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Tendenze nel rinnovamento teologico in India. La ricerca su Dio. Premesse e precursori.

Ermis Segatti

 

PREMESSA

 

La teologia indiana contemporanea, pur essendo dipendente dalla matrice occidentale nella sua ispirazione originaria, come è evidente dal profilo dei suoi principali interpreti, ancora in larga misura formati nei centri  della cultura religiosa europea e statunitense, manifesta una crescente tendenza a rivendicare la propria autonomia sia a partire dal suo radicamento in una tradizione di assoluto rilievo sia in virtù della sua particolare condizione asiatica che le consente interlocuzioni inedite e difficilmente accessibili all’occidente.

La letteratura teologica che si muove in tale prospettiva è ormai molto estesa. In questo saggio si affronterà la ‘ricerca su Dio’, un ambito che è non indebitamente considerato prioritario qualora si intenda evidenziare la peculiarità della teologia indiana nell’intero arco della sua storia e, comunque, un punto di riferimento ineludibile nel contesto dell’India.

L’argomento ha richiesto frequenti allusioni ad altri aspetti della riflessione teologica, in particolare della cristologia, del dialogo interreligioso e dell’inculturazione, i quali rimandano ad una eventuale trattazione autonoma per rendere ragione piena alla posizione degli autori di cui si parla. Considerazioni analoghe valgono per alcuni importanti filoni della teologia indiana  del Novecento, quali la teologia della liberazione e le varie espressioni della teologia Dalit, le cui conclusioni sarebbero peraltro del tutto pertinenti alla tematica della ‘ricerca su Dio’. Di esse non si parlerà in questo studio. Le correnti e gli autori che si rifanno in India alla teologia della liberazione richiederebbero, infatti, un confronto troppo ampio con espressioni analoghe di altri continenti per evidenziarne i tratti peculiari. La presentazione delle riflessioni su Dio della teologia Dalit,  per molti versi connessa con le istanze della liberazione e marcatamente contestualizzata in alcune regioni del subcontinente indiano, esigerebbe a sua volta sviluppi troppo estesi e differenziati.

In questo primo intervento si affronteranno le fasi preliminari della teologia indiana a partire dai  precursori del secolo scorso. In un intervento successivo lo sguardo sarà rivolto alle manifestazioni più recenti.

I singoli autori saranno accompagnati da brevi annotazioni biografiche, nel presupposto che non sempre e non tutti siano diffusamente noti in occidente. Nelle citazioni - salvo rare eccezioni - ho preferito segnalare solo le opere di uso corrente nel contesto indiano, in modo da fornire una prospettiva della letteratura locale sugli argomenti in questione.

 

 

LA RILETTURA DELLE ORIGINI

 

La riflessione teologica contemporanea in India ritorna con insistenza sull’intero arco storico del proprio passato. Questo solo aspetto potrebbe costituire un approccio di per sé eloquente per comprendere i suoi indirizzi e le sue intenzionalità.

Nel passato a due epoche si attribuisce un particolare significato.

La prima riguarda le comunità cristiane presenti in India nel periodo remoto che precede le varie fasi coloniali dei contatti con l’occidente e risale perciò fino alle origini del Cristianesimo. I cristiani dell’India ritengono di potersi legittimamente ricollegare alla evangelizzazione operata direttamente dall’Apostolo Tommaso, che qui avrebbe avviato la prima conversione di alcuni rappresentanti delle caste alte, per poi spingersi fino in Cina. Il rimando all’origine autonoma ed apostolica del Cristianesimo in India assume particolare significato in un periodo come quello attuale nel quale anche la teologia rivendica un suo ruolo specifico nei confronti della tradizione occidentale finora dominante. I cristiani risalenti a questa primitiva, antichissima evangelizzazione subirono nei secoli successivi vari influssi provenienti soprattutto dalla Chiesa Siriana Orientale e  Occidentale, e poi - al seguito delle diverse colonizzazioni dell’epoca moderna e contemporanea - l’influsso anche della tradizione occidentale del cristianesimo. Ne risulta oggi un quadro piuttosto complesso di appartenenze e di riti tuttora in equilibrio instabile e, comunque, oggetto di continue ricerche storiche per ricostruirne le vicende più lontane nel tempo.[1]

La seconda epoca a cui si attribuisce particolare significato coincide con le varie fasi della colonizzazione, a cominciare da quella portoghese fino alla più recente dominazione imperiale britannica, oggi spesso interpretate come epoche di ‘conquista’ durante le quali si esercitò sul Cristianesimo indiano un potere non solo politico, ma anche di intensa inculturazione unilaterale, teologica e spirituale, da parte delle varie confessioni cristiane dell’occidente nei confronti delle tradizioni locali. In questo periodo non si può parlare di uno sviluppo autonomo e originale della teologia indiana.

Tuttavia,  una attenzione del  tutto particolare viene rivolta dai cattolici alle figure dei gesuiti Thomas Stephens e Roberto De Nobili (in India dal 1606) e ai loro tentativi di riformare i metodi di evangelizzazione introdotti dal padroado portoghese. Analogamente i protestanti riflettono sui primi passi della loro presenza missionaria a partire dagli inizi del ‘700 con Ziegenbalg e Plutschau.[2]

Nella valutazione del loro operato si riflette sovente il dibattito aperto oggi fra le varie correnti teologiche e missionologiche presenti in India: alcune tendono ad esaltare in queste figure i tratti innovativi e quasi anticipatori delle problematiche attuali, altri invece ne ridimensionano la portata. In ogni caso, nonostante i notevoli sforzi di adattamento alla mentalità locale, De Nobili - la personalità più studiata  - non si proponeva certo di creare una teologia autoctona né questo sarebbe stato concepibile nel cattolicesimo dell’epoca e in particolare nel clima ecclesiale del periodo post-tridentino.

Si trattava, tuttavia, di tentativi di assimilazione e di approfondimento della cultura hinduista che gli consentirono di esprimere osservazioni assai puntuali su argomenti che si riferiscono all’oggetto specifico della presente ricerca e sono oggi  recepite con particolare attenzione dalla teologia contemporanea. [3]

Nell’Informatio de quibusdam moribus nationis indicae (1613) egli notava tra l’altro:

“... i  teologi del Vedanta spiegano con grande approssimazione gli attributi divini sottolineandone il carattere assoluto, per esempio essi dimostrano che Dio è l’essere in sé sussistente, che è eterno, incorporeo, che è buono per natura, che è presente ovunque, che è causa di ogni cosa ... “.

Roberto De Nobili riteneva addirittura di avere individuato nei testi sacri della tradizione hindu allusioni al mistero trinitario della rivelazione cristiana:

“Ma, il che è ancora più sorprendente, io scopro in questi testi persino un adombramento del recondito mistero della Santissima Trinità, del Benevolentissimo e Altissimo Signore che indubbiamente elargisce anche a queste remote contrade qualche barlume del segreto più nascosto della nostra fede attraverso l’insegnamento di alcuni saggi che si trovano in mezzo a questa gente, con grande analogia rispetto a come attraverso una piuttosto misteriosa ispirazione Egli si degnò di illuminare la Sibilla, Trismegisto e certi altri maestri della sapienza umana nelle nostre parti del globo. Il testo recita così (segue citazione in sanscrito). Il senso è il seguente: ‘Proprio quella persona nella sua natura intima è spirito; in lui esiste uno che è simile a spirito sussistente per atto di volontà; e colui che esiste attraverso la bocca (cioè la Parola) e tenuto stretto al petto di quella persona (cioè il Figlio), quella persona insieme (ad altri) è Signore e causa (efficiente) di tutte le cose’ “

E si poneva questa domanda a proposito della tradizione scritta nel suo insieme:

“Non dicono molte cose che sono compatibili con la vera Religione ... ?”.[4]

Le affermazioni di De Nobili troveranno ampi riscontri nel dibattito teologico dell’India contemporanea. Si potrebbe dire che ne anticipano l’ispirazione principale, sempre tenendo presente, tuttavia, che  si tratta di semplici suggestioni poiché il contesto attuale dei rapporti tra concezione cristiana e hinduista è profondamente e globalmente mutato.

