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BELLEZZA LUCE DELLA VERITÀ - RIFLESSI DELL’ANIMA RUSSA

Madonna SistinaDal bellissimo diario Ai miei figli, un testo  che  contiene in modo vivo tutto Florenskij, la sua vita e la sua opera:

 “La verità è irraggiungibile”, “non si può vivere senza la verità”: queste due asserzioni ugualmente forti mi straziavano l’anima e portavano all’agonia il mio spirito. Caddi preda di una malinconia mortale e di una totale disperazione, soffocavo per mancanza di verità,  benché esteriormente la mia vita fosse ricca di lavoro. La risposta venne da dove meno me la sarei aspettata. La sua fonte fu quella scepsi riguardo alle convinzioni e alle dottrine umane di cui mio padre mi aveva permeato e di cui ero stato nutrito fin dalla mia infanzia.  Non che mi fosse spuntato un qualche dubbio sull’esattezza o inesattezza della fisica. No, ma tutto ciò restava dall’altra parte di qualcosa che non riuscivo ad attraversare; erano quisquilie che non ti curavi né di lodare né di confutare mentre stavi agonizzando.

“La verità è la vita” mi ripetevo più volte al giorno: “senza verità non si può vivere, senza verità non c’è esistenza umana”. Era lampante, ma su queste e altre considerazioni simili il mio pensiero si bloccava, incocciando ogni volta contro qualche ostacolo invalicabile.

Un giorno, di colpo, sorse spontanea una domanda – e loro? – E con quella domanda il muro fu abbattuto. – E loro, tutti quelli che esistono e che sono esistiti prima di me? Loro, i contadini, i selvaggi, i miei avi, l’umanità in genere: davvero sono esistiti ed esistono senza la verità? Oserò dunque sostenere che gli uomini non abbiano avuto e non abbiano la verità, e che dunque non siano vivi e non siano uomini?[1]

 

Il diario termina così, in modo brusco, con una domanda. Non c’è risposta, non occorre: è evidente che la verità deve essere per tutti. Altrove Florenskij scrive:

 ogni confessione e ogni religione poggiano in qualche misura sull’autentica realtà spirituale, e quindi non sono prive della luce della Verità…… Il cielo, da cui tutti ricevono la luce non appare a tutti allo stesso modo, e tuttavia è un unico cielo.” [2]

Sono parole pienamente ecumeniche pronunciate da chi ha testimoniato fino alla morte - e con la morte - l’attaccamento alle proprie radici, alla propria tradizione.

La filosofia russa è occidentale? Lo è certamente, in modo molto proprio, in continuo confronto con l’ovest dell’Europa, in un dialogo che è incontro e spesso anche scontro: comunque dialogo. Vorrei ricordare l’affermazione, ripresa anche da Giovanni Paolo II, del poeta e filosofo Vjaceslav Ivanov: “non si può respirare con un solo polmone, è necessario che i cristiani respirino con entrambi i polmoni, quello orientale e quello occidentale”.

Occidentale, dunque, in modo proprio. Se volessimo indicare le ascendenze culturali e spirituali caratterizzanti la cultura russa, quelle che fanno la differenza, non potremmo tralasciare:

Isacco il Siro (VII secolo), padre del Cristianesimo indiviso. Di grande rilevanza  il tema dell’amore bruciante per la creazione tutta, “per gli uomini , per gli uccelli, per gli animali, per i demoni e per ogni essere del creato”, e quello dell’abisso che separa giustizia e misericordia, che è “passione mossa dalla bontà… non retribuisce colui che merita il male, né colui che merita il bene, ma dà in abbondanza il doppio… se il misericordioso non è al di sopra della giustizia, non è misericordioso”. Isacco ci ricorda che Cristo è morto per gli empi, non per i buoni. [3]

Schelling, proprio in quanto “sconfitto”, “oscurato” da Hegel. Quello Schelling su cui i nostri manuali di filosofia tendenzialmente sorvolano. E qui ricordiamo soprattutto il tema del fondamento del male in Dio: “se Dio non si fosse rivelato in vista del male, questo l’avrebbe vinta sul bene e sull’amore…. dunque, affinché  non fosse il male, bisognerebbe che Dio medesimo non fosse.”[4]

 

Ci soffermiamo su un argomento in particolare, quello  della Bellezza: Bellezza come rivelazione di Verità, o meglio, Bellezza come Verità, verità incarnata, e su un autore: Pavel Florenskij, con qualche inevitabile deviazione su Dostoevskij.

