per risolvere le controversie di supremazia fra stati.

L’evoluzione della conoscenza e della potenza tecnologica ha prodotto un’occidentalizzazione del mondo senza precedenti: le altre civiltà hanno assorbito i nostri modelli economici ma mantenendo i propri modelli culturali, la loro storia è diventata parte della nostra e con essa dobbiamo imparare a convivere; non è chiaro – sostiene lo studioso inglese – come reagiranno di fronte all’occupazione occidentale. La prima reazione che vede è quella della costituzione dell’impero comunista sovietico, ma in Civiltà al paragone (1948) afferma come probabile che «nel lungo tempo l’India e la Cina riescano a produrre effetti molto più profondi nella nostra vita occidentale di quanto possa mai essere nelle speranze della Russia e del suo comunismo» (Toynbee 1948; trad. it. 2003, p.312).[15]

 

Senza che sfugga la particolare lettura del comunismo sovietico, inteso come reazione della società russa all’occidentalizzazione del mondo, e la previsione, davvero lungimirante, del ruolo che avrebbero avuto in futuro India e Cina, la visione storica di Toynbee è significativa del tentativo, maturato nel contesto della Guerra Fredda, di «pensare a un ordine nuovo cercando una soluzione alternativa a una forma di capitalismo individualista a oltranza e a un comunismo inidoneo a rispondere alle esigenze di sviluppo sociale e individuale»[16]. Da essa Pezzani trae conferma del principio della competizione collaborativa, che diventa addirittura esplicativo del senso della storia. Nel processo di unificazione mondiale oggi in corso bisogna infatti vedere «un percorso di progressiva condivisione delle civiltà esistenti verso un ordine mondiale in cui non ci sia più una sola entità-stato dominante: a dominare deve essere un principio di cooperazione che, partendo dalle singole entità che compongono il sistema, salga fino a diventare ordine mondiale»[17].

Altro elemento nella visione di Toynbee che risulta di particolare interesse nella riflessione di Pezzani è la preminenza degli aspetti religiosi.

 

Richiamando il motto dell’università di Oxford, dove insegnava, Dominus Illuminatio Mea, Toynbee rimarca il ruolo delle religioni come crisalide fra una civiltà e un’altra, nata dalla precedente: «Se la religione è un carro, i periodici crolli delle civiltà sulla terra sono le ruote sulle quali essa cammina verso il cielo» (Toynbee 1948; trad. it. 2003, p.312).[18]

 

In È tutta un’altra storia, il cui titolo è immediatamente evocativo del cambiamento di paradigma proposto, che comporta una diversa visione del processo storico, il riferimento a Toynbee viene affiancato da quello di un autore meno noto, transfuga della rivoluzione russa: Pitirim Sorokin.

Quest’ultimo è autore di una teoria che legge l’evoluzione storica come guidata dall’alternarsi di due modelli socioculturali, che, pur non presentandosi mai in forma pura, costituiscono gli archetipi a cui le diverse società si ispirano. Si tratta del modello ideazionale e di quello sensistico. Nel primo «la realtà viene vista come non sensibile e immateriale, i bisogni hanno caratteristiche eminentemente spirituali […] possono essere soddisfatti ad alto livello […] nel minimizzare o eliminare la maggior parte dei propri bisogni fisici»; una cultura sensistica invece «non ricerca e non crede in alcuna realtà sovrasensibile […]. I suoi bisogni sono fondamentalmente fisici e se ne cerca la massima soddisfazione. Il metodo per la loro realizzazione non consiste nella modificazione degli individui ma nella modificazione o sfruttamento del mondo esterno…».[19]

Ebbene, mentre può apparire evidente che il nostro tempo sia caratterizzato dal prevalere del modello sensistico, significativo è che per Sorokin le traumatiche vicende che hanno caratterizzato il ventesimo secolo, e che, potremmo aggiungere, si prolungano nel nostro, derivino dallo sforzo dell’umanità di recuperare la dimensione spirituale.

