L’occhio profetico di Chiara Lubich. Una lettura del rapporto fra vangelo e culture

Scritto da Roberto Catalano.

1. il carisma dell’unità e le culture: un primo incontro

chiara lubichI primi anni della nuova esperienza ecclesiale dei Focolari avvengono in ambito strettamente cattolico. Chiara Lubich, infatti, nasce e cresce a Trento, un angolo d’Italia caratterizzato da una cultura precisa, cattolica e tradizionale, che, negli anni che corrisposero alla sua nascita, infanzia e adolescenza, si trovò al crocevia del difficile rapporto fra il cattolicesimo e la modernità. Da qui atteggiamenti di spiccato ecclesiocentrismo, come emerge in un passaggio – lo si propone come esempio – dell’arcivescovo di Trento, mons. Endrici, in occasione della commemorazione per il IV centenario del Concilio tridentino.

La rievocazione di quanto ha legiferato il celebre Concilio nel campo dottrinale e disciplinare sarà, giova sperarlo, un baluardo contro la diffusione di errori e dottrine che vorrebbero ferire il corpo mistico di Cristo che è la Chiesa. Le preghiere del popolo cristiano, speriamo affrettino in mezzo alle nazioni la “Pax Christi[1]

Pur essendo Trento naturale crocevia fra l’Italia e la parte di continente mitteleuropea, per la nascente comunità dei Focolari non ci furono inizialmente rapporti con persone di altre culture o di altre fedi[2]. Il primo contatto documentato di questo tipo avviene nel 1963[3], quando due delle prime compagne di Chiara[4] incontrarono due indiani – indù presumibilmente – che volevano conoscere il centro che il nascente movimento aveva aperto a Roma per il dialogo ecumenico[5]. La fondatrice dei Focolari aveva raccomandato alle due collaboratrici di «tener a mente due sole parole: Dio e l’amore come vincolo»[6]. La reazione delle due personalità dell’India era stata sorprendente: «Quello che fate voi è l’unica cosa da fare al mondo». La stessa Lubich aveva, poi, suggerito: «Dovremmo avere un cuore per tutta l’umanità come lo aveva il santo Padre. Gesù è morto per tutti, anche per ognuno di quelli di altre religioni. L’Opera di Maria faccia la strada alla Chiesa in questo»[7].
In questo testo scarno ed essenziale possiamo rintracciare in sintesi tutta la prospettiva dell’incontro del cristianesimo con il “culturalmente altro” alla luce della spiritualità dell’unità. Infatti, i due elementi chiave che si raccomandano sono Dio e l’amore, che nella prospettiva della Lubich sarebbero emersi, rispettivamente, come il fondamento e la metodologia dell’incontro del vangelo con le altre culture. La reazione da parte di persone che provengono da un’altra cultura è di adesione immediata all’annuncio, come qualcosa che pare essere la soluzione per l’umanità. A commento, la fondatrice dei Focolari delinea un’efficace sintesi che porta una chiave importante per una prospettiva ecclesiologica e di teologia delle religioni: «avere un cuore per tutta l’umanità […]. Gesù è morto per tutti, anche per ognuno di quelli di altre religioni». È opportuno sottolineare che questo incontro avviene ancora durante il Concilio, due anni prima dell’uscita di documenti come Ad gentes, Unitatis redintegratio, Dignitatis humanae e Nostra aetate, che avrebbero portato contributi di grande respiro su questo tema.
È, dunque, opportuno approfondire i due elementi di cui si è appena accennato.

2. Fondamento e metodologia

2.1 Il fondamento antropologico: Dio, la sua paternità e la fratellanza 

Quanto emerge nell’episodio riferito non è una novità assoluta. Fin dai primi tempi trentini della nuova esperienza ecclesiale, infatti, si potevano cogliere i segni di quello che sarebbe stato il fondamento antropologico nella concezione dell’altro nella prospettiva del nascente carisma dell’unità: la paternità di Dio[8] e la conseguente fratellanza universale[9]. In una delle lettere della fitta corrispondenza che intratteneva con amici e amiche, che condividevano con lei i primi passi del Movimento, troviamo questo invito.