Come prima approssimazione si può infatti affermare che il periodo storico decisivo per il sorgere della teologia indiana contemporanea non è tanto quello che si riferisce alle origini remote o all’epoca moderna, ma piuttosto l’ottocento, e si manifesta come reazione alla crescente assunzione di consapevolezza della propria identità da parte dell’Hinduismo, che a sua volta reagisce ad una rinnovata espansione missionaria cristiana in concomitanza con le ultime frontiere del colonialismo occidentale.

E’ in tale contesto che si formalizzano i problemi che poi diverranno centrali nella riflessione della teologia del novecento e, ancora prima, nei precursori dell’ottocento. Poco per volta cresce in ambito cristiano la sensazione della inadeguatezza della teologia tradizionale nell’affrontare la complessa e millenaria tradizione religiosa dell’Hinduismo, ancor più accentuata dalla spinta innovativa e a sua volta missionaria e internazionalista che quest’ultimo assume nella rinascita neohinduista. Le teologie cristiane che si affacciano all’oriente in questo periodo sono pervase dalla convinzione della superiorità indiscussa del Cristianesimo, spesso connesso inestricabilmente o addirittura identificato con la civiltà occidentale. L’atteggiamento di superiorità sul terreno specificamente religioso portò con sé una lettura superficiale dell’Hinduismo, identificato in blocco con il puro e semplice paganesimo, quindi con una espressione religiosa deteriore e detestabile, quale si manifestava nel caotico quadro esterno delle sue pratiche religiose, delle manifestazioni di fatalismo e di immobilità sociale. In questa fase l’Hinduismo poteva apparire ad alcuni come un male da cui fuggire e il Cristianesimo come il destino futuro ineluttabile dell’India. Non pochi, anche delle classi alte, scelsero il Cristianesimo, accettarono il battesimo con le conseguenze gravi che esso comportava (ostracismo sociale, rottura di tutti i legami familiari, privazione dell’eredità) e ciò valse a creare in alcuni un distacco ancora più marcato dalle proprie origini hinduiste, quale ancora oggi si può cogliere all’interno delle comunità cristiane.[5]

Di fatto, però, i primi passi della nuova teologia presero l’avvio da coloro che, invece, tentavano di stabilire punti di comunicazione e di interazione tra le due tradizioni religiose e soprattutto di assumere in profondità la tradizione locale nella sua portata spirituale, religiosa e culturale.

 

 

LA RINASCITA NEOHINDUISTA

 

L’iniziativa in questa direzione non spetta ai cristiani, ma piuttosto ad alcuni hinduisti che, pur partendo da una profonda ammirazione per la figura e il messaggio di Gesù, non intendevano rinunciare alla loro fede tradizionale. Sono essi che diedero impulso alla rinascita neohinduista:

“Fu il risultato di un’interazione tra Hinduismo e Cristianesimo. In termini più concreti, il primo Movimento di Rinascita Indiana nacque come frutto dell’influenza del pensiero occidentale e della filosofia dello spirito indiano. Si concentrò sulla rivitalizzazione della religione hinduista”.[6]

La rinascita hinduista richiama le personalità di Raja Ram Mohan Roy (1772-1833), Keshub Chander Sen (1838-1884), Ramakrisna Paramahansa (1834-1886), Swami Vivekananda (1836-1902) e Swami Dayananda Sarasvati (1824-1883). Ciascuno di loro propose una specifica soluzione al rapporto tra Cristianesimo e Hinduismo, entro il quadro generale del rilancio di quest’ultimo sia pure nell’orizzonte di una sostanziale accettazione del pluralismo religioso. Queste posizioni, che nascevano da un atteggiamento difensivo nei confronti del Cristianesimo, divennero un punto di riferimento per affermare con sempre maggior forza una dimensione fino ad allora inespressa dall’Hinduismo, cioè una vera e propria proiezione missionaria sia all’interno dell’India sia (fatto completamente nuovo) a livello internazionale, una tendenza che ancora oggi pare in continua espansione.

In sintesi queste sono le posizioni ideali della rinascita neohinduista:

  1. si opera un ritorno alle fonti vediche e in particolare ai testi delle Upanisad
  2. si ricerca una visione unitaria all’interno delle pratiche e delle tradizioni
  3. si relativizzano le differenze tra le religioni
  4. comunque, si afferma la loro legittima diversità solo in quanto fenomeni storici che non intaccano il riferimento all’unico Assoluto che costituisce l’essenza di ogni religione ed è soprattutto ricercato nelle Upanisad
  5. in particolare alcuni riformatori (Roy, Sen,) avvertono l’opportunità di aprire l’Hinduismo alle istanze religiose del Cristianesimo, ne approfondiscono la conoscenza che diviene un riferimento fondamentale per la riforma della propria tradizione
  6. nello stesso tempo essi assumono un atteggiamento di reazione attiva, sul piano sia organizzativo sia teologico, nei confronti della presenza dei missionari cristiani, il che a sua volta porrà le premesse per il sorgere di una nuova teologia cristiana in India
  7. si sottolinea di Gesù la sua origine orientale e la necessità di sottrarlo alla sua inculturazione nell’occidente, sostenendo l’idea - in seguito spesso ricorrente - che sarà l’oriente più che non l’occidente a ricomprenderne il significato (Sen, Mozoombar)
  8. nella reinterpretazione del Cristianesimo alcuni riformatori insistono sulla necessità di porsi in atteggiamento ricettivo nei suoi confronti, altri tendono invece a incorporarlo nel loro sistema fislosofico-religioso (Vivekananda); una tendenza, quest’ultima, che avrà molto seguito in figure successive di riformatori (Rabindranath Tagore, Sri Aurobindo, Radhakrisnan, Osho Rajneesh, Sai Baba, ecc.)
  9. la visione neohinduista è considerata la migliore soluzione del pluralismo religioso della complessa società contemporanea

10.  in particolare, a differenza del Cristianesimo, alcuni riformatori propongono il loro neohinduismo come l’unica religione in grado di accogliere altre tradizioni pur rimanendo tale

11.  si ritiene inoltre che l’Hinduismo rinnovato debba svolgere un ruolo riformatore di ritorno verso l’occidente, uscendo dai confini dell’India (‘Ramakrisna Mission’ di Vivekananda)

12.  si manifesta una nuova sensibilità per la storia, per l’agire e per le riforme sociali [7]

13.  esiste anche una componente che prende una posizione decisamente ed esplicitamente anticristiana, nella quale la riaffermazione della tradizione hinduista rivendica come tipica dell’India solo la propria tradizione religiosa e anche il ritorno ai Veda assume i caratteri dell’esclusivismo e del nazionalismo (Arya Samaj[8], fondato da Swami Dayananda Sarasvati nel 1875).[9]

Un teologo indiano contemporaneo,  Stanley Joseph Samartha, riconsiderando la posizione neohinduista, la giudica una ‘risposta a Cristo senza sentirsene coinvolti’. La sua valutazione - che si pone ovviamente dal punto di vista della fede cristiana - si fonda su questi rilievi critici:

  1. l’esperienza viene elevata a criterio supremo
  2. si usano selettivamente le Scritture sia hinduiste sia cristiane
  3. il Primo Testamento è scarsamente presente e il Secondo si limita al Vangelo di Giovanni
  4. l’elezione di Israele è interpretata come manifestazione di arroganza
  5. la storicità di Gesù non ha particolare significato
  6. si tende a universalizzare e a genericizzare la figura di Gesù astraendola dal contesto ebraico e occidentale
  7. di Lui si sottolinea soprattutto l’insegnamento morale in particolare nel discorso della montagna
  8. la sua morte in croce è considerata con rispetto
  9. ma non si tiene in considerazione la sua risurrezione

10.  Cristo, poi,  è separato dalla storia del Cristianesimo e dalla chiesa

11.  e diviene di fatto una pura appendice a conferma del proprio sistema[10].

Samartha inserisce queste sue osservazioni nel contesto più generale della sua concezione del dialogo con l’Hinduismo, come si vedrà in seguito. I rilievi sopra citati evidenziano, in ogni caso, alcuni innegabili tratti caratteristici del modo in cui le correnti contemporanee di ispirazione hinduista, e operanti anche al di fuori dell’India,  intendono e gestiscono il rapporto con il Cristianesimo. 

