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Testimonianze buddhiste

tibetRicordo la prima volta, erano gli anni '80, che entrai in un centro buddhista tibetano, credo il primo a Milano, per ascoltare Peter Della Santina, filosofo americano formatosi in India, che girava l'Europa facendo conferenze sul Buddhismo in Occidente.

Un incontro straordinario... io giovane psicoterapeuta formatasi al pensiero psicanalitico di Freud e Lacan, allontanatami dall’ambiente cattolico di formazione, affascinata dalle antiche filosofie e dal Taoismo in particolare, per la prima volta entravo in un Gompa e assaporavo un'atmosfera talmente estranea e contemporaneamente totalmente familiare da sentirmi paradossalmente a casa.

Quella stessa volta scambiai qualche parola e sorrisi di profonda intesa con Lama Tenzin Gompo, guida del Centro, che divenne mio insegnante di Dharma buddhista quando poco dopo divenni allieva assidua delle sue lezioni settimanali, per anni, fino alla sua morte. E successivamente lo fui del suo più stretto allievo, Lama Thamthog Rinpoce, che a sua volta divenne guida spirituale del Centro Ghe Pel Ling, fino all'incarico conferitogli dal Dalai Lama nel 2009 di abate del Monastero di Namgyal a Dharamsala in India.

Cosa ebbe di straordinario quel primo incontro? Come potevo avvertire “noto” qualcosa che mi era tuttavia estraneo?

Il primo pensiero fu che il Buddhismo assomigliasse in modo impressionante alla psicanalisi: la stessa intensità nell'investigazione della mente, gli stessi metodi analitici, la stessa attenzione alle sequenze logiche di causa-effetto, la stessa cura meticolosa nella ricerca di senso a ciò che appare insensato o casuale, la stessa determinazione a non rassegnarsi alla sofferenza, ma ad indagare sulla sua origine, e quindi a porvi rimedio. Non solo, questo rimedio sembrava la via d'accesso a una visione impensabile dei fenomeni che ne rivela però la reale natura.

E ancora mi colpì profondamente l'estremo valore dato all'esistenza umana, quella preziosità che una volta riconosciuta è in grado, forse essa sola, di salvaguardare i valori a cui la civiltà umana vuole ispirarsi (rispetto, solidarietà, etica della convivenza...). Preziosità dell'esistere che si specifica nella “consapevolezza” di cosa e di come sia questo esistere, fino a realizzarne l’ insostanzialità.

Ecco che gli insegnamenti buddhisti mi apparivano, e a tutt'oggi mi appaiono, come la più profonda e raffinata psicologia che abbiamo a disposizione. Proprio perché, con innumerevoli pratiche, ci dirige a coltivare una consapevolezza così straordinaria da essere ordinaria; viceversa consapevolezza di un ordinario che è straordinario. Consapevolezza che sembra trasformarci mentre ci accorgiamo che non c'è bisogno di alcuna trasformazione, ma solo di un'attenzione più accurata al mondo dei fenomeni e delle relazioni, per accedere a una visione che si apre su scenari che non sospettavamo e che modifica le precedenti rappresentazioni della realtà cui siamo di volta in volta aggrappati.

 

Affascinante prima, sconvolgente poi, pacificante infine.

Per uno psicologo occidentale il Dharma buddhista è psicologia! Per fortuna in quegli anni, oltre agli psicologi americani che iniziavano a parlare di psicologia transpersonale, leggevo con passione il filosofo A. Watts, e non mi sentivo sola nel pensare che il Buddhismo “assomigliasse più alle psicoterapie occidentali che non alla nostra filosofia o alle nostre forme di religione”. Mi confortava che anche lo studioso di buddhismo R. Johanson osservasse qualcosa che anch'io notavo nella mia pratica, cioè come “il pellegrino occidentale andasse dallo psicanalista invece di andare in chiesa”, ponendo non pochi problemi sia agli analisti che ai sacerdoti.

Ma l'ingresso del Buddhismo in Occidente non stava forse cambiando un po' anche il nostro modo di concettualizzare e distinguere psicoterapia, religione e scienza?

Quello che strada facendo scoprivo era che le diverse scuole di Dharma riuscivano ad affrontare, in modo direi trasversale alle varie discipline di competenza, temi cruciali, ed ad affrontarli in modo formidabile. Mi riferisco ad esempio a quelle polarità che interessano gli studiosi della mente perché spesso tormentano l'esistenza, e ci fanno oscillare con continui sbalzi da un'unilateralità all'altra senza capire cosa ci accade, perché prima siamo convinti fermamente di qualcosa che in un altro momento ci appare totalmente sbagliata; oppure ci rendono incerti e insicuri nella ricerca di un principio di non contraddizione e di coerenza che continua a sfuggirci; oppure ancora ci fanno camminare su terreni adatti a produrre conflitti che spesso non trovano soluzione.

Eppure siamo continuamente immersi in queste sollecitazioni: soggettività e oggettività, osservatore e osservato, identità e differenza, razionale e irrazionale, materialismo e idealismo, sostanzialismo e nichilismo, assolutismo e relativismo, fede e ragione, scienza e spirito, emisfero destro ed emisfero sinistro, visione logica e visione intuitiva, poesia ed enciclopedia, mente e cuore (direbbe il Dalia Lama)...