Florenskij , matematico, fisico, filosofo, teologo, sacerdote, padre di cinque figli. Un santo. Vive tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento. (Muore nel 1937, fucilato per ordine di Stalin). È un periodo interessantissimo per la Russia, paese di contraddizioni estreme e di limiti sempre sfiorati, spesso oltrepassati. Un periodo di grandi fermenti rivoluzionari nell’illusione di poter realizzare il paradiso in terra, e gli inevitabili orrori legati al tentativo di costruzione forzata dell’impossibile paradiso. Dall’altra, una spiritualità antica e profondissima, addirittura rinvigorita da un’inutile repressione. Tra i suoi grandi protagonisti, molti furono inizialmente illusi dalle speranze rivoluzionarie (non tutti, e non certo Florenskij). Un oceano in cui pescare qua e là autentiche perle. Difficile contenere in una sintesi l’oceano, ma difficile anche racchiudere in un quadro ogni singolo autore. Questo vale per tutti i grandi, ovviamente, ma forse un po’ di più per i Russi che tendono a rifuggire sistemi e schematizzazioni. D’altronde, se l’oggetto è la Verità,  e la Verità è Vita: la Vita, si sa,  sfugge ad ogni tentativo di de-finizione (de-limitazione).

Padre Pavel morì l’otto dicembre del ’37, fucilato nei pressi di Leningrado insieme a circa cinquecento altri monaci o preti, considerati  nemici del regime,  in quanto uomini di fede. Non si può che rimanere colpiti dalla vastità dei suoi interessi e dalla profonda originalità del suo pensiero.  Il suo sapere si ramifica in tutte le direzioni, non per disperdersi, anzi per ricomporsi in una visione che possa cogliere il tutto in un unico sguardo.

Le sue straordinarie doti lo portano a ricoprire incarichi importanti di insegnamento e ricerca in ambito filosofico, scientifico e teologico. Indossa sempre e ovunque l’abito talare, incurante dell’ostilità crescente in Unione Sovietica verso qualunque manifestazione di fede.

Viene incarcerato, in quanto “soggetto pericoloso” una prima volta per breve tempo nel 1928 e, definitivamente, nel 1933 con l’accusa di propaganda antisovietica. Deportato alle isole Solovki, vi rimane fino alla tragica fine.

 

La verità è irraggiungibile - non si può vivere senza verità: emerge subito un aspetto importantissimo del pensiero di Florenskij. La verità è antinomia. Egli riconosce a  Kant il merito di aver avuto l’ardire di pronunciare la grande parola antinomia nella storia del pensiero piatto e noioso della nuova filosofia. Anche solo per questo, Kant meriterebbe gloria eterna.

L’antinomicità dice “questo e quello sono veri”, ma ciascuno a modo suo, mentre l’armonia e l’unità sono superiori alla ragione. [5]

- È vero, la verità è irraggiungibile.

- È vero, non si può vivere senza verità.

 

Possiamo vivere armonia e unità solo in ciò che è al di là della ragione, per esempio nella bellezza. Inutile, necessaria. Come inutili e necessarie sono la poesia, che è pur sempre bellezza. La filosofia, la santità, ancora una volta bellezza.

La bellezza è fin dall’inizio la cifra dell’ortodossia russa. Nella  Cronaca di Nestor, intreccio di storia e mito, si narra che il Principe Vladimir, X secolo, inviò  “dieci uomini buoni e sensati” a vagliare le fedi esistenti allo scopo di individuare  quale fosse la più adeguata al popolo russo. Dopo una serie di incontri deludenti, i messi giunsero a Costantinopoli, dove furono colpiti dalla bellezza della Chiesa e del rito, che essi descrissero al Principe così: “non sapevamo se ci trovavamo in cielo o sulla terra; non vi è infatti sulla terra uno spettacolo di tale bellezza, non possiamo dimenticare quella bellezza e non riusciamo a descriverla”[6]

Già. Come descrivere, e soprattutto come definire la bellezza? Tutti sappiamo riconoscerla, però quanto a parlarne… Dimitri Karamazov esclama:

 

«La bellezza è una cosa terribile e paurosa. Paurosa perché indefinibile e definirla non si può, perché Dio non ci ha dato che enigmi…. qui tutte le contraddizioni coesistono. La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini»[7]

 

È fin troppo nota l’affermazione che compare nell’Idiota: la bellezza salverà il mondo. Con perfetta simmetria il monaco Tichon (qui siamo nei Demoni) dice a Stavrogin, personaggio inquietante ed enigmatico, che ha il coraggio di confessare i suoi orrendi delitti ma non quello di pentirsi: “la  bruttezza vi ucciderà”.