Samartha inserisce queste sue osservazioni nel contesto più generale della sua concezione del dialogo con l’Hinduismo, come si vedrà in seguito. I rilievi sopra citati sottolineano certamente alcuni tratti discutibili del modo in cui l’Hinduismo ha precisato attraverso le correnti di rinnovamento la sua interpretazione - assunzione (in larga misura immutabile fino ad oggi, all’interno e al di fuori dell’India) del Cristianesimo. Ciò non può tuttavia misconoscere quanto questa interpretazione - assunzione in alcuni esponenti del neohinduismo si traduca in espressioni di grande attenzione e venerazione per la concezione cristiana della Trinità (Keshub Chunder Sen) e per la persona di Gesù,  come si coglie dalle seguenti parole di Ramakrisna:

“Gesù il Cristo: il grande Yogi[11], il figlio innamorato di Dio, uno con il Padre, che offerse il sangue del suo cuore e soffrì infiniti tormenti per liberare l’uomo dal dolore e dalla infelicità”[12].

Gesù per il quale, il suo discepolo Vivekananda, afferma:

“Se fossi vissuto in Palestina nei giorni di Gesù di Nazaret, avrei lavato i Suoi piedi, non con le mie lacrime, ma con il sangue del mio cuore”[13].

E’ infatti da questo amore appassionato per Gesù Cristo che nella tarda sera della vigilia di Natale del 1886 che Vivekananda si sentì spinto a imitarlo costituendo un gruppo di discepoli-missionari e chiedendo loro di lasciare tutto per seguire alla lettera le parole del Vangelo  e porsi così al servizio disinteressato del prossimo e dell’umanità. E lo fece riassumendo ad essi la vita di Gesù e citando il passo : ‘Le volpi hanno tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo’. Quella data segnò la fondazione dell’ordine monastico della ‘Missione di Ramakrisna’,  come atto di riconoscenza nei confronti di colui che lo aveva aperto alla conoscenza e all’amore del Maestro di Nazareth.

E’ però lo stesso Vivekananda a ribadire con assoluta fermezza che l’unicità di Gesù non ha nulla di esclusivo poiché in lui si manifesterebbe in via puramente esemplare ma ricorrente e indefinitamente ripetibile l’apparire storico dell’Assoluto:

“Io accetto tutte le religioni che ci furono nel passato, e le venero tutte con loro; venero Dio con ognuna di esse, in qualsiasi forma Lo venerino. Andrò alla moschea con i Maomettani; entrerò nella chiesa dei Cristiani e mi inginocchierò di fronte al crocifisso; entrerò nel tempio Buddhista, nel quale troverò rifugio in Buddha e nella sua legge. Andrò nella foresta e siederò in meditazione con l’Hindu che cerca di vedere la luce che illumina il cuore di ciascuno”[14].

Vivekananda ritenne pure di poter dimostrare che il messaggio di Gesù non era così eccezionalmente nuovo come si sosteneva nella tradizione cristiana ed era particolarmente sottolineato dalla predicazione dei missionari del tempo. Anzi era convinto che fosse derivato dal Buddhismo attraverso una ininterrotta catena di influenze provenienti dall’oriente[15]. In quest’ottica l’insegnamento di Gesù viene sottoposto ad esegesi, soprattutto con riferimento al vangelo di Giovanni, che egli portava sempre con sé. In particolare il testo che dice: ‘Io e il Padre siamo una cosa sola’ gli pareva una ripresa del contenuto fondamentale del Vedanta, per il quale fine di  ogni cosa, di ogni religione è quello di manifestare  la nostra vera natura, cioè ‘il divino dentro di noi’, secondo il principio - irrinunciabile per l’Hinduismo - che ‘la verità è una: i saggi le danno nomi diversi’.

Ma su diversi altri punti il suo parere era del tutto discorde dalla lettura tradizionale cristiana, come si nota nelle sue considerazioni critiche esplicite sulla dottrina del peccato, dell’anima; ma, più a fondo, sulla concetto stesso di mediazione redentrice e sulla rilevanza in sé della storicità nella figura di Gesù.

La tesi di Vivekananda che il Cristianesimo derivi dal Buddhismo manca di ragionevole fondamento. Tuttavia lascia intravedere un aspetto importante del contesto ideologico e polemico nel quale operava. La sua è una risposta che rivela chiaramente l’intenzione di sottrarre il Cristianesimo alla tradizione occidentale,  rivendicandone le  origini orientali. Anche questo atteggiamento incontrerà frequenti riscontri negli sviluppi del pensiero teologico indiano.  Analogamente Vivekananda sottrae la figura di Gesù al Cristianesimo storico sia affermando in modo provocatorio che ne costituirebbe un tradimento palese per le sue distorsioni attuali e passate che - secondo lui - lo avrebbero degradato a un sistema di superstizioni sia negando qualunque riconoscimento di autenticità alle chiese, soprattutto nel loro aspetto missionario, contro cui non mancano parole molto severe e aspre. Ciò avveniva specialmente quando doveva rispondere alle critiche che in ambito missionario si rivolgevano alle Scritture sacre dei Veda o la concezione del Supremo in esse contenuta:

“E’ divenuto un luogo comune che l’idolatria sia  sbagliata e tutti lo accettano senza problemi. Un tempo la pensavo così, e per pagare il pedaggio di ciò dovevo imparare la mia lezione sedendo ai piedi di un uomo che vedeva tutto attraverso idoli. Mi riferisco a Ramakrishna Paramahansa. Se persone come Ramakrishna Paramahansa sono prodotte da adoratori di idoli che cosa ne deriva: il credo riformato o un certo numero di idoli? Voglio una risposta. Fatevi un migliaio di idoli in più se siete in grado di produrre dei Ramakrishna Paramahansa per via di idolatria, e che Dio ve la mandi buona! Producete tali nobili nature in qualunque modo. Eppure l’idolatria è condannata! Perché? Nessuno lo sa. Perché alcune centinaia di anni fa a qualcuno di sangue Ebreo venne in mente di condannarla? Vale a dire, gli venne in mente di condannare gli idoli di chiunque altro fuorché i propri. Se Dio è raffigurato in qualsiasi splendida forma o simbolica forma, disse l’Ebreo, è un male spaventoso; è peccato. Ma se è raffigurato nella forma di uno scrigno, con due angeli seduti a ciascun lato, e una nube sovrastante, allora è il santo dei santi. Se Dio scende in forma di colomba, è santo. Ma se scende in forma di vacca, è superstizione pagana; condannatela! Così va il mondo. Questa è la ragione per cui il poeta dice: ‘Che stupidi noi mortali!’ ... Giovanotti, ragazzini con mostacchi, che mai uscirono da Madras, che si alzano in piedi e vogliono dettare legge a trecento milioni di persone che hanno alle loro spalle migliaia di tradizioni!“[16]

Per quanto riguarda la posizione di Keshub Chunder Sen, il successore  più autorevole insieme a Debendranath Tagore (padre del poeta Rabindranath Tagore) di Ram Mohan Roy nella conduzione del Brahma Samaj insieme sulla Trinità è sufficiente citare questo passaggio del suo insegnamento:

“La Trinità della teologia cristiana corrisponde in modo impressionante al Saccidananda[17] dell’Hinduismo. Sono tre condizioni,  tre manifestazioni  della divinità. Eppure vi è un solo Dio, un Essere e tre fenomeni. Non tre Dèi, ma un solo Dio. Sia solo sia rivelato nel Figlio o come Vivificatore dell’umanità in quanto Spirito Santo, è sempre lo stesso Dio, la stessa identica Divinità, la cui unità nonostante la pluralità delle manifestazioni rimane indivisibile ... Chi potrebbe mettere in dubbio che si tratti di una essenziale e indivisa Unità nella cosiddette Trinità. Se io dovessi contemplare nella comunione della solitudine il mistero del miracolo del Cristianesimo, cioè la Trinità, allora, chiusi gli occhi, rapito in estasi e compreso di sublime silenzio,  punterei le mie dita in questo modo: sopra, sotto e dentro; il Padre sopra, il Figlio sotto e lo Spirito Santo dentro”[18]

Si può facilmente comprendere che l’autore per queste affermazioni e per altre analoghe che riguardano la persona di Gesù - contemplato e amato soprattutto nella sua dimensione giovannea in quanto Logos, da sempre operante nella creazione e per sempre propulsore di una evoluzione senza fine - fosse ritenuto dai suoi contemporanei hindu ormai di fatto un convertito al Cristianesimo, mentre l’autonomia delle sue  interpretazioni, dello stile di vita impresso al suo Samaj e la non accettazione del battesimo lo rendevano inaccettabile alla comunità cristiana del tempo.  Ma il suo pensiero, forse più di ogni altro, aperse le strade ad alcuni precursori della teologia indiana contemporanea nel prendere coscienza della necessità ormai ineludibile di un nuovo modo di rapportarsi con la propria tradizione nella comprensione di se stessa e del Cristianesimo.