Puntare sempre lo sguardo nell’unico Padre di tanti figli. Poi, guardare le creature tutte, come figli dell’unico Padre. Oltrepassare sempre col pensiero e con l’affetto del cuore ogni limite posto dalla natura umana e tendere costantemente, per abitudine presa, alla fratellanza universale in un solo Padre: Dio.[10]

Da queste poche parole, assolutamente essenziali, emerge l’atteggiamento fondamentale da tenere con tutti: l’altro non è più – o non è mai stato – un “pagano”, un “peccatore”, ma nemmeno solamente un “prossimo”; è, piuttosto, un fratello e una sorella. Se Dio è Padre di ogni uomo e di ogni donna, infatti, gli uomini e le donne sono tutti fratelli e sorelle. La fratellanza universale, quindi, da subito, è stata la cifra di riferimento nell’orizzonte della Lubich. Tuttavia, in merito al nostro argomento, si riconferma in due momenti considerati il rapporto del carisma dell’unita con altre culture. Sono eventi che hanno luogo a dieci anni di distanza l’uno dall’altro e in ambienti assolutamente diversi per geografia, contesto culturale e religioso.
Il primo ha luogo nel 1966 nel cuore della foresta camerunese[11], dove, durante una festa offerta dalla popolazione locale radicata nella religione tradizionale africana, la Lubich ebbe «la forte impressione che Dio, come un immenso sole, abbracciasse tutti noi e loro con il suo amore»[12]. La conclusione è significativa: «Per la prima volta nella mia vita ho intuito che avremmo avuto a che fare anche con persone di tradizione non cristiana»[13]. Il secondo episodio è avvenuto a Londra, nel 1977, in occasione della consegna del Templeton Prize[14], definito come «l’evento in qualche modo “fondante” di questo nostro dialogo [interreligioso]». La fondatrice dei Focolari aveva tenuto il discorso di accettazione di fronte a un’assemblea altamente qualificata di rappresentati di diverse culture e religioni. All’uscita dalla sala i primi a congratularsi furono ebrei, musulmani, buddhisti, sikh, indù. «Lo spirito cristiano di cui avevo parlato – commentò – li aveva impressionati, cosicché mi è stato chiaro che avremmo dovuto occuparci non solo della nostra o delle altre Chiese, ma anche di questi fratelli e sorelle di altre fedi»[15].
I due momenti sono decisivi per l’impegno a un dialogo interculturale e interreligioso. Entrambi sono fondati, da un lato, sulla coscienza della paternità universale di Dio e, dall’altro, sulla tensione costante alla fraternità. Si tratta di due pilastri che resteranno fino alla fine della vita di Chiara, senza il minimo tentennamento. Lo dimostra un testo che è una sorta di prezioso testamento all’alba del terzo millennio. In esso la fratellanza diventa chiave per un incontro positivo fra le culture per arrivare ad una cultura mondiale, frutto dell’incontro fra le varie espressioni culturali del globo.

Sogno che quel sorgere – che oggi si costata – nella coscienza di milioni di persone di una fraternità vissuta, sempre più ampia sulla Terra, diventi domani, con gli anni del 2000, una realtà generale, universale. […] Sogno l’approfondirsi d’un dialogo vivo e attivo fra le persone delle più varie religioni legate fra loro dall’amore, “regola d’oro” presente in tutti i loro libri sacri. Sogno un avvicinamento e arricchimento reciproco fra le varie culture del mondo, sicché diano origine a una cultura mondiale che porti in primo piano quei valori che sono sempre stati la vera ricchezza dei singoli popoli […][16].

2.2 Il metodo: l’amore e l’arte d’amare 

Nel passo appena letto, tratto da un’intervista, la Lubich fa riferimento alla metodologia che assicura un vero incontro fra persone di culture e religioni diverse. Lo aveva già suggerito nell’episodio del 1963, prima dell’incontro delle sue compagne con i due indù: amore, un termine, senza dubbio cristiano, da lei sempre inteso nel senso dell’agápe, che, comunque, a contatto con persone di culture e tradizioni religiose diverse, si affretta a universalizzare facendo riferimento alla regola d’oro, presente, secondo modalità e formulazioni varie, in tutte le tradizioni culturali del mondo. Si tratta, infatti, di accostare non solo le persone, ma anche le loro culture e le loro religioni, con amore. Mutuando la regola d’oro, questo significa rispettare e apprezzare la cultura e la religione altrui come si vorrebbe fosse apprezzata la propria. Un atteggiamento e un metodo che risulteranno chiari in molte sue pagine e in molti suoi interventi in varie parti del mondo. Cito, qui di seguito, il suo incontro con l’India e con la sua cultura anche per esserne stato testimone oculare[17].