Stranamente Florenskij non ama Dostoevskij. O perlomeno dice di non amarlo perché “pesca nel torbido”. Egli vede in lui un esempio negativo, un padre da non seguire. Glissa persino sulla sua grandezza, che certo non può non cogliere. Dostoevskij , egli sostiene,

 

mette a nudo in un uomo un uomo malato, perverso, soprattutto in se stesso (visto che era malato, straziato) perversità e desiderio del male per il male…  A Dostoevskij non si addicono una casa, un monastero o una chiesa, quanto piuttosto una bettola o un covo di criminali. Il suo mondo esclude tutto ciò che è natura, è un mondo di stanze squallide e asfittiche, di vicoli sordidi in cui non compare mai un pezzo di cielo o la freschezza di un ruscello. [8]

 

Questa osservazione è ingiusta. Impossibile che Florenskij non veda che nei momenti  fondamentali, decisivi, nel mondo di Dostoevskij l’Eterno irrompe sotto forma di foglioline con la rugiada, uccellini che becchettano – magari le bricioline proprio per questo lasciate su una tomba – improvvisi raggi di sole che illuminano cupole dorate. Insomma, il pezzo di cielo compare eccome.

Sicuramente tra i due, grandissimi, ci sono notevoli sintonie, magari sotterranee, ma ci sono eccome.

Il pensiero, l’indagine scientifica e la vita di Florenskij corrono sempre sul filo del confine tra terreno e celeste, materiale e spirituale…. quel confine che molti in Occidente hanno voluto delineare in modo preciso (Wittgenstein, per esempio,  Popper) per porre un limite oltre il quale non avventurarsi. Va ricordato, comunque, che Wittgenstein nella prefazione al Tractatus ha detto esplicitamente di non aver tracciato un limite al pensiero, ma all’espressione del pensiero, e, sempre a proposito del Tractatus, in una lettera, ha affermato che ciò che è veramente importante è ciò che non ha scritto, ciò su cui ha taciuto. Popper, poi, non ha mai negato l’importanza della metafisica: il limite vale per il pensiero scientifico.

Per Florenskij, invece, non è così.  Anche come scienziato, non vedeva nel limite una barriera invalicabile. Le indagini di Florenskij non si arrestavano finché non si trovava di fronte ad un’eccezione, rispetto alle leggi di natura. Leggi che sono come un recinto, ma per quanto spesso sia il muro che le delimita, sempre ci sarà qualche fessura attraverso la quale l’Eterno si affaccia.

E qui non si può fare a meno di pensare al muro di pietra che tanto angustia Dostoevskij (sì, ancora Dostoevskij!) il quale nei Ricordi dal sottosuolo scrive:

Ma, Signore Iddio, che cosa importa a me delle leggi di natura e dell’aritmetica, quando per una ragione o per l’altra queste leggi e questo due più due  quattro non mi convengono?… non gliela manderò buona, a lei natura, solo perché c’è un muro di pietra e le forze non mi sono bastate a sfondarlo.[9] 

Tuttavia, mentre per Dostoevskij il muro resta, minaccioso e terribile, benché rifiutato,  Florenskij sente che quel muro ha delle crepe attraverso le quali filtra di tanto in tanto la luce di un  mondo più vero, tra le crepe del raziocinio umano si intravede l’azzurro dell’Eternità.  Di più, dal momento che il muro del sapere scientifico non è che  una congerie di quisquilie e convenzioni che nulla hanno a che spartire con la verità, con la vita e il suo fondamento,  è destinato a crollare.

Il confine non separa, mette in contatto il mondo visibile e  il mondo invisibile.