 

Va chiaramente compresa in particolare la profonda differenza tra la verità di fede ideazionale e la verità dei sensi o sensistica. Se ognuna di esse è considerata come «la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità», non sarà possibile conciliarle: quel che appare vero dal punto di vista ideazionale, è considerato frutto di ignoranza e superstizione dal punto di vista sensistico e viceversa. Ciò spiega l’aspro scontro tra i due modelli nei periodi di transizione dall’uno all’altro.[20]

 

Ulteriore supporto a cui Pezzani ricorre è un autore che, nell’epoca in cui la civiltà moderna poneva le basi della sua ascesa, già era controcorrente rispetto al pensiero dominante: Vico. Rivisitate la sua filosofia può essere oggi interessante perché, in opposizione agli indirizzi della mentalità scientifica emergente, espressa dal pensiero cartesiano, rivalutava una dimensione integrale dell’uomo che già il materialismo minacciava di sommergere. La sua visione della storia, l’ambito in cui l’uomo propriamente realizza se stesso, presuppone l’idea di una natura umana in cui la parte razionale non è scissa da quella emozionale e spirituale. Tale natura spiega, unitamente alla Provvidenza divina, il divenire della storia secondo un senso, ma anche le sue cadute cicliche, in cui gli uomini riprecipitano a uno stato di barbarie. Ciò consente a Pezzani di leggere il tempo che stiamo vivendo come una caduta di tal genere.

 

«Historia se repetit» dice dunque Vico perché, osservando nel lungo tempo i cicli storici, si può osservare una ricorrenza di queste fasi: periodi segnati da una visione metafisica – la Grecia classica o il Medioevo – o periodi caratterizzati da una visione più materialistica e opportunistica – il tardo impero romano. Come si colloca il periodo attuale che stiamo vivendo? Abbiamo molti dubbi sul fatto che sia un’epoca di decadenza morale, un periodo degli «uomini barbari»?

Proviamo a porci la stessa domanda che ci siamo fatti all’inizio del lavoro: la crisi che stiamo passando ha origini nel mancato funzionamento dei meccanismi dell’economia o in un periodo sociale arrivato al default, che richiede un ripensamento dei valori dell’uomo e del suo ruolo nell’economia?

 

Come già abbiamo visto Pezzani, per esprimere sinteticamente la sua visione della natura umana e della storia, utilizza in modo creativo la suggestione freudiana del conflitto tra istinto di vita e istinto di morte, ricavandone un’immagine di plastica efficacia.

 

La natura dell’uomo è immutabile e oscilla in continuazione tra una spinta ad affermare la sua aggressività genetica – che possiamo identificare nella figura di Caino – e una evoluzione verso una ricerca di comportamenti più orientati alla reciproca accettazione sviluppando il senso di «societas» - che possiamo identificare idealmente nella figura di Abele.

La spinta primaria è espressa dall’aggressività – la morte – perché l’uomo non è naturalmente buono, altrimenti le religioni non metterebbero come primo comandamento «ama il prossimo come te stesso». Ma all’affermarsi di una società che, privilegiando una visione individualistica ed egoistica, porta allo scontro reciproco e al conseguente dolore che ne deriva, l’uomo viene spinto al recupero di una tensione relazionale di amore - «eros» - e all’affermazione di valori più orientati a una dimensione spirituale che portano a fasi storiche di riconciliazioni successive allo scontro e alla guerra.[21]

 

Detto ciò, ovvero delineato un quadro entro cui la nostra civiltà può essere collocata in rapporto al complesso della vicenda umana, l’analisi di Pezzani si sofferma con particolare intensità sul particolare momento che essa sta vivendo, rappresentando la drammatica alternativa di fronte a cui si trova. Essendosi confrontato con le teorie che hanno proposto chiavi di lettura per interpretare lo scenario apertosi dopo la fine della guerra fredda, in particolare quelle della fine della storia di Fukuyama e dello scontro di civiltà di Huntigton, Pezzani ne propone un’altra ancora, che merita, alla luce degli eventi oggi in corso, più che mai attenta considerazione.

 

Diciamo che, dopo il crollo del comunismo, all’interno della civiltà occidentale è venuta emergendo una frattura che non oppone più due visioni ideologiche, bensì due modelli di organizzazione sociale spesso non del tutto consapevoli di esser tali.

