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N° 43 - Scuola, educazione, docenti - 7-02-2010

 

SCUOLA EDUCAZIONE DOCENTI

Con meno contrasti di quanto fosse prevedibile sembra andare in porto la riforma dell’Istruzione varata in Italia dall’attuale governo. Ciò che lascia perplessi è che il confronto pare ridursi, per di più con molta cautela, intorno all’entità dei tagli che la riforma comporterà rispetto ai posti di lavoro, senza entrare nel merito della funzione che alla scuola spetta nel nostro sistema sociale. Il che lascia adito al sospetto che tale funzione non venga più percepita oggi come determinante, come se la scuola, e anche l’università, fossero ormai istituzioni di fatto marginali.
Una conclusione di questo tipo è in contrasto con l’enfasi con cui nel mondo si parla della formazione come principale risorsa per il futuro; ma ancor di più con l’affiorare di un problema di cui finalmente si prende pubblicamente atto: l’emergenza educativa nelle società a più elevato livello di modernizzazione. In tali società lo schiacciante prevalere dei modelli di vita consumistici e il crescente deserto valoriale determinano da tempo una deriva culturale da cui nessun dibattito può ormai prescindere.
Non sarà che la scuola debba ripensare la sua funzione innanzitutto in rapporto a quello scenario? E che i docenti, che vivono oggi una profonda crisi di identità, oltre che di prestigio, siano più che mai chiamati a una responsabilità cruciale nelle interazioni sociali?

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Rispetto ai temi dell'educazione vi invitiamo a visitare, oltre al sito di INTERDEPENDENCE (www.interdependence.eu), anche il sito TORNARE A EDUCARE (http://tornareaeducare.effata.it)

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TORINO, 24 FEBBRAIO 2010, ORE 14.30 – 17.30
IIS G.Giolitti , via Alassio 20, 10126 Torino

CRESCITA PROFESSIONALE
E COMPITO EDUCATIVO DEI DOCENTI

SEMINARIO DI FORMAZIONE PER DOCENTI

Spesso non è facile, per noi insegnanti, rispondere alle aspettative e alle richieste che ci giungono da ogni parte. Richieste pressanti, talvolta contraddittorie, che rischiano di ridurci a burocrati del sapere, facendoci dimenticare le motivazioni più profonde del nostro lavoro. Tanto più nelle urgenze della riforma, che getta un velo di incertezza sulle già scarse sicurezze. In questo contesto, ci sembra importante confrontarci. Per riflettere sulla nostra identità, la nostra crescita professionale, il nostro compito fondamentale: educare.

ORE 14.30
Saluti delle Autorità:
Giovanna Pentenero, Assessore all’Istruzione e alla Formazione Professionale, Regione Piemonte
Umberto D’Ottavio, Assessore all’Istruzione, Provincia di Torino

ORE 15
Interventi introduttivi
Laura Sciolla, UCIIM
Renato Bresciani, Interdependence
Paola Orlarei, ANSAS

ORE 15.30
Relazioni
Sergio Blazina, dirigente scolastico Istituto “Giolitti”: Compiti educativi e deleghe sociali
Cristiana Cattaneo e Claudio Torrero, autori di “Tornare a educare”: Non si può insegnare senza educare
Domenico Chiesa (CIDI): Se la carriera è diventare maestro
Igor Piotto, FLC CGIL Organizzazione del lavoro e professionalità: una prospettiva sindacale
Enzo Pappalettera CISL Scuola: La professionalità docente fra autoreferenzialità e processi valutativi
Diego Meli, UIL Scuola: L’impegno del sindacato per la crescita professionale dei docenti
Vincenzo Spatola, GILDA degli Insegnanti, Educazione e meritocrazia
Vilma Demitri, docente Istituto “Albert”: Un percorso con i ragazzi

ORE 17
Confronto comune, conclusioni

L'iniziativa è promossa da UCIIM e INTERDEPENDENCE.
Per informazioni e iscrizioni, rivolgersi a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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PRENDIAMO SUL SERIO LA SERIETÀ DELLA SCUOLA, Cristiana Cattaneo

