Procreazione artificiale: motivazioni psicologiche e problemi vari

Scritto da Giovanni Galuppi.

1 - Premessa.

 

donnaIl tempo in cui viviamo è di grandi e rapidi cambiamenti. Essi investono ogni sfera della vita individuale e collettiva. Si è sospinti a tumultuosi e repentini riadattamenti da condizioni politiche, economiche, etno-culturali e sociali che mutano assai più velocemente di quanto si possa accettare senza soffrire. È certo che una delle cause dell’ansia endemica che caratterizza la società moderna, ed anche di molte componenti della sua molteplice e variegata conflittualità, risiede proprio nel concitato incalzare delle sue trasformazioni.

L’uomo ha un’organizzazione biopsichica che, nel corso della filogenesi, si è costituita non soltanto per far fronte all’ambiente, ma anche ai suoi mutamenti, i quali, in effetti, si succedono da millenni. Tuttavia, fino all’avvento della scienza moderna e dell’era industriale, quasi sempre essi sono avvenuti, anche per l’ambiente più specificamente antropo-culturale, in tempi che potremmo definire naturali. Cioè caratterizzati da ampiezze in qualche modo compatibili con la struttura psichica e biologica dell’uomo così come s’è venuta formando nel corso della sua evoluzione, malgrado assai spesso tali cambiamenti siano stati tempestosi. Infatti, si può affermare che fasi di equilibrio e di ricerca dell’equilibrio, sia pure in vario modo, si sono avvicendate nella storia delle società e dell’anima collettiva. Per contro, con l’inizio dell’era contemporanea e soprattutto neocontemporanea, quella dell’industrialismo avanzato e dell’interdipendenza globale, per cui tutti in qualche modo dipendono da tutti, l’evoluzione dell’ambiente fisico, sociale e culturale in cui si muovono gli individui si caratterizza per un moto progressivamente accelerato, sì che, eclissatosi dall’odierna civiltà l’equilibrio, si protrae in modo indeterminabile ed affannoso la ricerca dell’equilibrio.

Lo sfasamento tra le possibilità biopsichiche di riadattamento degli individui, quelle consentite loro, per così dire, dalla dotazione biogenetica fissata dalla filogenesi, ed i cambiamenti ambientali, diviene perciò sempre più evidente. Chi obiettasse che la storia mostra come l’uomo abbia sempre evidenziato amplissime capacità di riadattamento, anche alle circostanze più estreme, sarebbe nel giusto. Ma non dovrebbe tacere delle sofferenze altrettanto gravi cui si è esposti quando tale riadattamento travalica anche i limiti delle possibilità di riorganizzazione mentale degli individui, soprattutto perchè, insieme ai continui cambiamenti ambientali, viene loro imposto come abituale costume di vita e non più come sforzo soltanto temporaneo e contingente.

Da sempre v’è stata contrapposizione tra progresso e conservazione, termini assai ambigui perché grossolanamente riduttivi, e perciò non meno semplificatori che mistificanti. Non di rado, ad esempio, la collettività, irrimediabilmente ingenua e massificata, impossibilitata a coglierne tutti gli effetti, percepisce il cambiamento come sinonimo di progresso, considerando segno di arretratezza ogni desiderio di conservazione. Ma attualmente assistiamo all’emergere di una mutazione genetica di natura maligna di tale atteggiamento. La definirei progressismo. Una compulsione quasi maniacale a desiderare il cambiamento soprattutto per se stesso, anche quando un serio esame di realtà non lo giustifica ed anzi lo sconsiglia, nell’ossessione che mutare è meglio e conservare è peggio. Veniamo tutti sospinti ad essere cupidi rerum novarum come lo fu Catilina, ma non solo per l’assetto politico come fu per lui, bensì per ogni aspetto dell’esistenza. In tale atteggiamento, spesso fatto proprio dai politici con leggerezza pari ai miopi calcoli elettorali da cui sono dominati, v’è una pregiudiziale ostilità verso le tradizioni e l’attaccamento alla propria cultura come tali, ed un’ottusa reticenza ad accettare il fatto ch’esse rappresentano pur sempre il frutto dell’esperienza e della creatività delle generazioni, sì da averne costituito l’habitat antropologico. Esperienza e creatività che faticosamente hanno maturato i compromessi più utili tra contrapposte esigenze, i quali meriterebbero meditazioni meno frettolose prima di essere accantonati. Non v’è dubbio che sia questa una forma di follia, individuale non meno che sociale, e tanto più perniciosa in quanto facilmente propagabile per il timore dei più, alieni dall’affaticare troppo il proprio spirito critico, di essere bollati come reazionari.