Più entriamo in contatto con l’India – e noi siamo qui da pochissimi giorni! – più essa ci si rivela come un mondo grande, intenso, con un suo volto, per noi occidentali, non facilmente decifrabile, unitario nella sua ricchissima diversità. Si sente che siamo di fronte ad uno scrigno di tesori spirituali, di tensione mistica di tutta la natura umana – tensione alla quale non è certamente estranea l’opera della Grazia. E questo scrigno si apre solo a chi gli si accosta con rispetto pieno d’amore e, soprattutto, con la convinzione che Dio ha tanto da dirci attraverso questa cultura millenaria[18].

Amore, dunque, che significa apertura verso una cultura, per certi versi, misteriosa, che la Lubich non solo mostra di apprezzare per la sua ricchissima diversità, ma in cui riconosce la presenza della grazia di Dio e che ha tanto da dirci.

2.3 Caratteristiche e conseguenze: il “più profondo farsi uno” e il deculturalizzarsi

In riferimento alla categoria dell’amore, chiave per una vera metodologia del dialogo e dell’approccio del vangelo verso altri mondi, è necessario esplicitare alcune caratteristiche che la fondatrice dei Focolari ha declinato in quella che ha definito un’“arte di amare” e che potrebbe dirsi anche arte del dialogo. Un primo aspetto assolutamente richiesto e quello del silenzio,che permette l’ascolto di quanto l’altro ha da dire. Entrambi sono atteggiamenti fondamentali per poter conoscere e apprezzare. Ancora in occasione del suo viaggio in India, il 31 dicembre del 2000, appena arrivata a Mumbai, annotava sul suo diario: «Io sono venuta qui per conoscere, stando in silenzio il più possibile: cosi, mi hanno detto, occorre venire in India»[19]. Infatti, era cresciuta il lei la coscienza che ascoltare permette di inculturarsi, nel senso di entrare nella cultura dell’altro, di capirlo, nel suo linguaggio e nel suo modo di esprimersi[20]. Silenzio e ascolto, inoltre, permettono di realizzare quel processo che, con un neologismo, e definito come il “più profondo farsi uno”[21]. Si tratta di un atteggiamento spirituale, frutto proprio dell’amore, che porta a vivere o sentire quanto chi ci sta di fronte vive o sente. In contesto di dialogo interculturale e interreligioso, in più di un’occasione, la Lubich stessa lo ha spiegato con una definizione presa dal teologo delle religioni Whaling, che afferma come «conoscere la religione dell’altro significa qualcosa di più dell’essere informati sulla sua tradizione religiosa»[22]. Si tratta di una “tecnica spirituale” che consiste nel “passare al di là” per incontrare l’altro insieme alla sua esperienza religiosa e alla visione del mondo che porta in sé»[23].
Dialogare significa anzitutto porci sullo stesso piano: non crederci meglio degli altri. E significa pure ascoltare ciò che l’altro ha in cuore. Significa spostare tutti i nostri pensieri, gli affetti del cuore, gli attaccamenti. Spostare tutto per poter “entrare nell’altro”[24].
Inoltre, il più profondo farsi uno facilita il processo di deculturalizzazione, necessario per un vero incontro con la cultura dell’altro. Per cogliere, infatti, la cultura altrui con le rispettive ricchezze è necessario un processo di spogliamento dalla propria. La Lubich più volte ha espresso la sua convinzione che «solo persone […] distaccate dalla propria cultura, saranno in grado di capire gli altri e di capire le altre culture; di entrare nel pensiero degli altri e di capire come l’altro pensa, che cosa ha, che ricchezza ha»[25].