L’iconostasi, per esempio, che divide lo spazio destinato ai fedeli dal santuario, non è una barriera, ma una finestra, una gruccia della spiritualità: non cela qualcosa ai fedeli, anzi addita ad essi, mezzi ciechi, il mistero.

Una finestra di autentica bellezza, i cui veri pittori sono i Santi Padri. Essi creano quest’arte in quanto contemplano ciò che va raffigurato sulle icone, che non sono immagini dell’Eterno, sono l’Eterno stesso tra noi. Non sono opera dell’arbitrio individuale, e nemmeno di ragionamenti interiori e dell’istinto particolare dell’artista, ma della sapienza della storia, della collettiva sapienza dei popoli e dei tempi. Con le luminose visioni celesti, i pittori d’icone testimoniano del Verbo incarnato con le dita delle mani e veracemente filosofano con i colori, la pittura d’icone per gli occhi è come la parola per le orecchie.

L’esistenza dell’icona della Trinità di Rublev è, afferma Florenskij, la più convincente dimostrazione dell’esistenza di Dio, secondo un sillogismo validissimo che non ha nulla a che fare con una quadrata ragione positivista. Esiste la Trinità di Rublev, quindi esiste Dio.[10]

Le icone, che se ne fanno un baffo delle regole di prospettiva così care alla pittura rinascimentale, rispondono ad una geometria che non è di questo mondo. La trasgressione delle regole prospettiche non è dovuta ad una incapacità del pittore di icone ma è la sua forza positiva.

Florenskij, nel suo saggio La prospettiva rovesciata, osserva che la grande importanza che si dà alle regole di prospettiva è assurda, in quanto il risultato è quello di una visione innaturale. E tirannica, dal momento che ammette un unico punto di vista. Le opere dei grandi, degli artisti autentici,  trasgrediscono le regole e solo così ottengono risultati di grande fascino:

 

per fortuna la creazione viva non si assoggettò alle esigenze della ragione, e l’arte, in effetti, andò avanti per strade affatto diverse da quelle enunciate nelle dichiarazioni astratte. Mi appare ben chiaro il proposito positivistico-livellatore della pittura prospettica: per essa non esiste una gerarchia dell’essere … l’uomo finché è vivo non può entrare completamente in uno schema prospettico.[11]

Uno sguardo particolare meritano le Madonne di Raffaello, molto care ai Russi. Esse rappresentano un’eccezione nel panorama della pittura religiosa dell’Occidente, incominciata col Rinascimento,  che Florenskij definisce una radicale falsità artistica (in quanto pittura religiosa, si intende!)

Le Madonne di Raffaello sono la trasposizione su tela di un’Idea che arriva al pittore dal Trascendente.

 Florenskij ci riferisce di una lettera in cui Raffaello scrive  ad un amico: “nel mondo esistono così poche rappresentazioni dell’incanto femminile che io mi servo di una certa Idea che mi viene nella mente”[12].

Forse questa lettera non è mai stata scritta: ma che importa? Quello che conta è il risultato, che evidentemente attesta un’ispirazione  che arriva da un Altrove.

Un posto a sé occupa, di Raffaello, la Madonna Sistina. Questo dipinto esercita un influsso misteriosamente forte sui Russi (Dostoevskij, Soloviev, Gogol, Grossman… per citarne alcuni)[13].

E qui segnaliamo un curioso, e bellissimo, romanzo di Leonid Cypkin.

È un’opera davvero singolare nel contenuto come nella forma. Opera letteraria prima e unica di Cypkin, medico e autore di numerose pubblicazioni scientifiche: Estate a Baden Baden. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1982, pochi giorni prima della morte in Russia dell’autore, censurato in quanto ebreo. Una storia molto simile a quella di Vita e destino, lo straordinario romanzo dello straordinario ebreo russo Vasilij Grossman.

È una dichiarazione d’amore a Dostoevskij, tanto più appassionata per il fatto che lo rappresenta anche nei suoi aspetti più meschini: irascibile, ossessionato dal denaro, piccolo con le gambe storte. Dostoevskij è in Germania  per giocare al Casinò. Ha disperatamente bisogno di denaro e, come tutti d’altronde, perde al gioco. Viaggia tra Baden Baden e Dresda per ammirare da vicino la Madonna Sistina: molto da vicino – racconta Cypkin - grazie ad una sedia su cui sale attirandosi i rimproveri dei custodi.