Per giungere direttamente al nodo della questione, gli Stati Uniti d’America hanno conosciuto, soprattutto in coincidenza con la presidenza Reagan, una profonda svolta che li ha condotti, con la finanziarizzazione dell’economia e il decentramento delle attività produttive, a una divaricazione senza precedenti della forbice sociale. Ingenti ricchezze si sono accumulate nelle mani di una ristretta minoranza, mentre il resto della società andava incontro a un diffuso e rapido impoverimento, parallelamente al restringimento della base produttiva.

 

Certamente la disuguaglianza contribuisce a cancellare il senso di socialità perché aumenta quello di esclusione e di isolamento, che è mortale per l’uomo – Caino sarà condannato a vagare per sempre da solo – e diminuisce il senso di fiducia reciproca che è alla base di una società solidale essendone il fondamento – senza un sentimento di fiducia non si costruisce il capitale sociale. Senza la fiducia non vi può essere neanche la speranza.[22]

 

Analogo processo si sviluppava nel Regno Unito col governo della Thatcher. Nel suo complesso dunque il mondo anglosassone, mentre più che mai pareva affermare la sua preminenza mondiale, poneva in realtà le condizioni del suo indebolimento. La saldezza di una società infatti, secondo Pezzani, dipende dalla capacità di conservare il capitale sociale; il che implica il mantenimento di una consistente economia reale e una forbice sociale il più possibile contenuta.

Sotto questo aspetto le società europee, e soprattutto la tedesca, hanno conservato una fisionomia più consona a uno sviluppo equilibrato. Il che si deve a diversi principi ispiratori, a un’etica della solidarietà e della sussidiarietà che mantiene il sopravvento rispetto a quella puramente individualistica del mondo anglosassone.

 

La civiltà occidentale infatti non è più un tutt’uno come era sembrato essere fino alla caduta del muro di Berlino, quando il nemico esterno contribuiva a mediare tra una cultura del mercato orientata a realizzare il massimo risultato individuale a breve – la cultura anglosassone, in primis quella statunitense – e quella della sussidiarietà più vicina alla cultura europea – orientata a realizzare il massimo risultato di sistema a medio-lungo tempo. L’esplosione dell’impero sovietico ha portato allo scoperto la distanza tra i due modelli di sviluppo e ha reso evidenti le loro contraddizioni perché i loro scopi sono diversi e la realizzazione dell’uno esclude la realizzazione dell’altro.[23]

 

Ebbene, tra i due modelli si è aperto «uno scontro giocato con le armi della finanza»[24]. Nel quale può sembrare che gli Stati Uniti e il Regno Unito mantengano la supremazia, ma ciò dipende in larga parte dal rilievo delle borse di New York e di Londra, quindi dell’economia virtuale a scapito di quella reale; e inoltre dal fatto di avere il potere di definire le regole del gioco e di accreditare quindi un’immagine anche in contrasto con la situazione reale. Nella realtà infatti, se c’è un paese vicino al fallimento, si tratta proprio degli Stati Uniti, i cui livelli di indebitamento sono senza paragoni. Essi inoltre si trovano ad aver smantellato gran parte della loro base produttiva, avendola disinvoltamente decentrata per puntare tutto sui facili guadagni dell’economia virtuale.

 

L’occupazione nel settore manifatturiero negli USA era salita fino a 19,4 milioni di occupati nel 1979, per crollare poi a quasi 12 milioni nel 2009. Ma ancora più evidente è la sua dinamica nell’era della finanza, perché negli ultimi dieci anni si è registrato il crollo maggiore: tra il 1999 e il 2009 la forza lavoro del settore si è ridotta del 31 per cento, con la perdita di oltre 5 milioni di posti.[25]

 

Le conseguenze sono gravi in termini di tenuta sociale, con fenomeni di emarginazione di fasce crescenti della popolazione e aumento della criminalità. Non a caso Obama ha cercato di invertire la tendenza stabilita dalle presidenze repubblicane, senza peraltro più di tanto riuscirvi.  