In un libro uscito nel 1969, famosissimo soprattutto in ambito psicologico, ma purtroppo finora abbastanza ignorato nel mondo della scuola, cioè La pragmatica della comunicazione umana, si invitava a pensare che tutto è comunicazione. Non è possibile non comunicare, come non è possibile non comportarsi. Comunichiamo in vario modo: con le parole, ma anche con la gestualità e con gli sguardi, con la nostra sola presenza, o addirittura talvolta con l’assenza. Se qualche relatore annunciato in questo seminario non fosse venuto qui stamane, tutti si sarebbero chiesti la ragione di ciò, qualcuno forse avrebbe pensato che non fosse d’accordo con il taglio del seminario stesso.
Noi tutti dunque comunichiamo sempre e continuamente, al di là delle intenzioni, spesso anzi diventa molto interessante ciò che comunichiamo in modo involontario: buona parte della psicologia si occupa di ciò. Mi pare evidente quanto importante sia per un insegnante una consapevolezza di questo tipo, cioè la consapevolezza che ogni cosa che dice o non dice, che fa o non fa in classe ha un valore comunicativo. Dovrebbe essere anche importante una consapevolezza di questo tipo per un ministro: quello che dice o non dice, che fa o non fa ha un preciso valore comunicativo, cioè determina conseguenze; nel nostro caso sul mondo della scuola e su ciò che vi è connesso, ovvero la società tutta.
Quando dunque oggi dal vertice della politica scolastica italiana viene un messaggio del tipo: bisogna tornare a una scuola seria, è evidente che tale messaggio ha una valenza comunicativa forte, perché fa intendere che molto di quanto è stato inteso con scuola nel periodo trascorso sia qualcosa di non serio e quindi destituito di valore. E’ un messaggio che vuole evidentemente sollecitare e promuovere un cambiamento. E’ doveroso però che chi si assume un ruolo di questo tipo si assuma interamente la responsabilità che vi è implicita: bisogna cioè che dica chiaramente in cosa consiste la serietà e in cosa la non serietà. In una cultura di tipo tradizionale è serio ciò che è coerente con la tradizione, che salvaguarda una trasmissione di contenuti, di valori, di comportamenti che deve trascorrere di generazione in generazione; nella cultura moderna, che invece è fondata sull’innovazione, la serietà non è così evidente e si trova ad essere oggetto di discussione. Per tagliar corto, proporrei di considerare serio ciò che costituisce una risposta valida ad un problema realmente esistente e che si può enunciare in modo sufficientemente chiaro.
Per entrare nel nostro tema: se tornare a una scuola seria volesse dire tornare ad un ordinamento della didattica e delle relazioni scolastiche di un’epoca passata, mettiamo precedente il ’68, apparirebbe subito evidente che la cosa non è possibile, e quindi la serietà che viene invocata non sarebbe una cosa seria. L’impossibilità di un ritorno al passato è chiaramente riscontrabile nel mutamento generale intervenuto in questi ultimi decenni nella società, per cui i ragazzi di oggi non sono quelli degli anni ’50, né tanto meno quelli degli anni ’30; ma anche più specificamente nel cambiamento della funzione sociale della scuola.

La scuola “seria” del passato era una scuola che aveva una precisa funzione di regolatore della stratificazione sociale, ovvero, nel contesto di una concezione piramidale della società, la scuola aveva un ruolo molto importante nel contribuire a distribuire la popolazione ai vari livelli, in particolare una funzione determinante nella formazione dell’élite. Non a caso quel tipo di scuola era rigidamente selettiva, perché doveva distinguere chiaramente chi fosse destinato a fare l’operaio e chi dovesse accedere ai livelli dirigenziali. Il venir meno di quella rigida selettività non si deve solo al lassismo dei tempi, e neppure è frutto soltanto di una conquista democratica: la scuola di massa come la conosciamo riflette evidentemente un profondo cambiamento sociale; non che oggi non ci siano élite e ruoli subordinati, ma essi si determinano attraverso sistemi di selezione più complessi, dove ahimè la scuola ha un ruolo meno decisivo.
Un tempo il problema era che la funzione della scuola come regolatore sociale fosse condizionata da fattori socio-economici: si riscontrava che ad andare bene a scuola erano soprattutto i figli dell’élite, per cui questa attraverso la scuola riproduceva se stessa. Oggi la situazione è diversa: su un certo piano il cammino scolastico è aperto a tutti, ma tale cammino è meno importante dal punto di vista del risultato sociale. Paradossalmente i fattori economici oggi finiscono per essere ancora più importanti di un tempo: non più perché la scuola sia difficilmente accessibile, ma perché ha meno importanza. Oggi tutti hanno più possibilità di andare a scuola, ma sempre meno il futuro sociale di ciascuno è determinato dal titolo di studio che consegue, arretrato a prerequisito.
Se il ritorno alla serietà della scuola dovesse quindi essere inteso come ritorno alla scuola del passato, la cosa sarebbe dunque immediatamente non seria, perché la scuola oggi non può promettere a nessuno quel destino sociale di cui un tempo deteneva effettivamente la chiave d’accesso. Un ruolo di questo tipo può essere svolto dai master postuniversitari, per lo più all’estero, che quindi comportano un grande investimento sia in termini economici sia d’impegno personale.