Dostoevskij morirà avendo davanti agli occhi una (brutta) riproduzione di questo dipinto, che egli cita molto sovente nei suoi romanzi, nei Demoni soprattutto.

Cypkin è un ebreo: ama Dostoevskij che non ama gli Ebrei:

 

Mi sembrava strano, fino ad essere inspiegabile, che quell’uomo tanto sensibile nei suoi romanzi alle sofferenze altrui, quel geloso difensore degli umiliati e degli offesi che, ferventemente e quasi freneticamente, predicava il diritto di esistere per ogni creatura terrena e intonava un inno appassionato in nome di ogni piccola foglia o spiga di grano, non dovesse pronunciare una sola parola per difendere o giustificare un popolo perseguitato per migliaia di anni. [14]

Eppure, Dostoevskij sembra esercitare una speciale attrattiva proprio sugli Ebrei. Leonid Cypkin ne è un evidente esempio (Vasilij Grossman, un altro).

Oltre la bellezza della liturgia, dell’arte, della natura, c’è la bellezza possibile nell’uomo, quella dei santi e quella di Cristo sopra ogni altro. In tutti i casi, bellezza spirituale “inutile”, di quell’inutilità che è così necessaria alla vita.

C’è un’affermazione  sorprendente di Dostoevskij: se (il se va sottolineato più volte!), se qualcuno gli dimostrasse che Cristo non è la verità, egli preferirebbe comunque Cristo,  “perché non c’è nulla di più bello di Cristo”. La leggiamo nei Demoni, per voce di Satov, ma anche con parole quasi identiche in una lettera che Dostoevskij scrive all’amica Fonzivina, moglie di un decabrista che in Siberia, ai lavori forzati, gli aveva donato una copia del Vangelo

Anche Florenskij riprende spesso il tema della bellezza di Cristo.

E dei santi: egli, quando descrive il suo amato padre spirituale, lo starec Isidoro, a cui dedica un tenerissimo libro, non ci dice che è buono o intelligente, ci dice che è bello. La sua è bellezza celeste sotto spoglie corporee. La forza di Padre Isidoro non consiste in sapienti parole, ma in quella forza spirituale che accompagna le sue parole, persino le più ordinarie. Quando lo vede, sul letto di morte, Florenskij lo descrive così:

 

giaceva padre Isidoro indicibilmente bello, a tal punto che veniva voglia di chiedergli la benedizione e le lacrime intanto stillavano, e non già per afflizione od amarezza, ma unicamente per la pura commozione e l’estasi di fronte alla bellezza vittoriosa sulla morte.[15]

 

E sicuramente il padre Isidoro, semplice, trasandato, che si prende cura delle erbacce che crescono accanto alla sua capanna e recita i salmi di Davide alle ranocchie, non è bello secondo i canoni consueti.

Tutti sappiamo riconoscere la Bellezza, ma dobbiamo anche volerla riconoscere. Dobbiamo fare molta attenzione, perché esiste anche la falsa bellezza, quella di cui si riveste il male. Non dobbiamo cadere nella trappola ingannatrice dell’Anticristo, che può essere scambiato per Cristo ad uno sguardo superficiale. Sembra impresa impossibile il trionfo di Cristo sull’Anticristo. Le moltitudini seguono l’Anticristo, è la via larga, la più facile. Solo pochi seguiranno Cristo, ma grazie a loro alla fine sarà il Bene a prevalere. Ce lo insegna Soloviev nei tre dialoghi. Ce lo insegna la storia con i vinti (apparentemente vinti), come le vittime delle persecuzioni di cui Florenskij è un esempio altissimo. Ma i pochi che sono nella Verità, prevarranno. Sconfitti nell’immediato, la loro testimonianza brilla di luce eterna. Le moltitudini (a cui appartengono gli oppressori) muoiono nell’anonimato.

L’amico teologo Sergej Bulgakov, alla notizia della morte di Florenskij disse:

Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita, egli è il più grande, di una grandezza che non possiamo valutare per mancanza di capacità equivalenti. E tanto più grande è il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato ad una pena peggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia. Padre Pavel per me non era solo un fenomeno di genialità, ma anche un’opera d’arte.[16]

Bellezza, ancora una volta. Che dire, infatti, di Florenskij, del suo pensiero, della sua vita se non ciò che egli afferma a proposito dello starec Isidoro:  bellezza celeste sotto spoglie corporee.