 

Un liberismo sfrenato, senza regole morali, ha finito per erodere la loro stessa società, da cui invece devono ripartire per avere una coesione sociale in grado di ricostituire una base di valori condivisi.[26]

 

Paradossalmente sono proprio i paesi emergenti ad avere le risorse di un’economia reale: la Cina, in prospettiva l’India, la stessa Russia, oltre che ovviamente, da molto tempo, il Giappone. Oltre naturalmente all’Europa, il cui cuore produttivo è la Germania. Tra l’Europa e gli Stati Uniti sarebbe in corso da tempo un confronto che non è solo tra potenze economiche, ma tra modelli sociali: il modello individualistico anglosassone e quello solidale europeo. Gli Stati Uniti, avvertendo la propria intrinseca e crescente debolezza, userebbero tutti i mezzi conferiti loro dalla posizione di predominio acquisito, innanzitutto l’uso spregiudicato delle manovre finanziarie, per dividere e disgregare l’Europa, separando le varie aree dallo zoccolo tedesco.

 

L’indebolimento del dollaro poteva orientare i «mercati» a scegliere l’euro come moneta di riferimento, magari anche come moneta di regolazione del petrolio. Al fine di dissuadere queste idee l’indebolimento della valuta europea poteva rappresentare una buona soluzione. Indebolire l’euro voleva dire indebolire la Germania, ma il Bund tedesco è ben più forte dei Treasury Bond, e per farlo si rendeva necessaria un’azione di accerchiamento e di indebolimento progressivo. Come nella seconda guerra mondiale la Germania era stata sconfitta tramite la conquista della Grecia, dell’Italia e infine della Francia – con lo sbarco in Normandia -, allo stesso modo i mercati finanziari hanno aggredito prima la Grecia, poi il Portogallo, l’Irlanda, e infine la Spagna e l’Italia.[27]

 

Può essere eccessivo pensare che alla gestione che è stata e viene fatta della crisi ucraina non sia estranea una logica di questo tipo, data l’interdipendenza che si è venuta a creare nel tempo tra l’economia europea e quella russa?

Un altro elemento che getta una luce inquietante sugli eventi attualmente in corso è il peso che nell’economia americana riveste l’industria militare. Purtroppo è un fatto noto che le guerre siano un mezzo particolarmente efficace per uscire dalle crisi economiche.

 

L’economia reale che ha sostenuto gli Stati Uniti in questi anni dipende in parte dall’industria bellica (la loro quota di mercato globale è oggi vicina all’80 per cento, contro il 27,7 per cento del 2004)…[28]

 

È insomma del tutto evidente che, secondo Pezzani, è al modello europeo che si deve guardare con speranza per il futuro, e non a quello anglosassone. In esso infatti lo scatenamento degli egoismi individuali porta a una rapida erosione del capitale sociale, quindi del tessuto stesso della vita e in ultimo delle possibilità di operare economicamente.

 

L’Europa può rappresentare inoltre un modello anche sotto un altro aspetto: quello di un’integrazione pacifica di popoli. Non a caso l’ideale europeista prende forma dopo due guerre mondiali, dopo che le ideologie nazionaliste e le politiche di potenza dei vari stati avevano provocato il più grande bagno di sangue della storia: nasce dunque dal progetto di un’unione che ponga fine alla guerra. Con tutti i problemi da cui è continuamente afflitta, tra la sfiducia interna e le minacce esterne, l’Europa rappresenta sotto questo aspetto un esperimento per certi versi unico nella storia: un’entità politica non forgiata nel sangue, come gli stati nazionali, ma addirittura sorta per impedirne nuovi spargimenti.

In un mondo che oggi appare minato dall’emergere di nuovi conflitti sanguinosi, non più tra entità come gli Stati europei, che apparirebbero oggi ben piccola cosa sugli senari mondiali, bensì tra immensi continenti socio-culturali, simili alle civiltà di cui parla Huntigton, l’Europa potrebbe costituire il modello di una pacifica coesistenza a cui guardare con speranza. Purché l’integrazione delle economie non avvenga a scapito del capitale sociale, e l’arricchimento di pochi al prezzo dell’impoverimento di molti. Altrimenti la rivolta degli esclusi arresterebbe il processo, con conseguenze imprevedibili.