La cronica inquietudine del progressismo fa parte ormai dello spirito del tempo. Le ragioni di ciò sono molteplici e troppo complesse perchè possano essere considerate in questo scritto. Mi limiterò a dire che non vi sono estranei gli elementi deteriori dell’industrialismo, con le loro conseguenze più nefaste che sono il consumo ed il profitto elevati a scopi supremi della vita. Che vi ha un ruolo l’affluire tempestoso ed incontrollato, tutt’altro che indolore e privo di conflitti, di ingenti masse di immigrati culturalmente eterogenei. Che vi dà un contributo determinante l’appiattimento generale su un esasperato ed edonistico individualismo.

Chi sappia superare le mistificazioni delle ideologie di moda, non tarda ad accorgersi che il progressismo, privando gli individui delle loro radici, ha assai indebolito, insieme al significato della vita, ogni sistema di valori morali e di controlli sociali, ed insieme a questi la coesione e la sicurezza della convivenza collettiva.

Inoltre, un vistoso ingrediente del progressismo è l’ipertrofico estendersi dei diritti individuali che non è compensato da un equivalente rafforzamento dei doveri, né da una vera integrazione sociale, sì che, paradossalmente, se ne è svantaggiata l’effettiva tutela della persona. Perciò la sua mercificazione, la conflittualità, l’insicurezza e la criminalità nella nostra società non sono affatto diminuite, bensì aumentate.

Infatti, diversamente da quanto avviene nel resto del mondo dove esiste un problema di segno opposto, si potrebbe affermare che la nostra civiltà, in Occidente, è anche quella della più indulgente considerazione per le più diverse pretese dei singoli. Forse potremmo definire questo atteggiamento come individualismo indulgenziale. Se ci dessimo la pena di quantificare le manifestazioni di ogni tipo degli ultimi dieci anni, intese ad affermare o consolidare come diritti le più disparate richieste di individui, gruppi e corporazioni più o meno organizzati e di ogni provenienza, ne caveremmo l’impressione di una visione della convivenza sociale, da parte dei più, come fonte di diritti assai più che di doveri. Gli è che risulta attualmente ben poco chiaro -ai singoli come alle istituzioni politiche- che la moltiplicazione dei diritti trova un limite insuperabile nell’effettiva possibilità di far fronte ai relativi doveri da parte di chi sia tenuto a farlo, e di sopportarne le conseguenze da parte di chi non soltanto non ne sia avvantaggiato, bensì danneggiato. Il risultato di tale miopia è duplice. O i diritti restano solo formali, vuoti di reale sostanza, ed in ultima analisi un semplice atto di demagogia; oppure, quando riescano ad essere effettivi, comprimeranno quelli di altri, anche i più fondamentali, suscitando sofferenza e conflitti sociali.

Gli effetti del progressismo e dell’individualismo indulgenziale non potevano risparmiare la delicata sfera della procreazione, nella quale sono oggi possibili interventi tali da stravolgere ogni paradigma di riferimento in base al quale fin qui è stata vissuta e governata. Si ritiene anche in quest’ambito di poter introdurre radicali innovazioni, trascurando quel che al riguardo secoli di storia e millenni di evoluzione biologica hanno codificato nella psiche umana.

Il presente lavoro tratta delle prospettive della procreazione artificiale, e si avvale del contributo di alcuni esperti dell’ITP che ne discutono i relativi problemi: ognuno di loro in base alla propria competenza. Insieme a Galuppi, Canova, Bal, Oddone e Carpignano, vi ha collaborato il giudice Luciano Grasso che, tuttavia, non fa parte dell’ITP.