2.4 Dalla kenosi ai doni dello Spirito

È ovvio che questa metodologia richiede un rinnegamento di se stessi, una morte del proprio modo di pensare e, in definitiva, del proprio io, una vera kenosi[26]. Nell’esperienza della Lubich in diverse parti del mondo, in Asia, come in Africa, in America Latina come negli Usa, questo morire a se stessi ha dato una testimonianza efficace e ha colpito profondamente, soprattutto i rappresentanti delle culture orientali. In qualche modo si è sperimentato quanto previsto dal teologo delle religioni Waldenfels quando afferma che «oggi tutte le religioni si trovano, ognuna con la loro storia, davanti alla croce di Cristo»[27]. È lui crocifisso e abbandonato che misteriosamente attrae a sé uomini di ogni credo[28]. In effetti la Lubich, riferendosi alla sua scoperta dell’esperienza dell’abbandono di Gesù in croce come del massimo annientamento, ha spesso sottolineato come «sui fedeli delle religioni orientali, quel tipico dolore di Gesù, che l’ha portato all’annientamento totale, suscita un fascino tutto particolare»[29]. Non si tratta, tuttavia, di un morire che lascia un vuoto. Piuttosto, «quando qualcuno muore a se stesso per farsi uno con loro lascia con ciò vivere Cristo in sé» e questo produce un fascino di luce e di pace, effetti dello Spirito, che si mostrano sui volti di coloro che sono capaci di vivere in questo modo l’incontro con il diverso. Per questo persone di diverse culture sono attratte e chiedono spiegazioni[30]. La professoressa Uma Vaidhya della Mumbai University, che pure non l’aveva mai incontrata di persona, al termine del III Simposio indù-cristiano, tenutosi due mesi dopo la scomparsa della fondatrice dei Focolari, comunicava ai partecipanti che, alla fine di ogni sessione, avvertiva «la sala illuminata di sapienza grazie all’esperienza di Chiara, che ci illumina dentro»[31].

2.5 La scoperta dei “semi del Verbo”

Frutto di questa kenosi interiore è anche una presenza particolare dello Spirito[32], che aiuta al discernimento, un processo fondamentale nel dialogo fra persone di culture diverse. Particolarmente importante è la possibilità e la capacita di discernere la presenza dei “semi del Verbo”, di cui già Giustino parlava nel II secolo[33]. Per la Lubich era evidente che solo colui che si fa vuoto per amore può davvero godere di questo intervento dello Spirito. Infatti, sostiene, «se [uno] è veramente vuoto, […] e nulla, non è un nulla morto, ma un nulla d’amore, ha lo Spirito Santo e può distinguere nella cultura che lui avvicina in quella data persona. […] Solo lo Spirito Santo ti può far fare questa cernita delle cose»[34]. A questo riguardo, la prospettiva della Lubich non è mai stata riduttiva: i “semi” sono tutto il Verbo non solo una sua parte. Infatti, «tutto ciò che c’è di bello, di buono, di soprannaturale [...]  tutto Verbo»[35]. Proprio alla luce di questa esperienza di scoperte, la spiritualità di comunione aiuta a mantenere una prospettiva ampia, di largo respiro, lontana da qualsiasi ombra di esclusivismo, sia pure senza venire a compromessi o cadere in pericolose forme di relativismo40. Da qui il suo sottolineare la necessità, come cristiani, di «essere molto aperti. Come una volta – ha sottolineato – la Chiesa ha studiato Aristotele che è servito come filosofo per spiegare la nostra fede, io penso che si servirà anche di Buddha»[36]. Sentiva, infatti, dopo il suo secondo viaggio in Giappone nel 1986, la necessità di «prender dentro nel nostro abbraccio universale anche un pochino di Buddha, almeno la sua saggezza, le sue verità […] sentirle patrimonio dell’unico Dio»[37].

2.6 Apprezzamento e valorizzazione delle altre culture

Da questi passi si intuisce l’apprezzamento che la Lubich nutriva per le culture e le religioni che incontrava, dove ha sempre avvertito, come visto, una presenza della grazia. Per scoprire questo aspetto, una fonte molto ricca e interessante sono i vari diari che la fondatrice dei Focolari usava mantenere nel corso dei suoi viaggi e che inviava, poi, ai membri del Movimento in altre parti del mondo per renderli partecipi di quanto viveva. In altre occasioni, al suo ritorno, era solita raccontare a gruppi che incontrava le sue impressioni ed esperienze, soprattutto se erano avvenute con persone di altre culture e religioni. Nel 1997, nel corso del suo secondo viaggio in Asia, dopo una prima fruttuosa tappa in Thailandia dove aveva incontrato e parlato a diversi gruppi di monaci, monache e laici buddhisti, trovandosi nelle Filippine, sollecitata da una domanda di una cattolica, sottolineò come la sua esperienza in Thailandia coi monaci theravada fosse stata caratterizzata da «un arricchimento provocato da tutto ciò che di buono questi popoli hanno ereditato nei secoli»[38].