 

Ma per esserci, e ci deve essere per il destino del mondo, una grande Europa, è necessario che essa mantenga la sua unità, per quanto difficile possa oggi sembrare, anche perché tale unità sociale avrebbe un ruolo determinante nel processo di costruzione di un bene comune globale. L’Europa è oggi l’unica istituzione in grado di dialogare con tutti i paesi del mondo senza prevenzioni di sorta, cosa che non è possibile agli altri soggetti a livello globale. L’azione di indebolimento della sua unità è grave e pericolosa anche per chi promuove il suo indebolimento…[29]

 

D’altra parte ciò a sua volta presuppone un cambiamento culturale. Una visione solidale dei rapporti sociali, tanto più pensata su scala planetaria, richiede il fondamento di solidi valori spirituali. Se non si vuole che la loro affermazione avvenga attraverso vicende traumatiche, da cui peraltro deriverebbero nuove lacerazioni, come i fondamentalismi attuali mostrano chiaramente, occorre che le persone di pace mettano senza esitazione in discussione i valori ‘sensistici’, per dirla con Sorokin, che sono stati alla base dell’orientamento dominante della cultura moderna. Essi possono infatti indirizzare solo verso scopi particolari, e mai universali. L’idea del bene comune è ben altro dall’interesse di qualcuno, sia pure della maggioranza.

 

Oggi, alla fine, il nostro tempo si trova davanti ancora una volta all’enigma della vita con una crisi che mette in discussione la via da seguire per andare avanti. Bisogna ripensare i valori che sono alla base dei problemi attuali. L’incapacità di vederne le radici induce a pensare di risolverli ancora e sempre con provvedimenti tecnici, perché si pensa derivino dal cattivo funzionamento dei mercati; mentre la causa vera e profonda dipende da una società che non è più in grado di rispondere ai problemi reali dell’uomo e che, deprivandolo della sua coscienza, lo ha trasformato in uno strumento che non sa più ritrovare il senso della vita.

Riportare l’uomo a riprendere coscienza del senso della sua vita avvicinandolo a una dimensione più umana del suo essere diventa la vera sfida integrale che questa fase storica ci mette davanti. [30]

 

Vorrei, in conclusione, provare a rendere del tutto espliciti giudizi che Pezzani pare sottintendere o suggerire, oppure suggerire a mia volta chiavi di lettura coerenti con la sua visione.

Si potrebbe dire che la sua riflessione si svolge intorno a due coppie di concetti, o meglio di prospettive, tendenzialmente ma non completamente coincidenti. La prima è quella che emerge in primo piano: l’alternativa tra collaborazione, orientata a realizzare il bene comune, ed egoismo individuale. La seconda, imprescindibile per capire il senso dell’intero discorso, è quella che oppone un orientamento riferito alla dimensione spirituale della vita a uno che invece la esclude.

Può apparire plausibile che il primo orientamento comporti l’attenzione costante al bene comune, mentre il secondo rimanga imprigionato nel conflitto degli interessi; senonché bisogna fare i conti con la convinzione oggi assai diffusa, a cui non mancano pesanti conferme, che le religioni siano a loro volta portatrici di conflitti. Sarebbe facile argomentare che, quando ciò avviene, la religione si trova a essere fraintesa e strumentalizzata ad altri fini; ma bisogna con onestà accettarla come un fenomeno complesso, sempre coinvolta e compromessa con il mondo e sempre bisognosa di essere riportata, spesso a caro prezzo, al suo nucleo spirituale. Un nucleo, possiamo dire, di cui il mondo stesso ha insopprimibile bisogno, per quanto cerchi in ogni modo di distruggerlo.

 

Questa considerazione può essere importante per valutare il ruolo storico di quel mondo anglosassone che, soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale, ha assunto il ruolo guida della civiltà occidentale e dell’intero pianeta. Si tratta di un mondo che più di ogni altro ha fatto propria la visione ‘sensistica’ della vita, affermando positivamente il valore dell’interesse individuale e trovandosi quindi assai lontano dal perseguire una prospettiva di bene comune; e tuttavia ha saputo trovare un equilibrio durevole in cui le pulsioni egoistiche sono mitigate da aspetti di collaborazione, che di volta in volta si esprimono negli ideali di liberalismo, democrazia, federalismo. Ideali la cui forza consiste in ultimo nel radicarsi in un principio profondamente e irrinunciabilmente spirituale: quello della libertà.