Siccome dunque tutto ciò non vale più, il ritorno a una scuola seria presuppone il tentativo di rispondere a una domanda: qual è oggi la funzione della scuola?
Un tale tentativo è in qualche modo implicito in tutto un complesso e talora confuso percorso compiuto nei decenni scorsi che oggi viene rigettato come non serio, ma si sa il rischio è spesso di gettare il bambino con l’acqua sporca. Un percorso costituito in anni recenti da tutta una miriade di progetti classificati in ambiti come l’educazione alla salute, agio-disagio, sportelli vari ecc, oggi ripreso in termini di educazione alla cittadinanza. Alla base di tutto ciò è evidente la percezione che la scuola di massa, nel contesto della società attuale, è investita di compiti innanzitutto educativi, dove l’aspetto dell’istruzione, pur continuando ad essere centrale, non va coordinato con una precisa meta sociale, ma con una formazione più generale della persona. La costruzione di una scuola seria, obbiettivo di per sé condivisibile da chiunque, non può prescindere da questo fatto.
In questo seminario, noi ci confrontiamo con due aspetti di tale impegno: da un lato cercheremo di porre premesse teoriche, dall’altro di prospettare percorsi pratici. In quello che dirò mi occuperò soprattutto del primo aspetto, mentre in momenti successivi si affronterà il secondo.

Nel testo che ho citato all’inizio, La pragmatica della comunicazione umana, si sostiene che non solo noi comunichiamo sempre, ma anche che comunichiamo a diversi livelli, cioè non comunichiamo solo in termini di contenuti, ma anche in termini di relazioni; anzi è questo secondo piano a definire la validità del primo. Se vengo riconosciuto come un mentitore, non si darà più valore a quel che dico. Nella saggezza di tutti i popoli troviamo che importante è quello che si fa più che quello che si dice. Si può dire che la relazione è sovraordinata al contenuto, cioè lo classifica.
La relazione a sua volta è subordinata al contesto in cui si svolge, che ne determina le caratteristiche. Se sto male e vado dal medico, non è per discutere della sua professione, ma per affidarmi alle sue cure: ho bisogno del suo aiuto per ritrovare la mia salute. Se in un altro momento prendiamo insieme il caffè o discutiamo sul valore della medicina allopatica, ci troveremo in un’altra relazione, definita da un altro contesto.
Si può dire che molti problemi, non solo nella scuola, nascono da un duplice errore: quello di non intendere correttamente il rapporto tra contenuto e relazione impliciti in un messaggio e quello di consentire uno slittamento di contesto, cioè la fuoriuscita del messaggio dal contesto nel quale è appropriata la sua circolazione.