 

Via via che apprendevo, mi sembrava che le diverse scuole del Dharma buddhista portassero ad un’estrema radicalità gli insegnamenti dei grandi maestri spirituali della tradizione occidentale, e per molti versi trovavo un’affinità con la mia mente, se così posso dire.

Anni dopo ascoltai con grande sollievo il Dalai Lama, durante alcuni giorni di intenso insegnamento, dire che le differenti religioni corrispondevano a differenti “menti” e alle loro diverse esigenze.

Come occidentale ero inevitabilmente imbarazzata dal sentirmi attratta da una tradizione spirituale che non era quella di appartenenza. Tradimento? Eresia?

Che spazio c'era e c'è attualmente nella nostra cultura per accogliere un'altra tradizione spirituale? Rifiuto, banalizzazione, riportare a qualcosa di già conosciuto, esaltazione idealizzante? Oppure integrazione?

Molti tra i primi monaci orientali, che appartenevano a varie scuole buddhiste, giunti in Occidente negli anni '60, affermavano, stranamente per certi versi, proprio questa “integrazione”. Dicevano esattamente che il Buddhismo per la sua flessibilità poteva essere considerato come filosofia, come psicologia, come religione; non solo, poteva disfarsi delle forme culturali in cui era sorto per integrarsi in quelle in cui si radicava. Che ne è oggi?

 

S. Batchelor, nel suo bellissimo libro ”Il Risveglio dell'Occidente”('94), conferma come le cose siano proprio andate così. “I kantiani ritrovavano nel buddhismo le idee di Kant e i positivisti logici quelle di B. Russell, proprio come oggi i destrutturalisti vi scorgono i pensieri di J. Derrida. Negli ultimi cento anni gli insegnamenti buddhisti hanno confermato le opinioni di teosofi, comportamentisti, fascisti, ambientalisti e fisici quantistici.[...] Ci sono tanti tipi di Buddhismo quanti sono i modi in cui può apprenderlo la mente europea, frammentata e in continuo cambiamento. […] Di conseguenza, non si può dire che il Buddhismo sia un sistema morale, una filosofia o una psicologia; una religione, una fede, o un'esperienza mistica; una pratica devozionale, una disciplina meditativa o una psicoterapia; eppure può comprendere tutte queste cose.”

Né, prosegue Batchelor, il Dharma è riducibile a ciò che “gli schemi interpretativi dell'Occidente lasciano filtrare”, in particolare l'oscuramento dato dallo schema del “razionalismo” e la distorsione ad opera dello schema del “romanticismo”.

La nostra tradizione ha conosciuto e conosce il primato della ragione, l'autorità della logica, associati ai concetti di funzionalità e verificabilità scientifica. Filtrato da questo schema, il Dharma può presentarsi come uno strumento “tecnico”, che “attraverso una corretta applicazione di pratiche risolverà la sofferenza”.

Qualcosa del genere avviene oggi nelle discipline psicoterapeutiche, nelle quali vengono utilizzate sempre di più pratiche come la mindfulness e le tecniche sul respiro e sulla concentrazione. Le neuroscienze tra l'altro confermano il loro effetto benefico e stabilizzante sull'organismo, soprattutto la loro efficacia nella regolazione delle disfunzionalità emotiva e nella cura dei traumi. E in generale la ricerca scientifica sembra oggi confermare incredibilmente molte intuizioni della psicologia spirituale.

È veramente positivo che oggi si riescano ad integrare i frutti delle scoperte di tutti i tempi e di tutti gli studiosi. Però, in accordo con Batchelor, non possiamo dire che il Dharma buddhista sia solo questo: sarebbe riduttivo. Quanto sarebbe riduttivo affermare che la meta del sentiero consista nel porre fine alla sofferenza; si tratta certamente anche di questo, ma non è riducibile a ciò.

Questa idea sembra troppo facilmente assomigliare a quella che per far passare il mal di testa basti prendere una pastiglia, Meno male che sono state inventate pastiglie che tolgono il mal di testa! Ma la cura del mal di testa è un processo di più ampia portata di indagine e di complessità.

 

Quando diventiamo romantici? Quando siamo saturi di razionalismo. Se abbiamo preso troppe pastiglie per far passare il mal di testa ed esso continua a tornare, possiamo essere stufi e ribellarci, essendo invogliati ad esempio a curarci con qualcosa di alternativo, magari con i colori, con le pietre o con gli aromi.

Se ad esempio un'epoca ci ha condizionato in modo unilaterale, si può arrivare a un punto di rottura in cui si inverte l'unilateralità. C. G. Jung ci farebbe accuratamente notare che se siamo stati, come individui o come società, troppo unilaterali, la spinta opposta emerge con prepotenza e con un'immaturità proporzionale al tempo e alla forza con la quale questa componente complementare è stata soffocata. Così il sogno romantico può farci apprendere il Dharma in modo naif: sentimentalismo, credulità ingenua, aspettative magiche nei confronti dei maestri o dei rituali, ecc. L'irrazionalità buttata dalla finestra dal primato della ragione, rientra con tutta la spavalderia e l'ingenuità del “nuovo” dalla porta.

