La cavalcata del sangue

La cavalcata del sangue copySi dice che Martin Walser sia il maggior scrittore tedesco vivente e che La cavalcata del sangue (Sugarco, Milano 2013) sia paragonabile alla Montagna incantata di Thomas Mann. A suggerirlo è innanzitutto un’analogia nell’ambientazione. In entrambi i casi c’è un luogo legato all’esperienza della malattia – là un sanatorio, qua un ospedale psichiatrico – che diventa un luogo separato dal normale contesto della vita, in cui la vita stessa può essere osservata da un punto di vista più elevato o più profondo. In entrambi i casi poi, come è in un certo tratto didascalico tipico della letteratura tedesca, i personaggi sono rappresentazioni di forze della vita morale e socio-culturale.

Nel caso dell’opera di Mann, tutta la vicenda si concentra su due personaggi, Settembrini e Naphta, il cui contrasto porta alla luce un dramma che nella visione dell’autore sta esplodendo sulla scena europea. L’uno, Settembrini, impersona il punto d’equilibrio dell’umanesimo liberale di cui la civiltà moderna si è fatta portatrice e in cui ha risposto ogni sua speranza; l’altro, Naphta, la rottura di quell’equilibrio, la sua dissoluzione ad opera di forze tanto profonde quanto distruttive. Il sanatorio sulla Alpi è un microcosmo in cui prende forma la catastrofe storica delle due guerre mondiali e dei totalitarismi. Qualche anno dopo Thomas Mann reinterpreterà col Doctor Faustus il coinvolgimento del popolo tedesco col nazismo alla luce della metafora morale sua più tipica: quella del patto col diavolo. Si realizza un destino tragico e senza riscatto: in una società secolarizzata, resa sterile da convenzioni sociali a cui non si riesce ad attribuire autentico valore, la ricerca di un’esperienza autentica apre la porta a forze demoniache.

Nell’opera di Walser lo scenario è un altro, e altra è l’ispirazione. È dei giorni nostri che si parla. Il ciclo storico che precede è presente solo in modo indiretto: nell’atmosfera di plumbea durezza da cui i personaggi emergono. Ciascuno di essi è in qualche modo orfano, e sperimenta l’impossibilità di attribuire un senso all’agire collettivo. Il mondo sociale si viene del resto organizzando in forme sempre più lontane dal centro effettivo della vita umana: si potrebbe dire che è un mondo senz’anima. Neanche il Sessantotto riesce a infrangere il muro della colpa che grava sui cuori.

Ebbene, è in questo mondo che muove i suoi passi il protagonista, Percy, un moderno Parsifal, il puro folle a cui solo è concesso di riattingere ciò di cui tutti sono in cerca: l’innocenza. Il prezzo è la volontaria emarginazione da ogni potere, anche su se stesso. La sua vocazione cristica è sottolineata dalla leggenda che avvolge le sue origini, che narra come egli sia nato senza l’intervento di un padre. Il titolo originario del romanzo è infatti Muttersohn, espressione intraducibile che in Tedesco esprime l’esclusiva appartenenza del figlio alla madre. Il titolo italiano, La cavalcata del sangue, trae spunto da un antico rito, connesso con una reliquia del sangue di Cristo, a cui tutti prendono parte come se la ritenessero davvero autentica.

Percy è infermiere presso l’ospedale psichiatrico di Borgococcio, un vecchio monastero riadattato, ed è collaboratore del professor Feinlein, che ne riconosce la particolare saggezza. Il rapporto che intrattengono con i pazienti non è quello prescritto dalla psichiatria ufficiale, ma è incontro umano e spirituale. Percy recita con loro testi tratti dalla mistica cristiana, il dottor Feinlein lo protegge ed è egli stesso impegnato in una ricerca religiosa. Entrambi sanno che quell’esperienza non durerà, perché il dott. Bruderhofer, rappresentante della cultura illuministica ufficiale, sta già operando per assumere il controllo sull’ospedale. Ma quando ciò avverrà, ci sarà spazio per il dolore ma non per la tragedia.

Il mondo è teatro della lotta tra il bene e il male. È inevitabile che a un certo livello il male prevalga, perché qualcuno ne è contaminato e indotto dal proprio disordine interiore a farsene agente, operando distruttivamente su sé e gli altri; mentre altri devono rassegnarsi alla sconfitta. Ma – questo è l’insegnamento di Percy – il male non ha l’ultima parola finché non si consente ad esso. Per questo Percy, fino all’ultimo istante di vita, non persegue altro scopo che donare amore. E il mondo intorno a lui riacquista vita.

Si potrebbe dire che nell’opera di Walser il Romanticismo, inteso come costante rielaborazione del senso della moderna società secolarizzata che soprattutto la cultura tedesca ha instancabilmente compiuto lungo due secoli, giunge finalmente al suo epilogo, essendosi depurato degli elementi torbidi che l’hanno di volta in volta inquinato. Ed è l’epilogo più semplice e risolutivo: null’altro che il ritrovamento della fede.

Per un testo infine dalle inesauribili suggestioni e implicazioni, il traduttore, Francesco Coppellotti, è quasi importante come l’autore. Ed è infatti egli stesso all’epilogo di un percorso di decenni compiuto dietro la maschera di autori in vario modo conturbanti, da Ernst Bloch a Ernst Nolte, che ora si riconduce all’ispirazione originaria. Un uomo di cultura di altri tempi, oggi non del tutto immaginabile, tanto tormentato e provocatorio da essere stato a lungo “maledetto”, eppure intimamente così vicino all’innocenza del puro folle. 

 

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