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Le radici e l’abisso

uomo-donna nell oscuritSi discute tantissimo, ed è naturale che sia così, per l’istituzione che è la cellula fondamentale della comunità umana. La salute di una società molto dipende da quella della famiglia, la cui centralità diventa urgenza in un momento di crisi, qual è sicuramente quello in cui viviamo.

 

Partiamo da noi, dal nostro Paese, dove ad una prepotente crisi economica, collegata e certo conseguente ad una crisi di valori, si aggiunge  l’emergenza legata al fenomeno dell’immigrazione.

Crisi significa, ovviamente, difficoltà, problemi da superare, ma è sempre anche occasione per una virata positiva in base a nuove prospettive.

Così, accanto alla mancanza di lavoro e alla scarsità di risorse, potremmo veder emergere una laboriosità creativa e riscoprire la bellezza della sobrietà; accanto alla paura del nuovo e alle difficoltà dell’integrazione, scorgere la viva linfa che sempre viene dall’incrocio di civiltà, e magari anche la chiave per risolvere la crisi economica. Senza dimenticare che, come ogni costruzione ha bisogno di fondamenta pena il suo inevitabile crollo, una nuova prospettiva sociale o antropologica non può sopravvivere se non è ancorata alle radici profonde della tradizione.

 

Un intreccio di problemi e opportunità che non può certo fondarsi su individui isolati, da cui può tuttalpiù avere origine una società atomizzata, fatalmente destinata alla frantumazione distruttiva o all’asservimento totalitario. Cardine della società umana può essere solo la persona, che è per sua natura relazione e, in quanto tale, in rapporto di interdipendenza con l’altro nello spazio e nel tempo. L’umanità nel presente e nella sua dimensione storica non può esistere se non attraverso le relazioni.

Nessuno meglio di Dostoevskij ha espresso il rapporto di interdipendenza che lega ciascun individuo all’umanità intera: “ciascuno di noi è colpevole di tutto e per tutti sulla terra, questo è certo;  non soltanto a causa della colpa comune, ma ciascuno individualmente e per ogni uomo sulla terra.” (da I fratelli Karamazov, Sansoni). Questo riguarda il negativo del male, che Dostoevskij ha indagato come pochi altri, ma è anche consapevolezza necessaria alla rigenerazione dell’uomo. Vale la pena sottolineare che è lo starec Zosima,  una delle figure più luminose dell’opera di Dostoevskij, a pronunciare quelle parole.

E certamente la relazione per eccellenza è quella in cui ogni essere umano è avvolto fin dall’inizio con chi lo ha generato: tutti nascono all’interno di una famiglia, che è il tramite di ciascuno con la rete dell’umanità. Ecco perché il tema è giustamente al  centro del dibattito sempre, e  oggi un po’ di più, dal momento che la crisi ne mette in evidenza l’urgenza.

 

Sulla famiglia, definita da papa Francesco “comunità umana fondamentale e insostituibile a cui Dio ha affidato non la cura di un’intimità fine a sé stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere ‘domestico’ il mondo”, sta lavorando da oltre un anno anche la Chiesa in preparazione della XIV Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi attualmente in corso, sul tema “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”.

Possiamo guardare a questo dibattito da due prospettive. La prima, a partire dal nostro qui ed ora, l’occidente. L’altra con uno sguardo che tenta di essere allargato fin dove è possibile, nella consapevolezza che l’occidente non è il mondo, tantomeno ora che il mondo si sta rimescolando. Ed ecco che proprio l’immigrazione ci aiuta a capire.

 

Molto significativi, a questo riguardo, sono i risultati di una ricerca sociologica e antropologica condotta a Torino dai ragazzi di un liceo in collaborazione con la Pastorale Migranti della Diocesi, volta a indagare presso le comunità immigrate di Torino i temi del rapporto uomo-donna, della famiglia e dell’educazione dei figli, mettendo a confronto la cultura di provenienza con quella di “arrivo”. Si veda la pagina Facebook Radici dell’umanità (https://www.facebook.com/Radici-dell-Umanit%C3%A0-1417334641870565/timeline/).

L’indagine è interessante per una serie di ragioni. Riguarda un numero significativo di immigrati in situazioni che consentono uno sguardo ampio sulle comunità a cui appartengono. Molti di loro, infatti, per motivi di lavoro o perché inseriti in gruppi di sostegno e di socializzazione, hanno uno sguardo ampio, non solo personale, sul mondo dell’immigrazione.  

Gli intervistati provengono da paesi dell’est europeo, dell’America latina, dell’Africa mediterranea e centrale, dellAsia. Una geografia piuttosto ampia. La ricerca è condotta a Torino, una città con una rilevante storia di immigrazione e con una consolidata vocazione di attenzione al mondo degli ultimi. I santi sociali non hanno gettato invano i loro semi.