2 – Interesse dei minori e degli adulti.

Naturalmente anche i diritti dei minori hanno ricevuto la più grande attenzione. Si potrebbe anzi dire che mai come negli ultimi anni ci si è resi conto, anche da parte di ambienti diversi da quelli tradizionalmente solleciti verso bambini e ragazzi, di quanto l’individuo durante l’età evolutiva sia vulnerabile e bisognoso di tutela, e di quanto dipenda la salute psichica dell’adulto da un’infanzia ed adolescenza serene. Questa illuminata consapevolezza ha prodotto un concreto impegno del legislatore a favore dei minori come tali, sì che sembrerebbe tramontata definitivamente la sua disattenzione nei loro riguardi, protrattasi assai a lungo anche in epoca moderna, malgrado già il Beccaria scrivesse che il destino di un individuo si decide soprattutto nell’infanzia e: “…nelle domestiche mura dove sta gran parte della felicità e della miseria degli uomini”.(1)

Tuttavia persiste una contraddizione: il rispetto dei più fondamentali diritti dei minori non è conciliabile -oggi non meno di ieri- con molte pretese degli adulti. Anzi ne implica un ridimensionamento a vantaggio dei loro doveri. Se ciò non viene contestato sul piano formale, un disincantato esame dei fatti ci disillude rapidamente sull’effettiva accettazione di questa fondamentale verità. Infatti, non è difficile scorgere nella nostra vita sociale, quando si tratta di conflitto tra interesse dei minori e degli adulti, l’emergere od il riemergere di una prevalenza del secondo. Per l’appunto ciò può avvenire anche riguardo alla procreazione artificiale.

Essa è oggetto di una irritabile attenzione collettiva perché tocca bisogni affettivi viscerali. Bisogni che, essendo in grado di mobilitare nella gente reazioni emotive intense e profonde, suscitano l’interessata sollecitudine dei politici.

L’attenzione molto diffusa alla procreazione artificiale ha una spiegazione fondamentale, che è il dilagare nel nostro paese della sterilità. Non è il caso ch’io mi dilunghi a fornire cifre e statistiche: mi limiterò a dire che il nostro tasso di riproduzione da anni non supera il coefficiente di 1,8. Esso è perciò insufficiente anche solo ad eguagliare numericamente la coppia di genitori da parte dei figli. Le ragioni di ciò sono complesse e molteplici, per cui classificherei la sterilità in due tipi: sociale e biologica.

La sterilità sociale è legata a fattori culturali ed economici. In molti ambienti ci si sposa alquanto più tardi del passato, e quindi con minori possibilità di fertilità. Ci si limita frequentemente alla convivenza badando a non complicarla coi figli. Ci si separa e ci si invischia in legami precari e tumultuosi che non incoraggiano affatto ad averne. Non di rado li si considera un ostacolo alla carriera o semplicemente un impegno economico gravoso da rinviare a tempi migliori.

Quanto alla sterilità più propriamente biologica, sia maschile che femminile, essa è in progressivo aumento, e le sue cause restano per ora abbastanza misteriose, anche se appare evidente che va collegata, in qualche modo, a molti aspetti dello stile di vita occidentale. Almeno pragmaticamente, appare inoltre lecito affermare che vi contribuiscono anche fattori di natura psicogena.

In ogni caso, anche se più tardi di quanto generalmente avvenisse in passato, prima o poi giunge il momento in cui da parte di molti si desiderano dei figli, sì che scoprire di non poterne avere apre quasi sempre un periodo assai difficile nella vita individuale e di coppia. Spesso la frustrazione del bisogno di prole diviene progressivamente insopportabile. E’ pur vero che talora si cerca di porvi qualche rimedio munendosi di cani e gatti, ma per quanto li si tratti come esseri umani, questi si ostinano a restare animali, perciò il desiderio di un figlio può trasformarsi in una vera ossessione.