Voglio fare un esempio in cui entrambi questi errori sono ben evidenti. In anni recenti, emergendo alla ribalta la questione del disagio delle giovani generazioni, disagio le cui ragioni sono in buona misura connesse a ciò che prima ho indicato, cioè che i ragazzi sono stati scolarizzati in massa, ma la scuola è diventata un contenitore di cui non si percepisce il senso, si è pensato di promuovere tutta una prevenzione attraverso attività spesso meritevoli di lode, ma che hanno il difetto di essere classificate da una parola sbagliata e usata nel contesto sbagliato. L’espressione prevenzione del disagio, o anche promozione dell’agio, presentata goffamente ai ragazzi, ottiene involontariamente l’effetto di incrementare in loro quell’insicurezza che si vuole soccorrere. Un ragazzo con le normali difficoltà della sua età innanzitutto impara, e per la sua condizione di dipendenza non può ignorare la definizione degli adulti, che ci si aspetta che stia male. In secondo luogo impara in generale a dipendere intimamente dall’istituzione. In terzo luogo può sviluppare l’arte dell’approfittare. Meglio senz’altro la prassi del vecchio oratorio, dove si ascoltavano i ragazzi e se ne convogliavano pragmaticamente le difficoltà in attività in cui trovare soddisfazione e quindi fiducia in sé.
Se è consentito dunque un bilancio critico di questi decenni di scuola italiana, mi si lasci dire che spesso si è confuso il piano del contenuto con quello della relazione, né si è rispettata la scansione dei contesti: se i ragazzi sono maleducati non si risolve infatti la questione istituendo per loro un corso di pedagogia, né avviando un progetto di prevenzione della maleducazione, ma semplicemente educandoli, perché l’educazione è un fatto in minima parte di contenuto e in massima parte di relazione.
Si educa non tanto con quello che si dice, ma innanzitutto per come si è e per come ci si pone nel rapporto. Si veicolano sempre comunque valori, o negazione di valori. Mi sento di dire che sotto questo aspetto la relazione educativa è inscindibile dalla qualità morale della persona. Aggiungo che, se si vuole un buon cittadino, non lo si otterrà attraverso l’introduzione di una materia denominata cittadinanza, ma attraverso quello che gli adulti sapranno trasmettere in termini di correttezza personale, rispetto delle regole, valori profondi.
Attenzione all’eccesiva enfasi che nella nostra cultura è attribuita al piano della consapevolezza, perché qualsiasi psicologia potrà dire, e dice da sempre, che le azioni e gli orientamenti profondi degli individui sono dettati da moventi che vanno al di là della consapevolezza, e anche della ragionevolezza. Il buon esito di un rapporto educativo non è dato dal bagaglio di consapevolezze acquisite, ma dalla struttura profonda della personalità che è venuta maturando. Qualcuno forse dirà che questo non può essere interamente compito della scuola, e io sono più che d’accordo con lui, ma indubbiamente la scuola deve fare la sua parte e non è colpa nostra se in questo momento storico si riscontra la fragilità del contesto familiare e lo sfaldamento dei tessuti sociali. Chi se ne avvede deve tenere salda tutta la sua responsabilità, ma certo nel suo ambito.

Un altro esempio: negli anni scorsi ha avuto ampia circolazione nella scuola il messaggio che la relazione didattica dovesse essere interessante e significativa per i ragazzi. Tale messaggio in termini di contenuto era sicuramente corretto, ma, poiché circolava nei contesti sbagliati, sul piano della relazione determinava un effetto devastante: veniva preso come un invito a che gli studenti e le famiglie giudicassero l’operato e la persona stessa degli insegnanti.
Non si è analizzato a sufficienza quanto messaggi di questo tipo abbiano contribuito a destrutturare la relazione tra insegnante e allievo, cioè la fiducia che deve essere alla base di tale rapporto al di là delle circostanze specifiche che lo caratterizzano. Un allievo può avere un rapporto più o meno felice con questo o quell’insegnante, ma non deve metterne in dubbio il ruolo, se non per motivi gravissimi.
Ciò spiega in una certa misura perché oggi tali messaggi tendano ad essere accantonati in nome di un ristabilimento del ruolo che tutti a qualche livello avvertono come necessario. Il problema però è che anche qui si rischia di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Davvero gli insegnanti devono essere in grado di proporre un rapporto interessante e significativo: non dicendolo agli studenti, in modo che questi lo possano pretendere come un diritto, ma instaurandolo nei fatti, come ciò che scaturisce dal nucleo più profondo della loro professione. Una pura e semplice restaurazione della routine scolastica può anche ottenere risultati positivi nell’immediato, in quanto ristabilisce ruoli che si stavano pericolosamente confondendo, ma non riesce a riabilitarli propriamente, anche perché ne ignora la natura.

