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Il vero messaggio dell’India

saccidananda-ashramL’interesse che l’occidente rivolge sempre più verso l’oriente è certamente una delle più grandi ragioni di speranza per la crisi attraverso la quale il mondo sta attualmente passando. L’uomo occidentale ha in realtà molto da imparare da questo mondo spirituale e culturale d’oriente, che si è evoluto attraverso vie così differenti dalle sue. E forse è proprio solo là che potrà scoprire quell’interiorità la cui mancanza è così evidente e potrà recuperare quell’identità che sembra essergli scappata, un’identità che gli rivelerà il fondo stesso del suo essere.

A ogni modo non è un qualunque contatto con l’oriente che permetterà all’occidentale di avere accesso alle sue vere ricchezze e sarebbe ancor più falso pensare che questo contatto agisca come una panacea che curi tutti i mali dei quali soffre la civiltà attuale. D’altronde oriente e occidente sono complementari; entrambi hanno molto da imparare l’uno dall’altro, in molte differenti sfere. Ma questo scambio potrà essere pienamente fecondo solo se avverrà sul piano giusto, l’unico piano sul quale l’oriente può essere scoperto nella sua verità. (…)

La cosa triste è che quando l’occidente avvicina l’oriente per chiedere il suo segreto, troppo spesso si approccia nel modo sbagliato. (…)

Anche quando l’occidente viene a mettersi alla scuola dell’oriente, apparentemente in tutta umiltà e semplicità, troppo spesso è ancora con un atteggiamento di falsa passività che gli fa attendere, se non esigere, dall’oriente una risposta immediata ai suoi problemi e addirittura una risposta che debba entrare nelle sue categorie. (…)

 

Gli uni, gli intellettuali, chiedono all’India le idee. Fin da Platone e specialmente da Aristotele, il mondo mediterraneo è vissuto sotto il predominio dell’eidos, del pensiero, del concepire. Esso conosce le cose solo attraverso i concetti che si è modellato. Ma, come è stato così chiaramente mostrato dalla psicanalisi e dallo strutturalismo moderni, tutti i concetti, per quanto astratti, così come un qualsiasi giudizio, sono inevitabilmente segnati dalle linee di forza che sono alla base del nostro pensare – i nostri archetipi, i nostri modi di parlare, tutto il nostro condizionamento dovuto all’eredità e all’ambiente -, senza le quali, certamente, nessuno può vivere o crescere umanamente o spiritualmente.

La grazia dell’India è precisamente di renderci coscienti, al livello più profondo, di questi condizionamenti – di quei “nodi del cuore”, come li chiamano le Upanishad – proiettando sull’intero processo mentale l’“ombra”, potremmo dire, dell’Incondizionato che ciascuno porta in sé, nel più intimo centro del proprio essere.

Senza dubbio la logica indiana non ha niente da invidiare alla scolastica medievale: per quanto riguarda i giochi di idee e le discussioni speculative tra le diverse scuole, qui non sono seconde a quelle delle teologie europee. Comunque, non appena si guarda un po’ più da vicino, ci si rende conto che queste discussioni non toccano ciò che è essenziale e che il conflitto di idee è sempre come le onde che giocano sulla superficie di un lago o di un oceano, che il fondo è là che sostiene tutto, al di là di ogni discussione e di ogni approccio verbale, non toccato e tuttavia fondamento di tutto. Qui non è mai stato tagliato il cordone ombelicale che unisce l’esperienza del fondo, unico, con la molteplicità delle forme nelle quali è riflesso ai vari piani della mente.

 

Finché l’occidente si affannerà a chiedere all’India le idee, le sue aspettative sono destinate a essere deluse. Di idee, l’India ne ha da vendere, proprio come l’occidente. Per quasi temila anni i suoi filosofi hanno esaminato il mistero della loro esperienza interiore alla luce delle Scritture e della tradizione. Ma queste idee – per quanto differenti possano essere da quelle dei filosofi occidentali – dipendono da un medesimo piano psichico. Non sono altro che mezzi di approccio al mistero: e in questo sta l’intero segreto dell’insegnamento del guru. Esse non contengono né racchiudono mai la verità nelle loro strutture, come l’occidente tende troppo spesso a pensare. Chi si arresta alle idee manca il loro messaggio. La Verità non può essere posseduta né utilizzata.