Un fatto decisamente nuovo, almeno nella misura in cui viene apertamente manifestato, è che l’ossessione in questione coglie anche molti singoli e perfino numerose coppie di omosessuali. Ciò fa sì che a livello politico se ne colgano i possibili vantaggi elettorali, ragion per cui galleggiano in Parlamento alcuni progetti di legge perché venga consentita anche a costoro la procreazione artificiale come già capita in altri paesi.

Aggiungerò del tutto incidentalmente che su tale ossessione si sono costituiti ed hanno prosperato ingenti interessi economici e corporativi. Basti dire che sono stati censiti finora in Italia almeno 258 centri medici in cui si pratica la procreazione artificiale, quasi sempre senza fornire esaurienti e realistiche informazioni ai propri fiduciosi postulanti.

Proprio a questo riguardo bisogna sottolineare una rigorosa necessità, del resto già recepita dal progetto di legge sulla materia allo studio del Senato. Che si renda obbligatorio informare in modo scrupoloso chi si rivolge alla procreazione artificiale sulle sue effettive possibilità di successo, ed anche sui rischi che comporta. Ciò andrà fatto in modo documentato e controllabile. Si tratta di una delle misure necessarie per contrastare in qualche modo le finalità mercantilistiche, neppur troppo dissimulate, con cui ora viene gestita.

Nel presentare i rischi non si debbono menzionare soltanto quelli inerenti alla salute fisica, bensì anche a quella psichica. Infatti, è assolutamente probabile che le delusioni che conseguono al fallimento di reiterati tentativi di procreazione mediante gli artifizi medici, od anche agli aborti in cui possono esitare le gravidanze che pur si riesca ad iniziare, finiscano per far precipitare gravi reazioni depressive. E’ anche possibile che gli insuccessi in questione, innescando conflitti nella coppia, magari già latenti, la sospingano alla disgregazione.

3 – Le basi di una personalità sana nei minori.

 

Animato come sono da qualche diffidenza verso le astrattezze di molti giuristi, gli idealismi interessati dei politici ed il generoso spirito di accomodamento di tanti psicologi e moralisti, prima di entrare nel merito delle implicazioni psicologiche più problematiche della procreazione artificiale, mi sento costretto ad esporre delle banalità relative alle condizioni, senza le quali risulta improbabile l’organizzazione di una personalità psichicamente sana. Tali condizioni configurano certamente i diritti basilari di ogni minore, sui quali non ho alcun dubbio che tutti, formalmente, concorderebbero. Ma, ancora una volta, come vedremo, tale accordo viene smentito dai fatti, perché i diritti in questione confliggono con la pretesa degli adulti di avere un figlio ad ogni costo.

Le scienze umane sono unanimi nell’assegnare un ruolo tanto più determinante all’ambiente quanto più è tenera l’età del bambino. In particolare la psicologia dell’età evolutiva, la neuropsicologia, l’antropologia comparata ed indirettamente perfino l’etologia concorrono ad attribuire un’importanza decisiva agli adulti che si occupano di lui nelle prime fasi della vita. Egli ha bisogno di loro non soltanto per essere nutrito, assistito e protetto, ma anche per porre le basi della propria salute mentale. In altre parole sono i genitori che, interagendo col figlio, ne condizionano l’organizzazione psicoaffettiva. Più specificamente, dipende dall’adeguatezza qualitativa, quantitativa e cronologica degli stimoli che riceve da ciascuno dei due, se egli nel quadro di quanto gli è consentito dalla sua dotazione genetica, differenzia, articola e consolida progressivamente i livelli funzionali della sua struttura neuropsichica.

Padre e madre sono ambedue indispensabili perché hanno influenze molteplici, importanti e ben caratterizzate nell’organizzare la mente del bambino. Se in qualche misura sono intercambiabili nella loro azione psicologicamente formatrice, non sono però mai in grado di sostituirsi perfettamente l’un l’altro. Infatti, per orientare correttamente molti importanti segmenti del processo evolutivo dei figli è indispensabile il padre, per altri la madre. Ad esempio, per quelli programmati nell’ontogenesi da cui dipendono una armonica integrazione delle proprie componenti maschile e femminile, ed il consolidamento della propria identità  sessuale. Il che è necessario per costituire, successivamente, una personalità priva di perversioni o conflitti eccessivi col proprio sesso o con quello opposto.