 

 

VERSO UNA SVOLTA DELLA TEOLOGIA

 

Non è facile stabilire quando comincia a delinearsi nel Cristianesimo indiano la consapevolezza di quello che oggi si dice il ‘new theologizing’, il nuovo modo di far teologia, termine ricorrente per definire la nuova soglia di autocoscienza della teologia indiana contemporanea..

Più facile è senz’altro individuare coloro che, almeno nel riconoscimento attuale, ne sono ritenuti i precursori e i primi maestri in ambito cattolico o protestante.

Ed è pure facile notare - né stupisce - che il confronto con l’Hinduismo rappresenta uno dei punti rilevanti di questo nuovo modo di far teologia oltre, naturalmente, al confronto con il contesto generale della società indiana sottoposta a rapide e profonde trasformazioni, soprattutto a partire dall’impatto con il colonialismo dell’ottocento.

Se per teologia si intende prioritariamente la ricerca e la riflessione sull’Assoluto, tale oggetto costituisce da millenni il punto di riferimento qualificante della tradizione indiana. Tale ricerca e tale riflessione sono infatti centrali nella sua esperienza religiosa e filosofica, nel suo orientamento di fondo sia culturale sia spirituale.

Ma quale Assoluto? Si può identificare con Dio?

Per definizione l’Assoluto è - secondo una convinzione largamente dominante nell’Hinduismo - indefinibile poiché nei suoi confronti non si avanza alcuna presunzione di esaurirne in termini concettuali e verbali la natura o l’essere:

“Quell’imperituro Uno, ... ,

è il veggente che mai si può vedere,

è l’uditore cha mai può essere udito,

il conoscente che mai può essere conosciuto” [19]

Eppure - secondo una convinzione altrettanto accreditata - l’Assoluto è l’oggetto di una tensione che percorre da sempre le istanze più profonde della multiformi manifestazioni spiritualità indiana, una tensione che riconosce come suo vertice il conseguimento e addirittura l’esperienza immediata dell’Assoluto stesso attraverso molteplici vie, in particolare attraverso l’ultimo rimando al sé interiore dell’uomo[20], che alcune correnti ritengono si identifichi proprio con l’Assoluto stesso:

“E’ il Sé solo, ... ,

che deve essere visto, udito, pensato, meditato ...

Quando è conosciuto, solo allora è conosciuto tutto ciò che esiste ... “[21]

L’Inaccessibile si rende in qualche modo percepibile nel sé profondo di coloro che lo ricercano in dedizione totale di vita (sannyasi)[22].

La via dell’interiorità, le tecniche che aprono percorsi verso l’esperienza dell’Assoluto contrassegnano dunque fin dal millennio che precede Cristo l’originalità e la meta più alta della tradizione hinduista. Queste vie attestano nello stesso tempo la ineffabilità dell’Assoluto e la sua accessibilità esperienziale, in termini che spesso risultano incongrui alle categorie correnti nella teologia occidentale, sia quando vengono formulati attraverso la via della conoscenza (jnana) sia quando assumono i connotati intuitivi e sovrarazionali della devozione e dell’amore (bhakti).

Non si potrebbe, a rigore e al limite, parlare di teologia nell’Hinduismo se non in senso analogico poiché in suoi importanti filoni non riconosce al concetto di Dio e agli attributi comunemente sottesi in occidente a tale concetto il valore di realtà ultima e di Assoluto. Si spiega così perché  una parte consistente dell’impegno della teologia cristiana in India tenta di gettare ponti e di stabilire connessioni appunto tra la concezione biblica di Dio e quella dell’Assoluto nella tradizione hinduista.

Ciò è particolarmente evidente fin dai primi tentativi di inculturazione agli inizi del XVII secolo, ma soprattutto emerge con particolare urgenza nella riflessione di alcuni pionieri della nuova teologia alla fine dell’ottocento, riflessione  che prepara gli sviluppi della teologia attuale, che sarà ancora più specificamente connotata dalle istanze del dialogo e da una attitudine interculturale.

Né altro atteggiamento teologico sarebbe pensabile nel contesto religioso dell’India, come suggerisce una analisi preliminare di Swami Abhishiktananda[23] che in una forma marcatamente drammatica esprime la potenziale estraneità del Cristianesimo rispetto al mondo hinduista, mentre per contro evidenzia anche le provocazioni positive nei confronti del pensare teologico. Queste osservazioni sono scritte a metà degli anni settanta del novecento. Tuttavia sono utili per comprendere il clima spirituale dal quale presero l’avvio i primi passi di quella inversione di rotta nella considerazione dell’Hinduismo che il Cristianesimo indiano intraprese nel secolo scorso in forma sporadica e pioneristica e poi in modo sempre più consistente lungo questo secolo:

“I cristiani in India si confrontano con una esperienza religiosa e spirituale la quale, non meno della loro, pretende di esser ultimativa. In nome di quella esperienza i saggi e i mistici dell’Hinduismo fanno a gara nell’affermare la condizione essenzialmente relativa di qualsiasi realtà che venga percepita dai sensi o dalla ragione umana. Sotto questa valutazione essi includono senza eccezione non solo le verità che gli uomini possono scoprire attraverso l’intelletto, ma anche quelle che essi sostengono di aver ricevuto direttamente da Dio per rivelazione divina. Fedi, riti e istituzioni religiose di ogni tipo cadono sotto tale generale svalutazione.

Lo jnani[24] hindu non nega certamente valore alla fede e alle istituzioni cristiane. Egli ritiene che siano utili e senza dubbio benefiche per persone di un particolare bagaglio culturale, fino a tanto che la loro esperienza spirituale rimane confinata nella sfera del tempo e della molteplicità. Questo rimane valido non solo per il Cristianesimo ma anche per tutte le religioni, non escluso lo stesso Hinduismo. Fino a quando un uomo stabilisce una distinzione tra l’Io, il mondo e Dio, per lui dogmi e riti non sono unicamente legittimi, ma persino necessari. Nessuno ha mai diritto di eludere gli obblighi del suo proprio dharma[25], fino a quando non ha ancora conseguito l’esperienza ultima. Non basta che egli abbia eventualmente letto nelle Scritture o udito dal suo guru che la realtà  ultima è l’Advaita o  la non-dualità[26].  La libertà che è inerente allo stato di liberazione o moksa[27] può essere attinto solo dall’esperienza. Nessuna convinzione puramente intellettuale la consegue poiché ogni atto dell’intelletto si ferma inevitabilmente al livello dualistico dell’esperienza ordinaria.

Da un punto di vista vedantico né le scritture hindu né i dogmi o i sacramenti cristiani hanno valore definitivo.  Essi sono come la zattera di cui spesso parlò Buddha. Se ne fa uso per attraversare il fiume e, in caso di emergenza quando non c’è altro,  ci si potrebbe anche costruire una zattera in proprio; ma nessuno si sognerebbe di portasela con sé una volta toccata l’altra riva. Oppure, essi sono simili ad un accendino, di cui si parla nelle Upanisad[28]: se ne fa uso per accendere la lampada, ma lo si getta senza più pensarci, una volta che la lampada è accesa...