 

Il vero messaggio dell’oriente – vedānta, buddhismo e tao – è altrove. È essenziale che questo venga compreso, così che il dialogo e la comunicazione possano divenire possibili tra i mondi culturali e spirituali così differenti che coesistono sulla terra. Ma ora il momento per questo sembra essere giunto e questo è uno degli aspetti più preziosi del nostro kairós. Come la cristianità è vissuta negli ultimi duemila anni nel mondo chiuso della cultura mediterranea, plasmandola e venedone plasmata, così anche il mondo culturale e spirituale dell’estremo oriente si è sviluppato in un vaso chiuso. Alla fine è giunto il momento, sia per la cristianità sia per la saggezza orientale, di superare le loro frontiere culturali, non più solo nella persona di singoli iniziati o convertiti, ma in un modo ben più ampio eprofondo, proprio accettando che questo processo di universalizzazione o cattolicizzazione metta in discussione le forme in cui le particolari, e perciò limitate, culture hanno espresso le intuizioni originali.

Il vero messaggio dell’India, ci verrebbe da dire, è di liberare l’uomo da questi “nodi del cuore”, da questa falsa identificazione che porta l’uomo a confondere il suo reale sé con una o l’altra delle manifestazioni della sua personalità a livello mentale o sociale. Il contributo dell’India al mondo è prima di tutto quello di far comprendere all’uomo il mistero profondo e indefinibile del suo proprio essere, il mistero del Sé “unico e non duale”, rivelato comunque nella molteplicità delle conoscenze.

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Questa è la ragione per cui gli studi fatti dagli occidentali sull’esperienza della saggezza vedantica, per esempio, sono spesso deludenti. Per quanto possano presentarsi come competenti e teoreticamente perfetti, rimangono quasi ineluttabilmente sul piano accademico e speculativo. Manca sempre qualcosa – spesso un “niente” che non si riesce a definire. Ma è precisamente questo “niente” che dona l’accesso alla fonte, proprio là dove essa scaturisce.

Qui in India non v’è conoscenza se non della salvezza. Ma questa salvezza attraverso la conoscenza non è gnosi; è il ritorno all’anima attraverso l’ascesi fino al suo fondo. Perciò non potrà mai “udire” veramente il messaggio dell’India chi non sarà posseduto nel più intimo di sé da questa sete di salvezza, mumukshutva, che sola può condurre alla conoscenza in verità.

 

All’opposto di coloro che approcciano l’India come impenitenti intellettuali, ci sono coloro che vengono in cerca di “esperienze interiori”. Basandosi su racconti più o meno romanzati o magari su fatti autentici, ma mal interpretati, si aspettano di incontrare al primo angolo della strada il guru che li porti a uno stato di estasi con un semplice sguardo o con il tocco della mano. Aspirano a quelle che chiamano visioni o audizioni mistiche, o più prosaicamente a quei “secondi stati” che consentano loro di dimenticare un reale sempre troppo pesante da portare, e dia loro la soddisfazione di potersi fregiare del nome di “spirituali”.

In realtà l’India non manca di queste persone che hanno potenzialità o anche effettivi poteri d’ordine metapsichico e il possesso di tali siddhi è responsabile, in misura non indifferente, dell’attrazione esercitata da alcuni famosi guru, per non parlare di quei ciarlatani che ne abusano per denaro o vanagloria.

Comunque i più grandi maestri costantemente ricordano che tutto ciò è assolutamente secondario e non ha niente a che fare con la genuina esperienza spirituale. Alcuni guru hanno fatto uso di questi poteri per guidare gradualmente i loro discepoli verso le realtà interiori, ma allora dovrebbe essere presa ogni precauzione per evitare che il discepolo confonda l’esca con la realtà, a gran discapito della sua vita spirituale. Capita anche che determinate strutture mentali reagiscano regolarmente all’esperienza del profondo con fenomeni di questo tipo, soprattutto quando la psiche è troppo debole per sostenere un tale colpo. Ma non bisogna mai dimenticare che questi fenomeni non hanno niente di spirituale, possono essere prodotti anche da droghe o shock mentali o anche dalla pratica opportunamente guidata del prānayāma o della concentrazione yogica.