I due diversi modelli di identificazione, costituiti da padre e madre, non sono meno necessari ai figli per apprendere ed interpretare i comportamenti fondamentali che caratterizzano i due sessi nell’ambiente culturale di appartenenza, soprattutto nei rapporti affettivi. Un adeguato orientamento nelle relazioni interpersonali, che il procedere dell’età renderà sempre più complesse e meno immediatamente decodificabili, dipende, inoltre, da come la famiglia è riuscita a caratterizzare al suo interno, con equilibrio e coerenza, il ruolo dei suoi membri. Senza voler considerare i casi di aperta perversione incestuosa, è indispensabile che padre e madre abbiano verso i figli sentimenti solo paterni e materni, e non facciano ricadere su di loro, neppure subliminalmente, eventuali bisogni affettivi nevrotici.

Vale la pena di aggiungere che la coppia di genitori deve essere stabile, risultando confusivi e quindi disorganizzanti modelli di riferimento mutevoli e contraddittori.

Infine, la cura della prole e la sua iniziazione alla vita sono affidate, presso quasi tutte le specie viventi più elevate, alla coppia di genitori. È legittimo pensare che anche per l’uomo siano filogeneticamente programmati bisogni in questo senso. Ignorarlo, sia pure invocando motivazioni moralistiche o filantropiche, oppure accampando sofismi giuridici, significa ritenere, in tema di affetti, di poter radicalmente contrastare la natura con la cultura. Ma ciò condurrebbe, come sempre avviene in questi casi, alle più amare delusioni.

Insomma, appare evidente che il diritto di chi nasce ad avere ragionevoli opportunità di sviluppare una personalità sana, è legato alle condizioni fondamentali esposte che costituiscono un vero e proprio paradigma di riferimento. Se tali condizioni vengono meno, il diritto in questione per quanto venga proclamato, nei fatti non è rispettato.

Ciò premesso, non posso evitare di confessare che mi domando spesso -assai ingenuamente, ne convengo- perché, quando si tratti di legiferare su qualsiasi problema, si sia soliti raccogliere preventivamente a mezzo di esperti le informazioni necessarie, ma ciò non avvenga che assai malamente se sono allo studio norme che avranno pesanti contraccolpi sull’evoluzione psicologica di esseri umani. Parrebbe davvero che, rispetto a questa, per i nostri politici siano più importanti -che so- i problemi della produzione del latte o delle automobili. Infatti, benché sia stata costituita da tempo, ad esempio, una commissione bioetica per la procreazione artificiale, non mi risulta che ne esista una che possa illuminare il legislatore sui pregiudizi per la salute mentale di chi nasca in forza degli artifizi medici oggi possibili, per trovarsi poi in balia delle situazioni strane che potrebbero conseguirne.

4 – Compatibilità della procreazione artificiale con lo sviluppo di una personalità sana. 

Vorrei ora esaminare quali debbano essere i limiti nel consentirne l’applicazione, e quale sia la compatibilità delle varie tecniche di procreazione artificiale con le condizioni necessarie al minore per crescere psicologicamente sano. Vale a dire che si deve considerare quando e quali delle varie modalità di procreazione artificiale contrastino col paradigma di riferimento psicologico che ho delineato.