 

 

La Madonna a Treblinka

 

C’è qualcosa di misterioso attorno alla Madonna Sistina di Raffaello. Il quadro è bellissimo, non si discute. Ma questo non spiega, almeno non agli occhi di un occidentale, il ruolo cruciale che quest’opera occupa nella cultura russa e nella sensibilità personale di moltissimi russi; tra essi Dostoevskij, Soloviev, S. Bulgakov, Florenskij….  Ci sono tentativi di spiegazione che in realtà poco convincono: resta il mistero. Una cosa curiosissima, tra le molte che si potrebbero citare: Bakunin, in occasione dei moti del ’48 a Dresda, pensava che, se i rivoltosi avessero issato il quadro come una bandiera, nessuno avrebbe avuto il coraggio di colpirli (ce lo racconta Berdjaev nell’Idea russa, Mursia 1992).

Una lettura interessantissima e decisamente convincente, nel modo speciale in cui può essere convincente ciò che non è riconducibile a quadrate argomentazioni razionali, è quella di Vasilij Grossman. La sua esperienza di fronte al dipinto è fortissima, sconvolgente. Egli ce la racconta in un breve  intenso scritto, pubblicato in italiano con  il titolo La Madonna a Treblinka da Medusa (Milano 2007):

“…compresi che di tutto ciò che era stato creato da un pennello, da uno scalpello, da una penna – soltanto questo quadro di Raffaello non morirà finché sarà vivo l’uomo” (pag. 20)

L’immortalità dell’opera è per Grossman una certezza, non dimostrabile, che muove nella sua anima corde profonde a cui in un primo momento non sa trovare una collocazione. Quand’ecco, all’improvviso, egli riconosce quella madre e quel bimbo: li ha visti a Treblinka. Grossman nel 1942 era entrato come corrispondente di guerra al seguito delle truppe sovietiche nel lager di Treblinka, scoprendo che tra gli Ebrei trucidati dai nazisti e gettati nelle fosse comuni c’era anche sua madre.

A piedi scalzi, lei camminava con passo leggero sul suolo pulsante di Treblinka, dal punto di scarico del treno alla camera a gas. La riconobbi dall’espressione del viso e degli occhi. Vidi suo figlio, e vidi il prodigio di quel volto straordinario, non infantile. Così erano le madri e i bambini a Treblinka” (pag. 30)

L’incontro tra Grossman e la Madonna Sistina risale al 1955, poco prima che il dipinto, portato a Mosca nel 1945 alla fine della guerra, venga restituito alla pinacoteca di Dresda. Grossman, ebreo ucraino, a quella data, ha ormai uno sguardo disincantato nei confronti della politica sovietica, a cui pure aveva aderito con convinzione. Conosce bene gli orrori del totalitarismo sovietico e sperimenta, anche su di sé, l’antisemitismo sovietico, non meno odioso di quello nazista.

Si decidevano le sorti di calmucchi, dei tartari di Crimea, di balkari e ceceni che, sempre per volontà di Stalin, sarebbero stati deportati in Siberia e Kazakistan, perdendo il diritto a ricordare la propria storia e a insegnare ai figli nella loro lingua madre [...]  Si decidevano le sorti degli ebrei salvati dall’Armata Rossa, sui quali, a dieci anni dalla vittoria di Stalingrado, Stalin avrebbe levato il gladio sottratto a Hitler”, scrive in Vita e destino (Adelphi 2008), il capolavoro che non avrebbe mai dovuto vedere la luce: gli agenti del KGB avevano confiscato manoscritto, carta carbone, nastri della macchina da scrivere. Solo nel 1980 (l’autore era già morto da sedici anni!) il romanzo viene pubblicato a Losanna, grazie a due copie nascoste e portate clandestinamente fuori dall’URSS da amici fidati.