Ciò ha consentito a questo mondo, originatosi da una separazione dagli assetti universalistici dell’Europa cattolica medievale, di avere la meglio su di essi, ponendoli implacabilmente sotto accusa proprio in nome della libertà; ma anche sui nuovi movimenti storici che caratterizzano la modernità, dalla rivoluzione francese ai totalitarismi del Novecento: fenomeni di segno contrario alla religione ma che tuttavia hanno riproposto istanze che della religione sono tipiche, innanzitutto l’aspirazione a un ordinamento sociale che non sia su basi individualistiche. L’incapacità tuttavia di rispondere all’ancora più profonda aspirazione alla libertà, testimoniata dai bagni di sangue ben noti, ha determinato il loro fallimento, sul piano morale prima ancora che su quello storico, riaffermando di volta in volta, dalla sconfitta di Napoleone a quella di Hitler alla fine dell’Unione Sovietica, il prevalere di una prospettiva, quella del mondo anglosassone per l’appunto, che ha saputo in qualche modo rappresentare l’equilibrio tra le varie istanze.

Il mito di cui tutt’oggi gli Stati Uniti d’America si ammantano, di essere nel modo paladini della libertà, ha dunque un fondamento storico tutt’altro che irrilevante, capace di resistere a tutte le incongruenze a cui l’azione concreta li espone. Neppure il sospetto che esso costantemente richieda, come si può facilmente osservare, un nemico che di volta in volta incarni le qualità negative contro cui combattere, è in grado di scalfirlo. Eppure, tranne alcune punte estreme del fondamentalismo islamico, nessun soggetto attualmente in azione sulla scena mondiale ha le caratteristiche per rivestire quel ruolo. Sotto questo aspetto la sconfitta delle presidenze Bush, portando alla Casa Bianca Obama, ha dato avvio a un processo le cui contraddizioni sono il segnale di quanto complessa sia la situazione e non più riducibile ad alcun precedente schema.

Il problema è che il colonialismo a egemonia inglese e poi il neocolonialismo americano hanno davvero unificato il mondo. Sotto questo aspetto bisogna prender atto che la fine della guerra fredda rappresenta un punto di non ritorno. Quello che ne è scaturito, sotto l’egida della superpotenza americana, è un processo di riaggregazione intorno ad alcune grandi potenze regionali, espressione di identità collettive che cercano nella storia, nella cultura e talora nella religione il proprio fondamento: si tratta per l’appunto delle civiltà di cui parla Huntigton, in un libro tanto discusso quanto poco conosciuto, di cui andrebbe attentamente ripensato il senso. Più che di scontro delle civiltà bisognerebbe infatti parlare di una loro ridefinizione, come articolazioni regionali di un’unità mondiale che le forze dell’economia e della tecnica hanno prodotto irresistibilmente prima che se ne potesse neppur lontanamente concepire la forma politica.

Il problema è che questa stessa unificazione, pur sancendo in modo inequivocabile il ruolo egemone degli Stati Uniti, rende improbabile il suo esercizio in forma duratura. Ciò non significa, e su questo bisogna esser chiari, che qualcuno stia cercando di appropriarsene: non la Russia, che è erede, più che dell’Unione Sovietica, dell’impero zarista e della sua complessa vocazione euroasiatica; non la Cina, che è un mondo tanto complesso e articolato da far sì che tutte le energie siano incanalate nel mantenimento dell’unità interna; non il mondo islamico, nonostante i timori che esso suscita nell’immaginario, essendo piuttosto impegnato nello sforzo di realizzare, a costo di una spietata guerra civile interna, quell’unità politica di cui è privo dalla caduta dell’impero ottomano.

Sotto questo aspetto il dato nuovo è proprio che, a differenza di quel che accadde con le due guerre mondiali e con la guerra fredda, non siamo in presenza di una contesa per il dominio mondiale. Varie circostanze lo impediscono, e non solo l’immane potenza distruttiva degli armamenti, ma ancor più l’interdipendenza economica e l’integrazione di fatto dell’élite, che ha già da tempo realizzato al proprio interno quella mescolanza che i fenomeni migratori stanno realizzando nelle sfere sociali più ampie. Il che non comporta che il pericolo sia minore; potrebbe addirittura essere maggiore per la novità della situazione, che impedisce ai soggetti coinvolti di riferirsi a schemi precostituiti.