[in Thailandia] ti senti spinto alla meditazione: alla tua, naturalmente. Ma quanta cura hanno questi buddisti perché la meditazione riesca bene e raggiunga il suo scopo! Quanta devozione nel loro salmeggiare! Quale atteggiamento assumono in tutto il corpo, che dice elevazione dello spirito a qualcosa di più grande di loro![39]

Ugualmente, nel gennaio del 2001, al ritorno dall’India riconobbe di aver «scoperto diverse cose veramente meravigliose, stupefacenti»[40]: il senso del divino, la ricerca dell’unione con Dio, una pratica spirituale e ascetica. Riconosceva, «ho ammirato come sanno concentrarsi, come hanno il distacco dalle cose terrene […], arrivano ad una serenità veramente interiore, ad una calma e possiedono questo spirito di tolleranza, cioè ammettono tutti»[41].

2.7 La reciprocità

Questo atteggiamento di apprezzamento e di valorizzazione verso altre culture e religioni, tipico della spiritualità di comunione, è caratterizzato e arricchito ulteriormente dalla dimensione della reciprocità. Il cosiddetto «“farsi uno” non è soltanto […] perdere tutto ed essere nulla, ma anche ascoltare l’altro, far venir fuori l’altro, far sì che si manifesti, far sì che poi entri in noi, far sì che noi lo possediamo, ma dopo lui possiede anche noi e avviene l’amore reciproco»[42]. Non solo. In Messico, commentando l’immagine della Madonna di Guadalupe, come maestra di inculturazione, la Lubich riconosceva l’importanza di «assumere anche noi, con umiltà e riconoscenza, quel qualcosa di valido, che offre la cultura dei nostri fratelli. L’inculturazione esige uno scambio di doni»[43]. Ma la reciprocità va al di là di questo. In secondo luogo, si dà all’interlocutore anche la possibilità di interessarsi alla nostra cultura e alla nostra religione. Infatti, dopo che si è ascoltato, il “culturalmente altro” sente «il dovere di ascoltarti, se non altro per gentilezza, se non altro perche è logico. E ti dicono: “E tu? E tu?”. E allora tu […] spieghi»[44]. Eccoci, dunque, all’annuncio.

2.8 Evangelizzazione come rispettoso annuncio

La reciprocità, infatti, tipica della spiritualità di comunione, nello spirito di uno scambio di doni, apre alla possibilità di un annuncio caratterizzato dal rispetto e fatto per amore. È necessario, allora, «passare al “rispettoso annuncio” dove diciamo quanto la nostra fede afferma sull’argomento di cui si parla, senza nulla tacere, ma per amore. E senza ombra di proselitismo»[45].

Il dialogo è vero se è animato dall’amore vero. Ora l’amore vero è vero se è disinteressato; se no non è amore. [...] Esiste questa possibilità che ci sia un interesse nell’amare, anche nel dialogo stesso: […] sarebbe un’altra cosa: proselitismo. Proselitismo deve essere fuori da questa porta, non può esserci.[46]

3. Maria, modello di inculturazione, e la generazione di Cristo 

Modello del rapporto fra vangelo e culture e/o religioni, nella prospettiva del carisma dell’unità, è Maria. Per la Lubich, infatti, Maria è modello sia per la possibilità di cogliere la presenza di Cristo nelle culture sia per la capacita di generare Cristo all’interno di esse. Come accennato, era stato il viaggio in Messico del 1997 che aveva offerto l’occasione di trovare in Maria una strada nuova all’incontro fra le culture.
La Madonna di Guadalupe è esempio straordinario e meraviglioso di inculturazione, che Lei espresse attraverso il modo di presentarsi. Non ha un volto bianco come si pensa Maria di Nazareth; ma le sue sembianze sono quelle di una donna né bianca, né indigena. È morena e predica così a tutti la necessità di non scontrarsi mai, ma di fondersi sempre. Indica la sua divina maternità, simboleggiandola nei nastri scuri, che scendono dal petto, conforme all’usanza azteca[47].
Ma c’è un aspetto più tipicamente legato alla centralità di Maria nella spiritualità di comunione. In generale, la Lubich vedeva in Maria il modello dell’amore perché capace di portare «in cuore per ognuno e per ogni popolo un amore particolare, l’amore di misericordia»[48]. È questo tipo di amore che è capace di indirizzarsi alle singole persone, «ma anche alla nazione stessa nella sua totalità»[49]. Questo atteggiamento mariano porta a contribuire a generare Cristo nel cuore stesso di questi contesti altri dal cristianesimo.