E’ precisamente questo - il suo rifiuto di definizioni concettuali e il suo costante riferimento all’esperienza trascendente - che rendono il seguace del Vedanta[29] così irriducibile nella sua opposizione a ogni tentativo di assolutizzare qualsiasi concetto o esperienza della coscienza fenomenica. Precisamente come avviene nella fede cristiana, l’esperienza dell’Advaita si verifica ad un livello rispetto a cui non è ammesso alcun paragone. Entrambe assumono lo stesso orientamento. Senza negare il valore della ragione umana nel suo specifico livello, entrambe rigettano il suo giudizio nella misura in cui sono coinvolte. Qui non ci sono neppure due ‘rivelazioni’ i cui contenuti possano essere confrontati fenomenologicamente, come avviene per il Cristianesimo e l’Islam. L’esperienza del Vedanta, come quella del Buddhismo e del Taoismo originale, può essere capita solo nei propri termini. La sfida lanciata al Cristianesimo, come ad ogni forma di religione e di filosofia, dall’esperienza spirituale orientale, è qualcosa di ultimativo. Essi sono spinti al loro limite estremo di difesa e obbligati ad affrontare un dilemma ultimativo: o restare per sempre al livello di ciò che è molteplice e relativo o consentire che la proria identità sia dissolta nella esperienza travolgente dell’Assoluto”[30] 

Questa pagina è illuminante per comprendere il rilievo della questione di Dio nel confronto tra Cristianesimo e Hinduismo. Il confronto evidenzia profonde affinità e altrettanto profonde differenze, fino alla consapevolezza di una radicale alterità, che tuttavia non esclude, anzi  - secondo alcuni - potrebbe persino stimolare un processo originale di reciproca feconda inculturazione.

 

 

NUOVE CATEGORIE PER PENSARE DIO IN INDIA? I PRECURSORI 

 

Tale è senza dubbio l’intenzione primaria del ‘padre della teologia indiana’ Brahmabandhav Upadhyaya (1861-1907). E’ una personalità che proviene dall’interno del processo riformatore dell’Hinduismo (alcuni non lo riterranno mai pienamente convertito al Cristianesimo), legato personalmente ai leaders della rinascita hinduista, amico intimo di Swami Vivekananda e seguace di  Keshab Chandra Sen, che egli considerava la personalità più eminente dell’India moderna.

Nato da una famiglia influente di brahmini del Bengala, educato in un clima rigorosamente ortodosso, all’età di 30 anni si converte al Cristianesimo mentre è ancora profondamente coinvolto nella militanza neo-hinduista. Quando riceve, a trent’anni,  il battesimo nella Chiesa Anglicana egli cambia il suo nome (Bhavani Charan Banerji) con quello programmatico di Brahmabandhav (amico di Brahman), traduzione in sanscrito di Theophilos. In effetti la sua originalità teologica sarà appunto contrassegnata dalla ricerca su Dio e fin dall’inizio suo fine prioritario diverrà la conciliazione tra Hinduismo e Cristianesimo. Questa convinzione fondamentale prende forma in un grande progetto di riforma del Cristianesimo attraverso la sua inculturazione nella tradizione indiana nel quale il modo di essere delle chiese avrebbe dovuto profondamente deoccidentalizzarsi. Accettato in un primo momento il battesimo nella Chiesa d’Inghilterra, riceve in seguito (sub conditione) il battesimo cattolico. Introduce quindi un nuovo modello di evangelizzazione rendendosi sannyasi (asceta) e cerca di accreditarsi presso il mondo cattolico con riferimento al precedente illustre di Roberto De Nobili. Non riesce però a fondare un nuovo monachesimo che avrebbe dovuto assumere una duplice direzione: la prima doveva predicare in forma itinerante il Vangelo reinterpretato attraverso il Vedanta; la seconda, invece, doveva conservare un carattere prettamente contemplativo. In questa sua iniziativa egli è duramente contestato dal Delegato Apostolico. Ma egli non si arrende. Decide di appellarsi a Leone XIII, senonché motivi di salute gli impediscono il viaggio a Roma. Intanto gli viene proibita la pubblicazione della rivista ‘Sophia’, nella quale sta diffondendo le sue posizioni teologiche. Deluso dalle remore e dai condizionamenti strutturali della vita ecclesiastica, sceglie per conto suo la vita mendicante e itinerante, in un rapporto che resta contenzioso con la Chiesa fino agli ultimi giorni della sua vita. Il viaggio in Inghilterra lo rende ancor più ostile verso il volto occidentale del Cristianesimo, si orienta sempre più ad assumere tradizioni religiose locali (culto di Krisna e Sarasvati), pur difendendo nello stesso tempo la specificità e unicità di Gesù Cristo. Infine accetta per sé il rito di purificazione hinduista (prayascitta) e di pentimento per le sue contaminazioni con stranieri, che alcuni cristiani ritengono sia il segno di un suo definitivo distacco dalla fede. Le sue affermazioni risultano sempre meno accettabili e ancor più pericolose le sue dichiarate posizioni antibritanniche. Ma egli fino alla fine rivendica la legittimità e l’ortodossia della sua doppia appartenenza al Cristianesimo e all’Hinduismo.

La riflessione si Upadhaya appare oggi con tutto il rilievo di un impegno teorico tra i più significativi a tre secoli di distanza dall’esperienza di inculturazione di Roberto De Nobili. Le sue interpretazioni trinitarie e cristologiche sono definite ‘bold theological attempts’ da J. Parappally[31]. Felix Wilfred lo ritiene ‘seminal thinker’[32] per la sua funzione di stimolo e di apertura nei confronti della teologia posteriore. Analogamente J. Lipner e G. Gispert-Sauch, che hanno curato una recente edizione dei suoi scritti, lo ritengono una personalità che ha dato forma a un nuovo modo di pensare per i cristiani dell’India[33].

Il suo è forse il tentativo più coerente e geniale di far emergere il Dio della rivelazione cristiana dall’interno stesso della concezione vedantica dell’Advaitavada (non dualità), seguendo l’interpretazione che di essa diedero il filosofo Sankara[34](circa 700-750 d. Cr.) e la sua scuola, secondo Upadhyaya, la scuola assolutamente preminente nella tradizione hinduista sia per la vastità della produzione di opere (sue o a lui attribuite dalla tradizione[35]) sia per la qualità del pensiero. Non era questa la posizione iniziale di Upadhyaya, che nel primo periodo dopo la sua conversione preferiva richiamarsi ad una teologia più genericamente ‘vedica’, sulla scia del suo maestro Banerji, ma poi si convinse che precisamente in Sankara doveva essere individuato il vertice della tradizione e del pensiero hinduista.

Upadhyaya parte dal presupposto che la rivelazione cristiana è la rivelazione perfetta di Dio, perciò unica. Quando tuttavia si tratta di interpretarla razionalmente occorre riconoscere pari dignità sia al pensiero teologico occidentale (tomistico, in definitiva) sia a quello orientale (concezione Advaita di Sankara). Anzi, per certi aspetti, egli ritiene che la visione Advaita dell’Hinduismo si dimostri addirittura più consona alla spiegazione della Parola Rivelata nella Scrittura. Era sua convinzione infatti che l’Advaita non fosse solo la via più adeguata per aprire una varco nella mentalità hinduista alla concezione cristiana,  secondo l’operazione analoga svolta dal tomismo in occidente nei confronti della cultura greco-aristotelica. Egli sosteneva addirittura che ‘di per sé’ l’Advaita fosse il migliore strumento di accesso alle verità soprannaturali della rivelazione cristiana.[36]

Da Sankara egli trae la definizione dell’Assoluto in termini (che poi avranno largo seguito) di Sat (Essere esistente di per sé) - Cit (Intelligenza autocosciente) - Ananadam (Beatitudine di se stesso). Questo  Assoluto e anche Nirgunam (Irrelato, Impersonale) eppure conoscibile poiché è alla radice dello stesso poter pensare, anche se la coscienza avvolta dall’illusione non avverte la sua identità con l’Assouto. Ma una volta liberata dall’ignoranza (moksa) la coscienza è in grado di scoprire tale vera identità.

Si fondono così nell’Assoluto - secondo Upadhyaya - le due caratteristiche, solo apparentemente, contrarie dell’Essere Incondizionato, Irrelato, Inattingibile (presupposto della più alta speculazione religiosa hinduista) e dell’Essere Attingibile in qualità sia di fonte della conoscenza sia di plenitudine di relazione nell’intimo di se stesso.