L’ipotesi alla base del lavoro è che nelle società, come la nostra, a più elevato livello di modernizzazione, si viva, insieme all’affermazione dei diritti di vari soggetti, tra cui innanzitutto le donne, una profonda crisi dei legami comunitari, familiari e delle relazioni educative; mentre invece i flussi migratori ci pongono a diretto contatto con persone che vivono culturalmente una condizione opposta: da un lato differenziazione e complementarità dei ruoli della donna e dell’uomo, dall’altro una maggior saldezza del tessuto familiare e comunitario, con attitudini educative ancora molto sviluppate. In tale prospettiva, si pensa che sia importante valutare quanto le comunità immigrate percepiscano di doversi integrare nella società ospitante facendo propri i suoi valori, ma al tempo stesso quanto ritengano di dover salvaguardare i propri. In ogni caso si pensa di contribuire, dall’una e dall’altra parte, a un confronto utile per prendere coscienza di sé e per disporsi nella relazione con l’altro.

Molti degli intervistati dichiarano di apprezzare più di ogni altra cosa la maggiore libertà di cui si gode nella nostra società, ma quasi sempre il loro apprezzamento è attenuato dall’affermazione che “comunque da voi c’è troppa libertà”. Non si tratta qui ovviamente della libertà nel suo significato alto che è indivisibile: o è o non è. Si tratta piuttosto dell’arbitrio, del “faccio come mi pare”.

Una comunità che costringe ma intanto aiuta e protegge può avere dei vantaggi rispetto ad un mondo di individui sempre più liberi, quindi anche sempre più soli. Evidentemente  occorre un equilibrio che eviti gli estremi della costrizione totale e del totale permissivismo.

 

Premesso che tutti i temi toccati dalle interviste (famiglia, tradizioni, religione….) sono strettamente collegati e mai completamente isolabili, ci interessa qui sottolineare quanto emerge a proposito della famiglia.

Non è cosa di poco conto che la famiglia sia quasi sempre (insieme alla religione) tra le cose considerate più importanti, molto spesso LA più importante.

In qualche caso, la famiglia è da intendere in modo diverso, nel senso di famiglia allargata. Attenzione, però! Non certo allargata come spesso succede attualmente da noi, a causa di frequenti separazioni, dove allargata vuole ormai dire frantumata. Semmai, come un tempo era nella nostra tradizione, soprattutto nella cultura contadina, dove accanto ai genitori c’erano zii, prozii, cugini, nonni, tutti coinvolti nella gestione della casa, nell’educazione dei ragazzi e nella cura di malati ed anziani. Una vera e propria comunità, con i pregi e i difetti che questa comporta.

È interessante, e un po’ sorprendente, che molti dichiarino di trovarsi bene in Italia “perché anche qui la famiglia è molto importante”. Questo fa un po’ a pugni con la cultura imperante, almeno a livello dei media, che sta insinuando, in nome dei diritti individuali, una serie di richieste sempre più pressanti in direzione di uno scardinamento dell’istituzione famiglia a favore di una società sempre più liquida.

Ma ciò riguarda soprattutto il dibattito all’interno dell’occidente che, a dispetto di una dichiarata pretesa di universalità, considera il proprio pensiero più progredito e finisce così  per isolarlo evidenziandone i vistosissimi limiti.

 

Notiamo, non a caso, che i riflettori sono accesissimi soprattutto su tematiche, importanti, certo, ma numericamente non le più significative, nel senso che interessano solo un numero ristretto di persone, e parrebbe proprio solo in Occidente. Tuttavia, cruciali: portate avanti in modo sospetto, con incomprensibile, ingiustificata violenza e con grande risonanza sui mass media, rischiano di favorire un indirizzo  volto a scardinare i valori che stanno alla base della famiglia.

Il paradosso è che, con l’intenzione dichiarata di combattere l’indottrinamento, si pretende di indottrinare, alla luce di un pensiero unico che emerge con ostinata insistenza nei media, a cui non pare proprio corrispondere la sensibilità della gente. Sarebbe allora più corretto parlare di pensiero indotto, da chi, e per quali fini, non è del tutto chiaro, o forse lo è fin troppo: lo ha detto molto bene papa Francesco, «La famiglia ci salva da due fenomeni attuali […] la frammentazione, cioè la divisione, e la massificazione. In entrambi i casi, le persone si trasformano in individui isolati, facili da manipolare e governare»

Molto dibattute sono le questioni relative alla famiglia omoparentale  e alle teorie gender,  indicate come aspetti di una società che progredisce, ma che sono in realtà alquanto problematiche.

 

Una coppia omosessuale che voglia un figlio deve per forza di cose guardare all’esterno, cioè ricorrere alla paternità oppure alla maternità surrogata. Fonte inevitabile di sofferenza.

La paternità surrogata si chiama fecondazione eterologa. Qualunque indagine seria, ma anche un semplice esercizio di buon senso, può facilmente dimostrare che nessuno può accettare senza gravi sofferenze psicologiche di non sapere da dove, da chi proviene. È sufficiente uno sguardo onesto al mondo delle adozioni (ben vengano, naturalmente!) per farsene un’idea. I genitori adottivi possono essere straordinari (lo sono praticamente sempre: quella dell’adozione è una scelta difficile e coraggiosissima) ma non riusciranno mai a sanare totalmente la ferita originaria, causata dalla perdita dei genitori o, peggio ancora, dal rifiuto. I figli saranno segnati da un senso di abbandono che  peserà su tutta la loro vita. Ma mentre l’adozione si configura come un rimedio (purtroppo solo parziale) a drammi che già esistono, la fecondazione eterologa ne costruisce inevitabilmente di nuovi.