 

Credo che queste riflessioni servano per riportarci nuovamente alla delicatezza con la quale conviene affrontare le polarità che ci orientano e disorientano al tempo stesso, se non si integrano. Come recepire informazioni da due canali informativi specializzati in differenti competenze, ma che non integrano tra loro i dati?

Facciamo un esempio tratto dal nostro vissuto quotidiano. Pensiamo anche solo semplicemente alla differenza tra il pensiero discorsivo (logico, sequenziale, articolato nel tempo) e i vissuti emotivi (pensiero analogico, sincronico, atemporale) con cui percepiamo la realtà. Ci parrebbe sensato essere unilaterali? Cioè dare il primato o valore a una sola delle due percezioni, dalle quale ricaviamo un solo tipo di informazioni?

Se entro in una stanza discrimino che c'è un tavolo, due sedie, che il colore alle pareti è giallo; c'è odore di pulito, vi è una pianta , una tv spenta; sulla base di queste informazioni mi oriento. Contemporaneamente provo qualcosa che difficilmente traduco a parole, ma, tentandoci, direi: un'atmosfera gradevole, che dà un senso di fresco e di ordinato, e mi fa sentire al sicuro (o viceversa); anche queste informazioni mi orientano. Ovviamente ci sono situazioni in cui è meglio io mi affidi prevalentemente a un tipo di informazioni piuttosto che all'altro, ma entrambe mi costituiscono, entrambe mi orientano, che io lo voglia o no, che ne tenga conto o no, che le integri o no. Meglio una poesia o un'enciclopedia?

 

Forse non c'era bisogno del Buddhismo per riflettere su tutto ciò.

Tuttavia il Buddhismo sembra continuare ad avere una potenzialità che potrebbe salvarci non solo dalla frammentazione, ma dagli estremi e dal riduzionismo che ne deriva.

Prendiamo un altro esempio: teismo e ateismo, di sicura attualità nel panorama odierno.

Spero di non semplificare troppo o mal interpretare le complesse ed esaurienti argomentazioni del maestro spirituale R. Panikkar, che ne “Il silenzio del Buddha, un a-teismo religioso” prende spunto proprio dal fenomeno dell'ateismo per affermare la significativa attualità del Buddhismo oggi. Attualità che egli vede nel confronto con altre tradizioni spirituali, là dove essa più di altre sembra poter parlare all'uomo di oggi e raccogliere il nuovo “mutamento di coscienza” che a suo parere sta avvenendo.

Per Panikkar scienza e tecnologia stanno producendo un “cambiamento nelle stessa struttura dell'uomo”, al punto di assumere “l'aspetto di una mutazione antropologica”. Per definire i mutamenti di coscienza avvenuti nella storia, egli parte dalla premessa, in accordo con molti studiosi, di un'era assiale attorno al VI secolo a.C., nella quale si produsse contemporaneamente in tutte le culture una maturità spirituale e un risveglio transpersonale senza precedenti che diede vita alle principali tradizioni religiose che conosciamo oggi, ciascuna sviluppatesi all'interno della cultura di appartenenza. Israele con i profeti; l'Iran con Zarathustra; la Cina con Lao Tze; la Grecia con Talete, Anassimandro, Empedocle, Eraclito, Pitagora; L'India con Jainismo, Induismo, Buddhismo.

Panikkar definisce questo “mutamento di coscienza, comune al genere umano”, come un percorso che dalla “coscienza estatica verso il mondo esterno”, porta, con una serie di passaggi, verso l”autoriflessione”: sorta di “interiorizzazione del divino”. Da allora le tradizioni hanno sviluppato, ciascuna nella propria cultura, quelle rivelazioni originarie.

 

Oggi cos'ha il Buddhismo di diverso e di attuale rispetto alle altre tradizioni? In particolare in questo incontro moderno con l'Occidente e in pieno mutamento strutturale dell'uomo ad opera della tecnologia?

Per Panikkar l'attualità e la sua utilità è correlata in particolare alla diffusione del fenomeno dell'ateismo, “uno dei segni più tangibili del cambiamento antropologico ed epocale” in atto. Solo il Buddhismo con il suo Dharma può offrire un'alternativa valida e non ancora capita all'ontologia e alla teologia, superando il tradizionale presupposto che “Dio e l'essere siano i pilastri della realtà”. Affermando che è possibile eliminarli entrambi, senza rimanerne disorientati, offrendo un nuovo grado di coscienza, potremmo dire “un nuovo Dharma”, adatto all'uomo di oggi e al suo cambiamento di coscienza. Il nuovo grado di coscienza aprirebbe a: né Dio, né uomo; né monismo, né dualismo; né panteismo, né ateismo, né teismo.

Forse ciò che ci attende, tutti noi che siamo in ricerca, è davvero prendere contatto con il mutamento che stiamo vivendo, chiedendoci se possiamo attingere ai tesori ancora potenziali del Dharma e forse non ancora pienamente capiti e integrati nella nostra cultura.

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