Voglio ora chiarire questo punto, facendo ancora una volta ricorso alla La pragmatica della comunicazione umana.
In quel testo si afferma che la comunicazione intersoggettiva definisce di volta in volta relazioni diverse che si distinguono in due tipi: simmetriche, in cui i comunicanti si pongono sullo stesso piano, cioè contribuiscono a pari titolo a definire la relazione stessa, e complementari, in cui i comunicanti hanno invece ruolo diversi, vale a dire qualcuno ha il potere e la responsabilità di definire la relazione e qualcun altro accetta le definizione data. Per semplicità parlerò qui di relazioni paritarie e di relazione non paritarie, senza attribuire a tali espressioni un giudizio di valore, ma in termini puramente descrittivi.
Voglio sottolineare che il potere è una situazione di fatto, inerisce al ruolo nella relazione, non dipende dall’arbitrio. Ciò che dipende dalla decisione personale è l’uso che se ne vuol fare, ed è qui che si gioca il correlato soggettivo del potere: la responsabilità. Il sospetto culturale che si è diffuso nei confronti del potere porta spesso alla sua rimozione, con la fatale conseguenza di agire in modo incontrollato, senza assumerne la responsabilità che è il vero carico personale che nessun atto di volontà può annullare.

Noi tutti nella nostra vita quotidiana oscilliamo dunque continuamente tra relazioni paritarie e non paritarie. Ad esempio, se io chiedo per strada un’informazione, non sono in quel momento sullo stesso piano di chi mi risponde, perché gli riconosco il potere e la responsabilità di fornirmi la risposta che mi serve, quindi in quel momento dipendo da lui. Addirittura a scuola, quando interrogo, mi trovo per un momento a dipendere dalla risposta che darà o non darà l’allievo. Naturalmente nell’istante successivo, in sede di valutazione, i ruoli si capovolgeranno.
Si capisce abbastanza chiaramente che, al di là delle oscillazioni continue della vita quotidiana, ci sono alcune relazioni che si presentano stabilmente caratterizzate. Ad esempio le relazioni tra amici, compagni e colleghi sono per loro natura di tipo paritario, mentre non lo sono le relazioni tra figli e genitori, insegnanti e allievi, medici e pazienti. In questi casi infatti, c’è qualcuno che ha bisogno dell’aiuto di qualcun altro, e quest’ultimo ha la responsabilità di definire i termini e le modalità in cui tale aiuto potrà essere fornito. Non avrebbe senso che il paziente pretendesse di discutere la diagnosi o la terapia fornitagli dal medico: potrà certamente revocare la sua fiducia a un certo medico e cercarne un altro e in ogni caso attendere il giorno in cui, guarito, non avrà più bisogno di alcun medico: le persone entrano ed escono dai ruoli, ma i ruoli restano. Aggiungiamo che il buon medico è colui che aiuta efficacemente il suo paziente a non più aver bisogno di lui. Così l’insegnante, così il genitore.
Pur nella diversità qualitativa di queste relazioni, c’è qualcosa di chiaramente comune: si tratta infatti di strutture dinamiche, le quali accompagnano e sorreggono un percorso che va da una condizione di dipendenza a una di autonomia. A rigore anche quando domando l’informazione, nel momento in cui ricevo la risposta, non ho più bisogno di chi me la fornisce. Sono divenuto autonomo. Questa è l’essenza della relazione complementare, non paritaria.

Il fatto che nella nostra cultura vi sia una radicata resistenza nella considerazione delle relazioni non paritarie, e anche del concetto che vi è implicito, quello di autorità, nasce da un grave equivoco: si scambia per natura delle cose ciò che ne è una degenerazione, per esempio si confonde l’autorità con l’autoritarismo, che è l’irrigidimento in vista della conservazione del ruolo, in cui si cronicizza il rapporto di dipendenza. Come un medico che deliberatamente mantenga il suo paziente malato per continuare a trarne vantaggio.
La funzione delle relazioni non paritarie non è di perpetuare se stesse, ma di consentire l’autonomia, e così l’autorità non è ciò che schiaccia, ma ciò che (etimologicamente da augeo) fa crescere. Vedendo le cose con rigore, le relazioni non paritarie sono per loro natura dinamiche, promuovono cioè il mutamento dei ruoli, a differenza di quelle paritarie, che sono invece statiche e decadono facilmente nella conflittualità o nell’indifferenza.