Il pensiero di Sankara  tenta infatti di penetrare ulteriormente nella comprensione dell’Assoluto e lo percepisce come pienezza dell’Essere: tutto ciò che esiste non può provenire da un non esistente, poiché solo l’esistente può concepire il non esistente. Se poi l’Assoluto esistente non fosse pienamente appagato di sé e del suo concepirsi non sarebbe l’Assoluto dal momento che egli può avere necessità solo da se stesso. Ciò premesso Upadhyaya conclude:

“Noi possiamo chiaramente e sicuramente affermare che questa concezione Vedantica della natura dell’Essere supremo segna il termine ultimo della ragione umana nella sua lotta per penetrare nelle regioni eterne. La fede cattolica è esattamente la stessa. Dio è l’unico essere eterno; Egli è prettamente positivo poiché la particella ‘non’ di Lui non si può predicare. Egli conosce Se stesso e riposa in Se stesso con il più sublime compiacimento”.[37]

E precisa:

“Dio comprende Se Stesso con un unico atto di eterna conoscenza. Il sé che conosce è il Padre, il sé che è conosciuto o l’auto-generato (self-begotten) dalla Sua conoscenza è il Figlio; e lo Spirito Santo è lo Spirito del reciproco amore procedente dal Padre e dal Figlio”[38]

Importante è anche la riflessione di Upadhyaya sulla creazione, uno dei punti più controversi della tradizione religiosa hinduista nel rapporto con le religioni abramiche, per le molte implicanze che comporta: la affermazione della realtà oggettiva di ciò che esiste distinto dall’Essere assoluto (comunemente inteso come Unico esistente); la appartenenza o meno del Dio delle tradizioni religiose abramiche alla sfera dell’Assoluto oppure a quella del mondo apparente e illusorio; la ricerca delle ragioni per cui l’Assoluto (per definizione, pienamente appagato di sé) avrebbe dovuto concepire esseri altro da sé e in che modo li avrebbe potuti creare (o emanare?).

Vari sistemi filosofici tentarono di dare una risposta a questi interrogativi. Nel sistema Nyaya si ammette Dio come creatore, ma non dal nulla bensì da un atomo primordiale ed eterno (paramanu); Egli dunque è propriamente solo ordinatore dell’universo - da sempre coesistente con Lui -, suo preservatore, guida morale e giudice dell’agire umano. Il sistema Sankhya parte invece da una concezione dualistica dell’universo. Le ultime realtà sono di carattere spirituale (purusa),  sono coscienza del mondo e del suo divenire, ma non attingibili dalla sfera mondana, completamente distinte dalla causa del mondo, che è parimenti eterna, ma inconsapevole (prakrti). Il mondo si spiega da se stesso per evoluzione della prakrti, né si può dimostrare l’esistenza di Dio o - secondo alcuni - lo si può concepire solo come spettatore dell’universo, non come interferente attivo e creatore.

Il sistema Vedanta di Sankara sostiene a sua volta che solo l’Assoluto è reale, che solo Lui veramente esiste, che in lui non vi è alcuna molteplicità. Come spiegare, allora, l’esistenza dell’universo che è molteplicità di esseri? Per Sankara la molteplicità degli esseri è Maya (Illusione), operata dal potere imperscrutabile dell’Assoluto: “Brahma è reale; il mondo è non reale’, ‘Tutto è Brahman’, ‘Qui molteplicità non esiste’:  Brahma solo è esistente per sua propria natura, è privo di qualità e attributi contingenti, in lui non c’è coscienza secondo la concezione comune dell’Io, del Tu o del Ciò, è non definibile in termini di sapere e di potere secondo il modo umano di intenderli,  è immutabile e indefettibile. All’infuori di lui, l’intero universo, è non-realtà, cioè nulla. Solo l’ignoranza induce nell’illusione che il mondo sia reale, che ci fa scambiare una corda per un serpente o una conchiglia luccicante per argento puro. In quest’ottica concepire Dio come creatore significherebbe leggere la sua realtà a partire dalla apparenza illusoria del mondo. Quando  si superi questa visione, che è frutto dell’ignoranza, Egli appare non più tale, esattamente come agli occhi di  chi conosce il trucco  cessa ogni suggestione del prestigiatore.[39].

Si comprende allora la attribuzione alla sua filosofia della qualificazione di Advaita (Non-due), espressione classica di una visione monistica, la quale non può accettare l’idea che l’Assoluto e il mondo costituiscano due distinte realtà e soprattutto che il mondo possieda una sua realtà distinta dall’Assoluto.[40]

Può sorprendere che Upadhyaya scelga proprio il sistema del Vedanta nell’interpretazione di Sankara per trovare il punto di armonizzazione, per lui, più profonda tra concezione cristiana di Dio e Hinduismo. Egli può compiere questo passo perché si oppone alla lettura corrente del pensiero di Sankara e della sua scuola. Questi i punti salienti della sua interpretazione:

1)         il passaggio da a-sat (non essere) all’essere (sat) è in Dio un atto non necessario.

2)         Tuttavia, ciò che prima non esisteva non sarebbe comunque inteso da Sankara come se fosse un puro sogno e illusione (maya), tesi buddhista contro la quale egli polemizza. Quando la letteratura Vedanta parla di realtà come sogno intende invece solo che essa - la realtà creata - non esiste in alcun momento come essere-in-sé, indipendente, bensì in quanto radicalmente soggetta all’Essere supremo nel suo esistere. Né il mondo sarebbe puro ‘gioco di Brahman’, poiché se così fosse ciò contraddirebbe la sua intelligenza e la sua bontà. Il mondo, secondo Sankara, sarebbe semplicemente non necessario.

3)         Rimarebbe comunque misteriosa la ragione ultima del passaggio dall’Assoluto autosufficiente alla creazione di ciò che è relativo (il mondo).[41]

Con queste premesse, Upadhyaya può affermare nello stesso tempo il carattere non assoluto del mondo, la sua dipendenza radicale fin dal primo momento e poi in ogni istante dall’atto creativo di Dio e, infine, la relativa autonomia del creato e la sua reale consistenza oggettiva.

Non è da sottovalutare di Upadhyaya la sua produzione teologica in poesia. A lui si devono in particolare un inno trinitario e un inno cristologico, ancora oggi meditati e cantati nella liturgia, da alcuni accolti quali autentici capolavori di inculturazione della rivelazione trinitaria cristiana nello spirito e nella terminologia del Vedanta[42].

Inno Trinitario:

“Mi inchino a Lui che è l’Essere, Coscienza e Beatitudine.

Mi inchino a Lui che spiriti mondani detestano, a cui animi puri aspirano,

Suprema Dimora.

Egli è il Supremo, L’Antico dei giorni, il Trascendente,

Plenitudine indivisa, Immanente eppure al di sopra di tutte le cose,

Triplice relazione, pura, irrelata,

conoscenza oltre ogni conoscere.

Il Padre, Sole, Supremo Signore, ingenerato,

la Radice senza radice dell’albero dell’esistenza,

la Causa di tutto, Creatore, Provvidenza, Signore dell’universo.

La Parola infinita e perfetta,

la Suprema Persona generata,

Partecipe della natura del Padre, Consapevole per essenza,

Datore di vera Salvezza.

Lui che procede dall’Essere e dalla Coscienza,

ripieno dello spirito di perfetta beatitudine,

il Purificatore, il Capace, il Rivelatore della Parola, il Datore di vita” [43]

La mediazione del pensiero di Sankara - come del resto di ogni altro sistema filosofico hinduista - è, invece, respinta categoricamente da un altro grande precursore della teologia cristiana in India, Nilakantha Sastri Goreh (1825-1895). Egli proveniva da una famiglia brahmanica del Maharashtra e, al pari di Upadhyaya, possedeva una conoscenza approfondita della letteratura Vedica e delle scuole di pensiero hinduista. Dopo la sua conversione e la sua ordinazione nella Chiesa Anglicana prese il nome di Nehemiah Goreh e pubblicò un’opera a forte carattere apologetico nei confronti delle principali scuole hinduiste, una vera e propria confutazione,  e nello stesso tempo esponeva la dottrina cristiana come risposta adeguata ai problemi da quelle scuole sollevati. In esse egli vedeva solo alcuni possibili presagi della rivelazione cristiana (soprattutto in ambito cristologico). La sua confutazione tende a ridurre all’assurdo le posizioni che vuole confutare, ma sempre esponendole con con accurata precisione.