Io credo, innanzitutto, che gli artifizi medicalmente procreativi debbano essere accessibili esclusivamente alle coppie sposate. Infatti, una lineare evoluzione psicoaffettiva della prole dipende anche, come ho detto, dalla presenza di una coppia parentale, ed inoltre dalla sua stabilità. L’obiezione che occorra estendere l’accesso alla procreazione artificiale anche alle coppie solo conviventi, perché rispetto a quelle sposate sono sempre più numerose, non mi sembra pertinente. Implicitamente sarebbe come dire che, se le capanne divenissero assai numerose rispetto alle case in muratura, sarebbero solide quanto queste. È vero invece che l’instabilità, in grande aumento, riguarda sia le convivenze che i matrimoni. Tuttavia, in attesa di eventuali smentite che provengano da studi statistici comparativi sulla stabilità dei matrimoni e delle convivenze -studi che per ora non esistono- è logico pensare che chi si sposa, in generale, sia più incline a considerare definitivo il rapporto di coppia di quanto non capiti a chi si limita a convivere. Sicché ci sentiamo autorizzati a ritenere che, se sopravviene il terremoto, la casa in muratura resista meglio della capanna, almeno alle sue scosse meno forti.

Credo altresì che la fecondazione eterologa, in base al paradigma di riferimento di cui ho detto, rappresenti un rischio inaccettabile per l’eventuale nascituro. Bisogna sempre temere al riguardo che il marito abbia, prima o poi, anche in modo inconscio, fantasie di concepimento adulterino da parte della moglie che potrebbero  raffreddarlo verso di lei, ed alienarlo alquanto da ogni sollecitudine genuinamente paterna. Inoltre, bisognerebbe temere quei sentimenti di delusione e di freddezza affettiva che potrebbero verificarsi se e quando il figlio si manifesti lontano dalle aspettative dei coniugi. Ciò potrebbe tramutarsi, da parte di ambedue, in sentimenti di estraneità, ed anche di ostilità, nei confronti di chi verrebbe avvertito troppo diverso dai propri modelli di riferimento, per essere accettato come figlio. È già avvenuto che in circostanze siffatte siano state iniziate cause di disconoscimento di paternità.

Che dire poi degli uteri in prestito, della procreazione artificiale concessa ai singoli e magari ad omosessuali, del commercio dei propri ovuli da parte di donne particolarmente dotate, o di banche del seme di uomini che lo siano altrettanto? Che pensare delle vedove che vorrebbero farsi impiantare embrioni, a suo tempo congelati, il cui sfortunato ma lungimirante padre è già defunto? Si tratta di aberrazioni che, ancor prima di escludere radicalmente il diritto del nuovo nato a crescere in base al paradigma fondamentale che ho descritto, lo condannano, ab origine, a situazioni esistenziali infelici o tanto strane da renderne imprevedibili le conseguenze.

Se tutte le possibilità della procreazione artificiale fossero rese praticabili ed estese a chiunque ne faccia richiesta, dovremmo adattarci a vedere moltiplicarsi gli individui con due madri, di cui una magari anziana come una nonna, oppure particolarmente dotata, ma semplice donatrice di ovuli a quella legittima, affinché questa possa compiacersi della prole più che se fosse propria del tutto. Analogamente potrebbe essere per molti individui il cui padre effettivo figurerebbe soltanto tra i donatori di una banca del seme. Bisognerebbe inoltre rassegnarsi alla moltiplicazione degli orfani di padre o di madre già dalla nascita. Oppure di individui con tre genitori: due dello stesso sesso di cui uno effettivo ed uno putativo, ed un terzo, indeterminabile, del sesso opposto. E così via. Sarebbe teoricamente possibile, e già se ne parla, da parte delle coppie che non vogliono sobbarcarsi le seccature della gravidanza, produrre un embrione in vitro, lasciando poi ad una estranea, una sorta di incubatrice biologica, opportunamente compensata, il compito della gestazione e del parto. Ognuno può immaginare quali complicazioni affettive, etiche e giuridiche nascerebbero da tutto ciò, e quanto ne soffrirebbe la salute mentale della nostra società che certo già ora non è ottima. Si può altresì immaginare, quanto ne risulterebbe indebolita la resistenza generale alle ulteriori aberrazioni dell’ingegneria genetica, che presto sarà in grado di modificare il genotipo dei figli in base alle richieste dei genitori, e clonare gli individui come è avvenuto per le pecore.

6 – Il deterioramento della famiglia.