La maternità surrogata si traduce in un’espressione quasi impronunciabile: utero in affitto. Una donna porta in grembo per nove mesi un figlio che non sarà mai suo. Affitta il suo corpo: che cos’è se non colonialismo di ricchi su poveri? Una pratica vergognosa che pure sta dilagando senza suscitare voci scandalizzate da parte dei cosiddetti progressisti. Anzi! Il pensiero unico dice che dobbiamo rincorrere i paesi progrediti, quelli in cui tutto ciò che è tecnologicamente possibile è un diritto.

Un insopportabile ritornello recita: “Si fa così, nei paesi progrediti. Quindi in quella direzione dobbiamo necessariamente andare”

A proposito e a sproposito, su qualunque tema si fa riferimento alla supposta superiorità dei cosiddetti paesi più progrediti. Ma cosa significa? Cosa si vuol intendere con questa espressione? Quale idea di “progresso” si presuppone?

Progredire significa andare avanti, è fin troppo ovvio che andare avanti sia meglio che restare fermi o andare indietro. Ma andare avanti significa anche distanziarsi, nel senso di distaccarsi, da ciò che è indietro? Significa anche che ciò che è indietro va abbandonato, rifiutato? O non sarebbe più opportuno fare tesoro di ciò che è stato, considerarlo parte di ciò che è e di ciò che sarà? Soprattutto, con quale metro misuriamo il progresso? 

Si danno per scontate due cose almeno: più progredito è il paese tecnologicamente più attrezzato, più progredito è il paese in cui vige la democrazia. Sarà!

 

Sul primo punto è abbastanza facile obiettare che troppo spesso la scienza ha servito fini orrendi. Ad esempio, le armi sono tanto più efficaci quanto più sono distruttive. Viene in mente “Il mestiere delle armi”,  il bellissimo film di Olmi su Giovanni dalle Bande nere, ucciso da un’arma da fuoco, prima vittima di un proiettile sparato a distanza, vantaggio immenso sui combattimenti corpo a corpo: “Dove finiremo di questo passo?” è l’amara domanda a conclusione del film.

Per quanto riguarda la democrazia, si tratta certo di una grande conquista, ma la sua realizzazione è assai problematica. L’estremismo non le è estraneo, data la difficoltà a bilanciare le esigenze della maggioranza e quelle delle minoranze.

Se la intendiamo, alla lettera, come governo della maggioranza,  a cui poi tutti debbono sottostare, è facile vedere l’inevitabile traduzione in forme totalitarie che non tollerano dissenso e tolgono la parola ad ogni minoranza. La libertà è cancellata. Ma anche: se ogni minoranza reclama il proprio spazio di libertà, si va verso la moltiplicazione dei diritti, con il rischio di giungere all’individualismo che pretende di trasformare ogni desiderio in diritto. Occorre puntare ad un equilibrio difficilissimo, che richiede continui aggiustamenti. Ma ogni libertà può essere tale solo in rapporto alla Verità.

 

La Verità è traducibile in vari modi, raggiungibile per vie diverse: nulla a che vedere con il relativismo, per cui ciascuno può avere la propria verità.

Va da sé che poi ci si debba con onestà interrogare circa la propria traduzione della Verità, che rimane trascendente. Opinioni e convinzioni possono essere radicate nella Verità o nella menzogna. Le prime nascono dal profondo di noi stessi, come ci insegnano Socrate e Sant’Agostino, le seconde sono indotte:  il discrimine è netto e non è poi così difficile tracciarlo, pur di volerlo fare. Spesso il cosiddetto senso comune riconosce benissimo il Vero ma ha qualche difficoltà ad affermarlo pubblicamente, quando il Vero va contro il pensiero unico.

Sulla democrazia già Platone avanzava preoccupazioni. Democrazia tiene conto di tutti, e questo è sicuramente giusto. Di tutte le opinioni. E qui qualche problema sorge. Proprio Platone mette l’opinione al gradino più basso della conoscenza. Vale la pena riflettere su come le opinioni si costituiscono, o forse si “costruiscono”, specialmente oggi con la diffusione di mass media e social network.

 

La storia dell’Umanità procede, questo è certo, e forse davvero c’è una linea provvidenziale che porta avanti, nonostante tutto. Ma la caduta è sempre lì, in agguato: attenzione a non dover ricominciare. Non è stata una caduta rovinosa quella dei totalitarismi del  Novecento? C’è qualcosa di miracoloso nel fatto che da quel buio ci si sia risollevati grazie a poche (relativamente poche, ma grandissime) figure luminose che non si sono confuse con il rumore assordante delle masse asservite.

L’umanità pare ora attratta da un nuovo abisso. L’abisso attrae, sembra bello, si rischia di confondere ciò che è in alto con ciò che è in basso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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