Mi chiedo: che cosa potrà scaturire dall’incontro dell’India col Gesù offerto dal carisma dell’unità? Portando a piena maturazione i semi del Verbo presenti in essa – lavoro immenso, ciclopico, che richiederà anni ed anni, forse secoli – potrebbe far scaturire Gesù dal cuore stesso della realtà indiana. Ma in che modo? Essendo, da parte nostra, quella presenza di Maria, che è l’unica capace di offrire, di donare Gesù nella sua verità più profonda, ma facendolo nascere dal cuore stesso della realtà alla quale lo dona.[50]

4. una nuova prospettiva ecclesiologica 

Un rapporto fra vangelo e culture come quello che abbiamo cercato di scoprire fra le pieghe della vita e del carisma di Chiara ha delle conseguenze fondamentali anche sull’ecclesiologia. Non solo siamo ormai lontani dall’ecclesiocentrismo che per più di un millennio ha visto la cattolicità più o meno ferma sull’Extra Ecclesiam nulla salus. Chiara, in più di un’occasione, ha aperto a una Chiesa ad ampio respiro, come già aveva affermato in sintesi nel 1963: «Gesù è morto per tutti, anche per ognuno di quelli di altre religioni». La Lubich ha maturato la convinzione che «c’è la Chiesa, ma poi c’è la Chiesa anche fuori della Chiesa» e, riprendendo una prospettiva già espressa da Tommaso d’Aquino, afferma che «la Chiesa non è soltanto commisurata dai cattolici che ci sono dentro, ma è commisurata da tutte le persone per le quali Gesù Cristo è morto. Ora Gesù Cristo è morto per tutti»[51].

Testo pubblicato sul numero 229 di Nuova Umanità

Roberto Catalano è co-direttore del Centro internazionale del Dialogo Interreligioso del Movimento dei Focolari, e docente presso Istituto Universitario Sophia (Loppiano-Firenze).

 

[1] Citato nel Notiziario, in Il Concilio di Trento. Rivista commemorativa del IV centenario, 1 (1942), p. 75, riportato da M. Nicoletti, Il mondo cattolico trentino fra il fascismo e la guerra e le radici di Silvia Lubich, in A. Leonardi (ed.), Comunione e innovazione sociale. Il contributo di Chiara Lubich, Città Nuova - Università degli Studi di Trento, Roma 2012, pp. 13-33, qui p. 25.

[2] Nel presente studio cultura e religione appariranno spesso sinonimi. E, infatti, da tener presente che, sebbene il Movimento si sia diffuso piuttosto velocemente in tutto il mondo, nel corso della sua vita la Lubich ha avuto un incontro profondo con altre culture in occasione di eventi o incontri che l’hanno portata in contatto con buddhisti (in Giappone e in Thailandia), con indù (in India), con musulmani (negli Usa e in Medio Oriente) e con le religioni tradizionali (in Camerun).

[3] E’ opportuno ricordare che nel 1961 erano iniziati i rapporti con cristiani evangelici e riformati e che per questo si era dato vita al Centro Uno, destinato a diventare sotto la guida sapiente di Igino Giordani un punto di riferimento, non solo

nell’ambito dei Focolari, ma dell’intero movimento ecumenico.

[4] Si tratta di Bruna Tommasi e Graziella De Luca.

[5] Si tratta del Centro Uno, sorto nel 1961 sotto la direzione di Igino Giordani, che la Lubich ha sempre considerato confondatore del Movimento dei Focolari. Per maggiori dettagli cf. E.M. Fondi - M. Zanzucchi, Un popolo nato dal Vangelo. Chiara Lubich e i Focolari, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, in particolare il capitolo Dialogando, pp. 356-376.

[6] C. Lubich, Domande e risposte con focolarini esterni, Ala di Stura (To), 12 agosto 1963.