La ragione per cui gli Stati Uniti difficilmente potranno mantenere il loro predominio, anche se nessuno realmente lo insidia, consiste, come Pezzani mette in rilievo con chiarezza, da un lato in una debolezza intrinseca e crescente, dovuta alla rapida erosione del loro capitale sociale, dall’altro nell’incongruenza tra un ruolo imperiale come quello di fatto assunto e le basi ‘sensistiche’ della loro cultura, che tendono a escludere una vocazione universale che invece, paradossalmente, non manca alla Russia, alla Cina, all’India, al mondo islamico e naturalmente all’Europa. Il grave problema culturale dei giorni nostri potrebbe infatti riassumersi nell’esigenza che l’aspirazione irrinunciabile alla libertà si svincoli dal limite individualistico in cui soprattutto il mondo anglosassone è invischiato, ritrovando la via, sempre difficile ma obbligata, della ricerca del bene comune. Ma ciò rimanda al ruolo delle culture religiose, a cui è affidata una responsabilità enorme. E chi guardi le cose con gli occhi della fede non può non accogliere con stupore e gratitudine il dono che Papa Francesco ha saputo rinnovare nel cuore degli uomini: Chi vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti[31].

 

Il pericolo vero è nella difficoltà a pensare ciò che le cose stesse palesemente richiedono: cioè che l’unificazione non dipenda da un unico centro dominante, ma da una complessa interazione tra una pluralità di centri: economici, politici, religiosi. Paradossalmente la soluzione più realistica è quella che appare più utopica, pur essendo coerente con quell’idea di democrazia che tutti dichiarano di condividere.

La Terza Guerra Mondiale di cui oggi si parla viene suscitata, più che da specifici contenziosi o dalla volontà di qualcuno, dalla paura di uscire da schemi nonostante tutto rassicuranti: nonostante cioè l’incalcolabile sventura a cui palesemente si collegano. La possibilità di fermarla coincide con l’uscita dalla paura, col coraggio di tentare vie nuove. Possa questo coraggio non mancare.

 

 



[1] Entrambi i testi sono pubblicati da Università Bocconi Editore, Milano

[2] Fabrizio Pezzani, È tutta un’altra storia, op. cit. p. 15

[3] Mondadori, Milano 1997

[4] Fabrizio Pezzani, La competizione collaborativa, op. cit. p. 93 ss; È tutta un’altra storia, op. cit. p. 147 ss

[5] Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, Simon & Shuster, New York 2000, trad. it. Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Il Mulino, Bologna …

[6] La grande distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale, Baldini & Castoldi, Milano 2001

[7] Fabrizio Pezzani, La competizione collaborativa, op. cit., pp. 2-3

[8] Ibidem, pp. 8-9

[9] Fabrizio Pezzani, È tutta un’altra storia, op. cit. p. 4

[10] Ibidem, p. 210

[11] Fabrizio Pezzani, La competizione collaborativa, op. cit., p. 81

[12] Fabrizio Pezzani, È tutta un’altra storia, op. cit. pp. 9-10

[13] Ibidem, p. 10

[14] Ibidem, p. 10

[15] Fabrizio Pezzani, La competizione collaborativa, op. cit.,  pp. 38-39

[16] Ibidem, p. 39

[17] Ibidem, p. 40

[18] Ibidem, p. 40

[19] Pitirim Sorokin, La dinamica sociale e culturale, p. 134, cit. in Fabrizio Pezzani, È tutta un’altra storia, p. 193

[20] Pitirim Sorokin, op. cit., p. 130, cit. in Fabrizio Pezzani, È tutta un’altra storia , p. 194

[21] Fabrizio Pezzani, È tutta un’altra storia , pp. 205-206

[22] Ibidem, p. 116

[23] Ibidem, pp. 11-12

[24] Ibidem, p. 11

[25] Ibidem, p. 108

[26] Ibidem, p. 126

[27] Ibidem, p. 129

[28] Ibidem, p. 101

[29] Ibidem, p. 138

[30] Ibidem, p. 212

 

[31] Mc, 9,35

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