La grave crisi giovanile odierna si può dire che sia legata a due gravi errori culturali, apparentemente opposti ma profondamente solidali.
Il primo è quello di negare la realtà e la funzione delle relazioni non paritarie, lasciando intendere che si tratti di un male che una maggior democrazia nei rapporti potrà curare. Ma è come dire che delle due gambe, solo una è buona e con quella bisogna camminare. Abbiamo così avuto tutta una generazione di adulti che ha abdicato al suo ruolo, rappresentandosi di dover essere in termini di amicizia coi propri figli o allievi. I risultati sono catastrofici: una generazione di figli e allievi sta crescendo senza guida stabile che metastrutturi la loro comunicazione col mondo e con cui successivamente potersi confrontare. Ci sentiamo di dire che sarebbe meno peggio una guida con valori sbagliati, i quali, come contenuti, si possono poi ancora correggere, che non una pretesa non educazione, la quale viola il principio fondamentale del prendersi cura della prole, in corpo e in spirito; che inoltre introduce una comunicazione paradossale, e dunque patogena, proprio nella misura in cui si pretende di lasciare libero colui che nei fatti e per la natura stessa delle cose dipende da noi.
Questo primo errore è talmente grave e variamente ramificato nel nostro orizzonte culturale che richiede di essere elaborato in profondità con coraggio e senza censure. Non si può più, ad esempio, tacere sugli effetti disastrosi di una cultura dei diritti non fondata sui doveri. Tale stortura si trova alla base tanto di esperienze totalitarie, quanto di molte degenerazioni dell’individualismo odierno.

Il secondo errore discende in realtà dalla stessa demonizzazione dell’autorità da cui discende il primo. Rimossa ideologicamente rispetto al suo senso originario di veicolare ideali e valori, l’autorità è rimasta come situazione di fatto nell’amministrazione burocratica dello stato moderno; pur nel variare delle congiunture storiche e ideologiche, tale organizzazione richiede infatti per sua natura obbedienza da parte della popolazione, e si esprime in ogni articolazione dell’apparato statale. Anche noi insegnanti siamo rivestiti di autorità per il fatto stesso di essere funzionari dello stato dotati di un certo potere.
La nostra tentazione, come di qualunque funzionario, è dunque non da oggi di contentarci di questo bieco dato di fatto, dimenticando l’essenziale: che l’autorità è responsabilità, sotto un qualche aspetto, degli altri. L’autorità non è tale perché ha la forza, ma ha forza perché si assume la responsabilità, come si diceva, di veicolare ideali e valori. In buona parte purtroppo invece trasmettiamo ai nostri allievi la richiesta di un’obbedienza anonima a un’autorità priva di autorevolezza, che, a prescindere dalle intenzioni dei singoli, inevitabilmente degenera in autoritarismo.
Veramente autorevole è la relazione educativa quando fornisce agli allievi autentico alimento per la loro crescita. Oggi, in particolare, un insegnante non può essere indifferente al deserto valoriale in cui spesso i suoi allievi vivono, e ancor di più non può essere indifferente alla povertà esperienziale di chi sovente quale rapporto con il mondo ha la televisione, internet e i videogiochi. Non possiamo permetterci di coltivare una vita scolastica banale, che sia a rimorchio della banalità della vita sociale: quel che c’è nel cuore dei nostri ragazzi merita ben altro.

Cos’è infatti la scuola nella sua essenza? Non è certo l’edificio, l’organizzazione, né l’apparato, non è la somma del personale, le strutture, né i suoi dirigenti, non è la gerarchia, non è la burocrazia, non è i progetti, non è la teoria: tutto questo è imballaggio storico, talvolta faticosissima soma. No, nulla di tutto questo: la scuola è in verità la pura relazione del maestro col discepolo, la relazione docente-discente. Che gli insegnanti tornino a rendersene conto, che le autorità a loro preposte riconoscano, proteggano e custodiscano questa verità essenziale, questo è serio.

 

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