[7] Ibid.

[8] Su questo aspetto della spiritualità di comunione nata dall’esperienza di Chiara Lubich cf. C. Lubich, La dottrina spirituale, Città Nuova, Roma 2006 (M. Vandeleene [ed.]), pp. 101-114.

[9] Cf. ibid., pp. 130-143 e 461-483.

[10] C. Lubich, L’arte di amare, Città Nuova, Roma 2005, p. 29.

[11] La Lubich si era recata a Fontem in Camerun, non lontano da Douala, per visitare i primi focolarini – medici e infermieri – che vi si erano trasferiti su invito del vescovo locale monsignor Peters per contribuire a curare l’altissima mortalità infantile che affliggeva la popolazione locale. Per una maggiore conoscenza di questa esperienza dei Focolari cf. M. Zanzucchi, Fontem. Un nuovo popolo, Citta Nuova, Roma 2002; L. Dal Soglio, Presi dal mistero. Agli albori dei Focolari in Africa, Citta Nuova, Roma 2013.

[12] C. Lubich, La mia esperienza nel campo interreligioso: punti della spiritualità aperti alle religioni, Aachen, Germania, 13 novembre 1998.

[13] Ibid.

[14] Il Premio Templeton (Templeton Prize) è un riconoscimento assegnato fin dal 1973 a persone che si sono distinte in campo religioso. Chiara ne venne insignita nel 1977 e ricevette il premio a Londra dalle mani del principe di Edimburgo, dopo una solenne cerimonia tenutasi alla Guildhall.

[15] C. Lubich, Possono le religioni essere partners sul cammino della pace?, in Nuova Umanità 152 (2004/2), pp. 161-174.

[16] Id., Attualità. Leggere il proprio tempo (M. Zanzucchi [ed.]), Città Nuova, Roma

[17] Chiara Lubich ha visitato l’India due volte, nel 2001 e nel 2003. Sono stato testimone diretto di quelle visite avendo vissuto in quel Paese dal 1980 al 2008.

[18] C. Lubich, Diario n. 3, Diari dall’India, 3 gennaio 2001.

[19] Id., Diario n. 1, Diari dall’India, 31 dicembre 2001.

[20] Cf. Id., Risposte alla città di Loppiano, 7 febbraio 2001 (trascrizione da video non pubblicata).

[21] La Lubich spiega il “più profondo farsi uno” nel corso di una conversazione telefonica dove comunica un pensiero spirituale a membri del Movimento sparsi in diverse parti del mondo. «Ma allora quale l’atteggiamento nostro nei suoi confronti [del fratello]? […] Dobbiamo […] accostarlo completamente vuoti di noi stessi e spostare per lui anche ciò che possediamo di più bello, di più grande: il nostro stesso carisma, la nostra spiritualità, la nostra Opera, per essere di fronte a lui “nulla” come Gesù Abbandonato, come Maria Desolata. […] In tal modo il fratello può manifestarsi, perché trova chi lo accoglie: può donarsi. Ma, poiché il “nulla” in noi e un “nulla d’amore”, lo Spirito Santo […] ci dà modo di cogliere quel qualcosa di “vivo” che è nel cuore del fratello. […] E su quel qualche cosa di “vivo” noi possiamo – servendo – innestare con dolcezza, con amore, con illimitata discrezione, quegli aspetti della verità, del messaggio evangelico che portiamo in noi e danno pienezza e completezza a ciò che quel prossimo già crede […]. È un modo, questo, eccellente per i continenti dove la Chiesa (e in essa anche noi) fa leva sui semi del Verbo esistenti nelle varie culture per innestare la Vita (Gesù) su qualcosa di già vivo, come è vivo ogni albero, anche selvatico, non ancora innestato» (C. Lubich, Collegamento CH, 28 maggio 1992).

[22] F. Whaling, Christian Theology and World Religions: A Global Approach, Marshall Pickering, Basingstoke 1986, pp. 130-131.

[23] Ibid.

[24] C. Lubich, Intervento alla Radio Vaticana, in Mariapoli, 2000/2, p. 14

[25] Id., Risposte ai focolarini dell’Africa, 12 maggio 1992. A questo proposito è opportuno chiarire che tale processo di deculturalizzazione non significa assolutamente una perdita di identità. Per la Lubich l’identità, soprattutto in quanto cristiana cattolica, è sempre stata un punto chiaro e fermo, mai oggetto di compromessi di alcun tipo. Si tratta di deculturalizzarsi per amore di chi ci sta di fronte per attendere il momento opportuno di donare la propria cultura e identità, senza mai imporla, ma proponendola per amore.