 

In verità mi pare che molte delle pretese che si sono venute organizzando intorno alla procreazione artificiale, e che premono per divenire diritti, facciano parte di un processo di deterioramento sociale. In particolare, nel quadro di quanto ho già detto al riguardo, vi individuerei uno dei molti aspetti del deterioramento della famiglia. Nella prospettiva generale, inconsciamente forse ancor più che in modo consapevole, essa è ora percepita più come un mezzo che un fine. Vale a dire che deve adattarsi alle esigenze individuali più che il contrario, sì che si preme da ogni parte -in una visione più progressista della famiglia- a che si ammorbidiscano per uomini e donne gli oneri e le responsabilità che vi sono connessi, spostandoli progressivamente su istituzioni di ogni genere a ciò delegate. E tuttavia si possa legittimarla anche senza che la si formalizzi col matrimonio, onde non ne vengano assottigliate le possibilità di ottenere sgravi fiscali, sostegni finanziari, tutela assistenziale ed educativa, ecc.

Mi sembra che la procreazione artificiale, nel suo complesso, incoraggi questo deterioramento. Essa, diffondendo rassicuranti promesse su una fertilità che possa essere manipolata ed adattata in base ad ogni esigenza individuale, rafforza la crescente tendenza a che i figli debbano esistere per i genitori piuttosto che il contrario. Non si può negare che tutto ciò sia anche il segno di un opprimente e dilagante senso di solitudine ed anche, forse, di un impoverimento della vitalità della vita. La quale, paradossalmente, si rinvigorisce soltanto se la si vive più per gli altri che per se stessi. Tuttavia ciò non può avvenire con una mistificazione. Il nuovo tipo di famiglia che si profila e cui si vorrebbe indulgere nel segno della semplice ottusità -da non sottovalutarsi mai, neppure negli intelligenti!- o di vantaggi elettorali, non è l’opportunità più ovvia e naturale degli individui di dedicarsi ad altri, bensì una nuova proposta di individualismo, rispetto al quale la reazione è progresso ed il progressismo conservazione.

La nostra costituzione dichiara di voler tutelare la famiglia, e non dubito che i suoi redattori, lo desiderassero davvero. Avvantaggiati dal fatto di vivere in una società più semplice ed omogenea, benché digiuni di psicologia dell’età evolutiva non meno di molte elites intellettuali e politiche attuali, fautrici del progressismo, più efficacemente di queste erano convinti che costituisse la pietra angolare della società, ed avevano ragione. Tutelare e rafforzare la famiglia, sia pure quando ciò significhi contenere individualismi eccessivi, significa contribuire ad una società meno conflittuale e mentalmente più sana, cioè meno infelice. E’ forse il caso di ripetere una verità tanto banale, da essere calata perfino in molti degli spettacoli più insulsi della cultura di massa dell’evasione? E cioè che la qualità della vita dipende soprattutto dall’equilibrio degli affetti, cui l’abbondanza dei beni materiali sembra essere nemica non meno dell’indigenza?

Se c’è una verità incontestabile tra le molte contestabili delle scienze psicologiche, questa riguarda il ruolo determinante della famiglia per la sanità mentale e le possibilità di integrazione sociale degli individui. Nulla può sostituirla in ciò. Per contro l’addensarsi di pretese che lo faccia la scuola, o lo straordinario proliferare di istituzioni ed enti, pubblici e privati, che promettono di riuscirvi, più che rimedi sono segni della sua malattia. Il nesso di causa-effetto tra famiglia sana e società meno alienata ed alienante è fortissimo ed inequivocabile. La procreazione artificiale può conciliarsi con questa esigenza solo a condizione che, realmente, si pongano al centro di criteri per regolamentarla le esigenze dei figli e non quelle dei genitori.

(1) C. Beccaria: Dei delitti e delle pene, pag. 112; Ed. Rizzoli, 1984.

 

Giovanni Galuppi, psicoanalista e consulente giudiziario, è presidente dell’Istituto Torinese di Psicologia. L'articolo è stato pubblicato da ‘Rivista giuridica’, ed. Giuffrè  

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