(…)

L’esperienza del Sé è al di là di ogni possibilità di verbalizzazione e di sperimentazione. È un’esperienza di totalità che raggiunge il fondo dell’essere o, più precisamente, che scaturisce dal fondo stesso dell’essere e, sgorgando, rivela, per così dire, questo fondo stesso, trasformando l’intero essere poiché è stato toccato alla sua stessa sorgente.

Quando questa esperienza piomba su di un essere, si può dire che ormai per lui è finita, o almeno lo è per tutto ciò con cui fino ad allora aveva cercato di esprimersi e di prendere coscienza di sé.

L’“Io” della sua coscienza fenomenica è come svanito. Ora il suo “Io” si pronuncia a profondità di sé inaccessibili a ogni idea e che sfuggono a ogni definizione. Il suo limitato e introverso ego è stato consumato in questa fiamma divorante e implacabile. Non c’è più posto in alcuna parte di lui per la minima ricerca di sé o per il minimo egocentrismo.

Pertanto lo jñānī non si isola dal suo prossimo, né cerca di sfuggire ai suoi doveri familiari o sociali con il pretesto di dover preservare la sua solitudine interiore – a meno che non venga inesorabilmente gettato in questo silenzio, come per esempio Rāmana Mahārshi, solo per il tempo necessario alla psiche per adattarsi a questa luce troppo abbagliante. (…) libero e sovranamente indifferente, si lascerà condurre dallo Spirito, ovunque lo voglia portare, con assoluta disponibilità.

 

Nella tradizione spirituale dell’occidente l’equivalente più vicino a questa esperienza di liberazione è senza dubbio la metánoia o conversione che è la base stessa del messaggio evangelico.

In entrambi i casi si tratta di un’esperienza di totalità, un’esperienza che coglie l’uomo nel suo risveglio a sé; e, a partire da questa sorgente nel più profondo di sé, si estende fino agli estremi apparentemente più esteriori della personalità. La conversione evangelica e l’esperienza vedāntin strappano via l’uomo da tutto ciò che lo tiene legato, dal di dentro come dal di fuori. Questa è senza dubbio l’esperienza dello Spirito nella quale il cristiano, liberato dai condizionamenti egocentrici, viene elevato dentro di sé verso il Padre, la sorgente originaria, e all’esterno verso il prossimo, scoprendo se stesso nella sua pienezza attraverso questo superamento di sé unico e doppio – come Gesù, perfettamente obbediente al Padre, e pronto come lui, con lui, a dare la vita per il suo prossimo.

(…)

L’orgoglioso rifiuto del cristianesimo in nome di una cosiddetta superiore saggezza orientale è il più delle volte la prova che l’esperienza autentica, sia nel contesto cristiano sia nel contesto vedāntin, è ancora completamente sconosciuta. Chi si permette di giudicare e condannare non è ancora giunto fino al fondo. (…) Cristo stesso non ha mai avuto parole dure se non per gli ipocriti e per coloro che pretendevano di sapere tutto!

La mente naturalmente protesta perché vuole decidere su tutto. L’acqua pura è senza sapore per la persona cavillosa che non si può rassegnare semplicemente a gustare questo sapore di assoluta purezza. La chiama insipida perché non la può giudicare altro che in riferimento a un surrogato… «Chi ha orecchi per intendere intenda» ha detto Gesù nel Vangelo. Chi non comprende chieda al Signore che gli apra gli orecchi, come dice il Salmo (40,7). E che apra il suo cuore al di dentro, allo Spirito.

(…)

 

                                                                              Gyansu, Pentecoste 1970

 

 

 

Il testo costituisce una prefazione dell’autore a ‘Gñanananda’, ed. it. Servitium, Sotto il Monte 2009, pp. 87-102

 

 

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