[26] Per questo aspetto cf. C. Lubich, Il grido, Citta Nuova, Roma 2001 e 2003, e Id., La dottrina spirituale, cit., pp. 143-155 e 503-505.

[27] H. Waldenfels, Gesù crocifisso e le grandi religioni, Edizioni Dehoniane, Napoli

[28] Cf. E.M. Fondi - M. Zanzucchi, Un popolo nato dal Vangelo, cit.

[29] C. Lubich, L’unità e Gesù Abbandonato, Città Nuova, Roma 1984, pp. 117-118

[30] Cf. ibid.

[31] R. Catalano, La spiritualità di comunione e il dialogo interreligioso. L’esperienza di Chiara Lubich e del Movimento dei Focolari, Città Nuova, Roma 2010, p. 155.

[32] Cf. C. Lubich, La dottrina spirituale, cit., pp. 214-225.

[33] Su questo argomento possono essere consultati diversi studi. Fra questi si suggeriscono il capitolo La sapienza delle nazioni, nel libro di J. Danielou, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, Il Mulino, Bologna 1975 (originale francese, 1969), pp. 51-90. È opportuno ricordare, poi, che la Lubich era ben cosciente che il ruolo degli insegnamenti di questi Padri della Chiesa come opportuno fondamento al rapporto della Chiesa con le culture e le religioni è stato riconosciuto esplicitamente in autorevoli documenti successivi al Concilio Vaticano II. Cf. Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, Dialogo e annuncio. Riflessioni e orientamenti sul dialogo interreligioso e l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo, 19 maggio 1991, nn. 24-25; Commissione teologica

internazionale, Il cristianesimo e le religioni, in La Civiltà Cattolica 148 (I/1997), pp. 146-183, nn. 40- 45.

[34] C. Lubich, Risposte ai focolarini dell’Africa, 12 maggio 1992.

[35] Id., Risposte alla città di Loppiano, 7 febbraio 2001.

[36] Confusione fra le religioni o conferme per un’unica fede universale? Questa la tentazione di alcuni, forse, ma non della Lubich che, a un giornalista svizzero che, ancora nel 1998, aveva azzardato se fosse «favorevole ad un annullamento delle frontiere tra le religioni, tendendo cosi ad un’unica religione su questa terra», aveva con fermezza chiarito: «No, assolutamente no, assolutamente no. […] Ho detto che nelle altre religioni, pur essendo congegnate ognuna in una maniera diversa, ci sono dei “semi di verità”, noi andiamo cercandoli, questi semi, per poter avere un qualcosa di comune su cui parlare, su cui agire». Su questo punto c’è sempre stata non solo chiarezza da parte della Lubich e dei Focolari, ma anche impegno a non dare adito a soluzioni sincretiste o, anche solo, a scorciatoie pericolose.

[37] C. Lubich, Risposte alla città di Loppiano, 19 febbraio 1986.

[38] Id., Diari dall’Asia. Tagaytay (Filippine), 10 gennaio 1997.

[39] Ibid.

[40] C. Lubich, Risposte alla città di Loppiano, 7 febbraio 2001.

[41] Ibid.

[42] C. Lubich, Risposte ai focolarini dell’Africa, 12 maggio 1992.

[43] Id., Discorso al Santuario della Madonna di Guadalupe, Citta del Messico, 7 giugno 1997.

[44] Id., Risposte alla città di Loppiano, 7 febbraio 2001.

[45] Ibid.

[46] C. Lubich, Risposte al convegno degli amici di convinzioni non religiose, Castel Gandolfo, 8 febbraio 1998.

[47] Id., Discorso al Santuario della Madonna di Guadalupe, Città del Messico, 7 giugno 1997.

[48] Id., Maria (B. Leahy - J. Povilus [edd.]), Città Nuova, Roma 2017, p. 131.

[49] Ibid.

[50] C. Lubich, Diario n. 3, Diari dall’India, 3 gennaio 2001.

[51] Id., Risposte alla città di Loppiano, 7 febbraio 2001.

 

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