Nello specifico delle concezione di Dio e della creazione egli osserva che  se si parte dal presupposto della realtà illusoria del mondo e del sovrano dominio dell’ignoranza che lo fa concepire come tale non si potrebbe né si dovrebbe logicamente concludere con l’affermazione dell’esistenza di un Assoluto aldilà del mondo, poiché questa affermazione sarebbe comunque sempre sospettabile di essere della stessa origine, cioè proveniente comunque da una visione e da una condizione di ignoranza. Da un un fondamento falso non può sorgere alcun principio o affermazione di sorta che attinga la verità e ancor meno l’Assoluto; ma, d’altro canto, se si pretendono vere le proprie tesi sull’Assoluto e sul mondo occorrerà escludere almeno queste dal dominio dell’ignoranza e dire che non ne sono il frutto. Inoltre i seguaci del Vedanta sono costretti ad ammettere che da sempre l’ignoranza fa da velo all’anima, perché se così non fosse, se la l’ignoranza avesse origine in un tempo determinato, occorrerebbe trovare una causa altrettanto determinata per la sua origine, che essi non sanno indicare. Se dunque l’ignoranza è coeterna con l’Assoluto, come si può dire che l’Assoluto non ha nulla pari a sé? Altra contraddizione: se l’Assoluto è davvero inqualificabile, senza attributi, inattingibile, su quale fondamento lo si definisce Sat-Cit-Anand?

“Il primo articolo del credo vedantico, come è stato tramandato, è che ‘Brahma è vero’. Tuttavia, i seguaci del Vedanta, negando a lui ogni qualità, lo rendono tale che è impossibile provare la sua esistenza. Quando essi ci sentono ascrivere al Supremo Spirito intelligenza, volontà, potere, e altri attributi, e parlare di Lui come Creatore del mondo, essi dentro di sé ci deridono, nella convinzione che noi siamo penosamente ignoranti, poichè le nostre concezioni, a loro modo di vedere, attribuirebbero imperfezione a Lui conferendogli delle qualità; e suppongono che noi nella migliore delle ipotesi riusciamo ad attingere solo Isvara,[44] senza però attingere al puro Brahma. Ma essi non considerano che tale Spirito Supremo, per come essi lo presumono, non si può dimostrare che esista. Come effetto dovrebbe essere arguito dal mondo, che esige una sua causa efficiente: quindi Dio, suo Creatore. Da quale argomentazione si può stabilire l’esistenza di un essere  che Lo trascenda,  un essere che non sia creatore? Inoltre, vorrei chiedere ai seguaci del Vedanta in che modo mai noi conferiamo imperfezione al Supremo Spirito ascrivendogli attributi quali l’onnipotenza e l’onniscienza? E, se Brahma è privo di ogni qualità, su quale fondamento si suppone che sia superiore al Creatore? Dal momento che un essere senza qualità, se mai concepibile, non puè essere pensato o eccellente o quant’altro. Ma, senza questo, è certo ... che tale Brahma senza qualità non si può dimostrare essere un’entità. La percezione non ci dice nulla di lui; e l’arguire ci insegna niente più; poiché egli non ha relazione con alcunché. “[45]

Infine: come conciliare la realtà sia pure apparente del mondo con l’affermazione che nulla esiste se non Brahma? Almeno l’apparenza esisterà; dunque, una qualche azione-relazione in Brahma dovrà pure essere riconosciuta.[46]

Per Upadhyaya, dunque, la via del Vedanta è percorribile teologicamente, mentre per Goreh essa costituisce prevalentemente un termine di riferimento polemico a cui contrapporre un pensiero cristiano immune da mediazioni vedantiche.

In un articolo pubblicato l’anno stesso della morte di Nehemiah Goreh lo stesso Upadhyaya metteva in luce questa differente impostazione teologica e ne vedeva la radice ultima nelle diverse matrici storiche del protestantesimo e del cattolicesimo: la matrice protestante insegna che la natura umana è radicalmente ferita e perciò non è possibile trovare in India un appiglio positivo nella tradizione delle sue Sacre Scritture e del suo pensiero. Diverso è l’atteggiamento cattolico e nel definirlo Upadhyaya ribadiva ancora l’ispirazione di fondo di tutta la sua ricerca teologica:

“Le verità dell’Hinduismo  sono di pura ragione illuminata nell’ordine della natura dalla luce dello Spirito Santo. Esse non vanno oltre la ragione, eppure il loro fondamento permane sulle verità naturali e razionali ... Distruggete la religione naturale e razionale, distruggerete la religione soprannaturale di Cristo. Perciò un vero missionario di Cristo invece di disprezzare l’Hinduismo dovrebbe scoprirvi delle verità attraverso lo studio e la ricerca”[47]

E’ nel clima della rinascita neohinduista e del suo rilancio della letteratura vedica che si comprende anche l’opera di K. Krisna Mohan M. Banerji (1813-1885), un altro significativo precursore della teologia indiana contemporanea. Più precisamente la sua teologia si deve collocare come reazione alle tesi dell’Arya Samaj di Swami Dayananda Sarasvati. Qui si sosteneva che i Veda erano parte costitutiva ed esclusiva della tradizione hinduista da rivendicare contro la presenza missionaria del Cristianesimo in India. Banergji, nello stesso anno della fondazione dell’Arya Samaj (1875) pubblicava un’opera[48] che intendeva dimostrare, al contrario, che le antiche testimonianze vediche erano un chiaro presagio di ciò che la rivelazione biblica avrebbe adempiuto. Egli è fautore, in questo modo, della tesi del compimento dell’Hinduismo nel Cristianesimo.

La posizione di Banerji risente eccessivamente del suo presupposto apologetico, che diviene fin troppo manifesto e abusivo quando tenta di far risalire etimologicamente a radici comuni la lingua ebraica e il sanscrito; o quando, soprattutto, stabilisce parallelismi tra episodi dei Veda e testi biblici. Sotto questa intenzionalità, per molti versi insostenibile, si scopre tuttavia un paradigma teologico che avrà non poca fortuna nelle vicende successive del pensiero cristiano. Egli parla infatti di ‘religione cosmica’ che presiede alla storia della salvezza dell’umanità e che sarebbe rintracciabile non solo nella Bibbia, bensì anche nelle scritture degli antichi rishi[49]. Questi presagi della futura pienezza della rivelazione in Cristo sarebbero particolarmente manifesti nell’importanza e nelle modalità del sacrificio che prefigurerebbero la venuta del Redentore.

La tesi del compimento ebbe notevole successo presso altri autori tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, anche se le gradazioni interpretative di questo compimento possono produrre esiti molti differenziati. In un autore, ad esempio, come J. N. Farquhar (1861-1929), scrittore di un’opera di discreta risonanza[50],  i paralleli che vengono stabiliti fra Cristianesimo e Hinduismo sono tesi piuttosto a sottolineare l’inferiorità del secondo rispetto al primo.

Gli sviluppi successivi della teologia indiana dimostrano che le categorie interpretative di fondo di questi precursori mantengono ancora un rilevante valore paradigmatico nelle concezioni ricorrenti all’interno del Cristianesimo indiano fino ad oggi per quanto se ne può intuire dalle tematiche dibattute dalla teologia e dal modo corrente di intendere i rapporti tra Cristianesimo e tradizioni locali.

In P. Johanns S.J. (1892-1955) la rivalutazione del pensiero vedantico su Dio non assume i caratteri radicali, sia pure opposti, di Upadhyaya e di Goreh o di Banerji. Lussemburghese di origine,  dopo aver ottenuto solide conoscenze linguistiche in sanscrito a Bruxelles e a Oxford, giunge in India nel 1921, dove insegna filosofia al St. Xavier’s College di Calcutta. Qui si unisce ad Animananda, un discepolo di Upadhyaya, insieme ad un gruppo di giovani gesuiti impegnati a mantenere vivo sia uno studio serio dell’Hinduismo sia in particolare il confronto con il Vedanta e il pensiero di Sankara sul quale si era già specializzato in Europa. E’ da questo gruppo che nasce l’idea di una rivista che prenderà il nome di ‘The Light of the East’ (1922), con una precisa allusione al prologo del Vangelo di Giovanni  che peraltro i redattori riproducevano integralmente nella prefazione del primo numero con un significativo commento:

“Rendere noto Gesù all’India e così rendere l’India in grado di ricevere da Gesù maggiore luce e vita ... L’Est ha già luce: religiosa, filosofica, morale. Noi non abbiamo alcuna intenzione di di spegnere queste luci. Piuttosto ce ne serviremo per guidare sia noi stessi sia i nostri lettori sul sentiero che conduce alla pienezza della Luce. Noi cercheremo di dimostrare che il migliore pensiero dell’Est è un germoglio  che nel suo pieno sviluppo fiorirà nel pensiero cristiano”[51]

Anche Johanns propone una interpretazione del pensiero vedantico su Dio sulla scorta di Sankara, nei confronti del quale dimostra profondo rispetto per il suo impegno riformatore del politeismo di fatto (contro il proliferare di divinità antropomorfe) in cui era caduta la tradizione hinduista. Secondo Johanns Sankara, avendo preso atto che le stesse Upanishad non tramandavano che una oscura visione dell’Assoluto, volle riaffermarne la estrema trascendenza. Egli definì  perciò l’Assoluto sussistente solo in se stesso e lo pose oltre ogni relazione con l’universo mondano. Inoltre affermò che nell’uomo esiste una luce che rende possibile la visione dell’Assoluto e questa luce è parte dell’Assoluto stesso. Destino ultimo dell’uomo sarebbe l’identificazione totale col divino attraverso l’annullamento di tutto ciò che lega la coscienza al mondo.