Grossman non esita ad equiparare lager e Gulag. In Vita e destino ci sono pagine memorabili in cui si descrive l’incontro tra Mostovskoj, bolscevico convinto “che aveva dedicato la vita al Partito e all’opera di Lenin” e Liss, comandante del lager in cui egli era prigioniero. Leggiamo:

Quando io e lei ci guardiamo in faccia, non vediamo solo un viso che odiamo. È come se ci guardassimo allo specchio. È questa la tragedia della nostra epoca. Come potete non riconoscervi in noi, non vedere in noi la vostra stessa volontà? [….] Mostovskoj non aveva paura delle torture. A spaventarlo, piuttosto, era l’idea che quel tedesco non stesse mentendo, ma dicesse la verità “ (pag. 376)

 

La figura della madre, a partire dalla propria, è centrale in tutta l’opera di Grossman, percorsa da straordinarie immagini di madri, che hanno la loro radice in quella dell’autore e la loro veste eterna, universale, nella Madonna Sistina. Grossman in un passo in cui racconta il percorso verso la camera a gas di un gruppo di detenuti, scrive:

Aveva accanto la moglie del meccanico e, in braccio alla madre, il povero bambino dalla grossa testa si guardava intorno, attento, con occhi innocenti e pensierosi […]camminava soprappensiero, con il figlio in braccio. E il suo bambino, che di solito piangeva continuamente, giorno e notte, non fiatava. Scuri, tristi, gli occhi della madre distraevano da quel volto brutto e sporco, da quelle labbra morbide ma esangui.” (Pag. 520)

La Madonna ed il Bambino occupano solo una parte del quadro di Raffaello - quella centrale, d’accordo - ma c’è anche altro (due angioletti, San Sisto, Santa Barbara); eppure l’occhio è obbligato ad isolarli e a lasciare tutto il resto in ombra. La Madonna ed il Bambino: il male che comunque c’è  e li circonda, da ogni parte e in ogni tempo, non interferisce con il loro sguardo che è comunque rivolto in avanti. Sanno il dolore della vita ma non hanno paura, sanno che la vita vincerà su ogni male .

 Madre e figlio diventano un’icona tutta terrestre e insieme carica di infinito. Essi incarnano la vita dell’umanità che nessun orrore e nessuna lordura potrà mai spegnere. La loro bellezza sta nell’esprimere quella di ogni madre , “appartiene anche agli strabici, alle donne gobbe dai lunghi nasi lividi, appartiene all’umanità intera”, e di ogni figlio, con il suo destino inevitabilmente  carico di sofferenza.

La Madonna era tra gli ebrei massacrati a Treblinka dai nazisti, ma era anche tra quelli perseguitati dai sovietici; era tra gli Ebrei ma anche tra i deportati, gli affamati, i kulaki sterminati, e  “se l’avvenire la porterà  in Cina o in Sudan, tutti i popoli la riconosceranno come l’abbiamo riconosciuta noi”.

La Madonna è con l’umanità, anzi è l’umanità sofferente, che tuttavia vince il dolore, e vive in eterno. Hitler, Stalin sono gli sconfitti a cui non è dato di incontrare i suoi occhi.

 

 

 



[1] Pavel Florenskij , Ai miei figli, Mondadori, Milano 2003

[2] Pavel Florenskij, Note sull’ortodossia, in L’altra Europa,1 1991

[3] Isacco di Ninive, Un’umile speranza, ed. Qiqajon Magnano 1999

[4] F. Schelling, Ricerche filosofiche su la essenza della libertà umana, R. Carabba editore, Lanciano 1974

[5] Pavel Florenskij, La colonna e il fondamento della verità ,ed. San Paolo 2010, pag. 172-173

[6] Citato in Natalino Valentini , Volti dell’anima russa, ed. Paoline, Milano 2012

[7] Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov,  Sansoni, Firenze 1966, pag. 174-175

[8] Pavel Florenski, Ai miei figli cit.

[9] Fedor Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, Rizzoli, Milano 1975

[10] Pavel Florenskij, Le porte regali Adelphi, Milano 1977

[11] Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, Gangemi ed.  Roma1990

[12] Citato in Pavel Florenskij, Le porte regali cit.

[13] Vedi in appendice: La Madonna a Treblinka

[14] Leonid Cypkin, Estate a Baden Baden, Rizzoli, Milano 2003

[15] Pavel Florenskij, Il sale della terra, ed. Qiqajon, Magnano 1992

[16] Dizionario Interdisciplinare Scienza e Fede

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