Ciò premesso Johanns avanza tuttavia - sul pensiero di Sankara - un riserva che nella sua formulazione sintetica troverà poi ampi riscontri in molti giudizi ricorrenti sull’Hinduismo (e sul buddhismo):

“Tutto ciò era solo negativo. Sankara non poteva dire alcunché di positivo sulla felicità procurata dalla partecipazione formale alla divinità, eccetto il fatto che essa ci liberava da piacere e dolore ... Egli si era reso conto del radicale fondamento di assoluto in noi  e si aspettava che un giorno si sarebbe infiammato e ci avrebbe compenetrato con la sua luce identica al suo essere, ma con tale forza che avrebbe incenerito la nostra consapevolezza individuale nella quale avrebbe dovuto essere accolto”[52].

A questo punto Johanns si pone la domanda se il cattolicesimo può accettare questa ‘grande intuizione’ di Sankara e la risposta è affermativa poiché il suo non è un puro ragionare, ma è una ricerca amorosa dell’Assoluto, una ricerca che

‘incendiò il cuore dell’India, così appassionato di luce intellettuale e così desideroso di dimorare in essa’.

Tuttavia, questo amore non è paragonabile  a tutte le implicanze insite nell’amore cristiano:

“... Sankara scoprì un aspetto della legge che l’amore impone, il precetto dell’autosacrificio nei confronti dell’amato dove c’è Dio. Egli si rese conto che per risiedere in Dio noi dovevamo rinunciare al nostro mondo e a noi stessi. Ma l’altro aspetto della stessa legge dell’amore, cioè che l’amore implica uno scambio di beni, rimase a lui ignoto”[53]

In sintesi:

“Sankara fu solo negativo”.[54]

Per questo Johanns, sempre nel contesto della rivalutazione del pensiero filosofico hinduista, suggerisce una scelta preferenziale per l’altro grande interprete del Vedanta, Ramanuja[55], che secondo lui avrebbe elaborato un pensiero non solo negativo, ma anche positivo nella concezione di Dio:

“Ramanuja è positivo dal momento che offre a noi un Dio che può essere per noi,  riconsegnando a coloro che lo possiedono il loro io trasfigurato e il loro mondo trasfigurato ... Gli hinduisti, come dimostra Sankara, desiderano Dio posseduto nella Sua luce  assoluta. Come dimostra Ramanuja, essi desiderano pure che nel possesso di Dio noi possiamo entrare in possesso di noi stessi e del nostro mondo”[56]

Ma né Ramanuja e né tantomeno Sankara sono in grado di offrire - secondo Johanns - una visione d’insieme, un sistema di pensiero del tutto organico e funzionale per la teologia e per la rivelazione cristiana. Egli è persuaso che tale sistema possa essere rappresentato solo dallo ‘standard philosopher of Catholicism’, vale a dire San Tommaso, al quale riconosce il merito di aver saputo interpretare la ‘philosophia perennis’ : ora, essa sola può svolgere il compito ecumenico di raccolgiere quanto di valido sia mai presente in altri pensieri e di omologarlo in una sintesi funzionale al messaggio di Gesu Cristo. Secondo Johanns non esiste alcuna importante affermazione teologica di San Tommaso che non possa trovare riscontri in questa o quella corrente del pensiero vedantico. E conclude:

“Ne segue forse che la Filosofia Cattolica e il Vedanta sono la stessa cosa? No. Il Vedanta possiede i nostri materiali filosofici, ma non li ha elaborati in un sistema, in un tutto coerente...

Le dottrine del Vedanta non sono contraddittorie in se stesse, esse si contraddicono reciprocamente. Questo è dovuto ai singoli distinti sistemi (Advaita, Visistadvaita, Dvaita, Dvaitadvaita, ecc.), che scambiano erroneamente una delle grandi membra della verità con il suo intero corpo.

Così ad uno studente che vede le cose dall’esterno ma con simpatia il Vedanta offre la vista di un cumulo di membra sparse che attendono un’anima comune per elevarsi alla vita e al progresso.

Abbiamo detto che nella Filosofia Cattolica di San Tommaso noi troviamo tutte le dottrine importanti riscontrate nel Vedanta. Ma nel sistema tomistico noi abbiamo un insieme organico. E’ un’armonia unitaria in cui i differenti sistemi vedantici trovano la loro propria collocazione. Il disaccordo scompare. Le membra sparse si compongono in un organismo, in un corpo armonioso di verità...

Il nostro assunto, pertanto, è che le filosofie Vedanta si muovono nella stessa direzione della Filosofia Cattolica. Solo che, non essendosi finora incontrate, deve essere evidente che non hanno ancora raggiunto la meta verso la quale tutte quante tendono. Esse sono per il momento come degli sbandati lungo la strada, non ancora in possesso della verità, che pure tutte ammettono essere una sola. Gli Hinduisti troveranno Cristo se essi riusciranno a scoprire pienamente se stessi. Vorremmo dimostrare questo agli Hinduisti. Vorremmo che fosse loro chiaro che noi procediamo sul loro stesso tracciato: che c’è una via che porta a Cristo attraverso il Vedanta”[57].

Il tentativo di Johanns, davvero molto ambizioso, consisteva dunque nel creare un sistema armonico tra le filosofie del Vedanta e la Filosofia Cristiana di San Tommaso in vista della meta finale che sarebbe rappresentata dalla formazione di un sistema nuovo su base indiana tale che ne garantisse da un lato l’autonomia e dall’altro la pari dignità,  con evidente richiamo all’operazione culturale compiuta a suo tempo dallo stesso  Tommaso d’Aquino nei confronti della cultura aristotelico-platonica.

Si avverte nel suo pensiero l’influsso di Upadhyaya proprio in questa preminente volontà apologetica secondo cui uno dei compiti primari del Cristianesimo in India consisterebbe precisamente nello svelare la tensione profonda e nascosta all’Hinduismo verso il suo adempimento nella rivelazione biblica e persino nella filosofia cristiana. Ciò comporta sia una particolare lettura della tradizione filosofica e religiosa dell’Hinduismo sia la convinzione di possedere in proprio uno strumento critico-filosofico-teologico in grado di svolgere  tale funzione apologetica. E’ la tesi del Cristianesimo come compimento che rimane - sotto varie forme - una delle posizioni caratterizzanti della ricerca teologica indiana contemporanea. La provocazione lanciata da Chandra Sen e da Upadhyaya, che sia cioè possibile, anzi ineludibile, per il Cristianesimo indiano edificare sulla base del Vedanta una originale esperienza di inculturazione del Dio ebraico-cristiano rivelato nella Bibbia, è infatti uno dei punti qualificanti della teologia che prelude all’epoca attuale e tale rimane fino ad oggi. L’impianto e il presupposto metodologico di Johanns sono guardati oggi come inadempienti rispetto allo scopo. Si fa notare che il pensiero e la tradizione teologica indiana - nonostante le dichiarate intenzionalità - non reggono ancora al paragone con il percorso del Cristianesimo occidentale quando giunse alla sintesi della scolastica e, prima ancora, patristica, attraverso un travaglio plurisecolare di inculturazione nelle civiltà del bacino del Mediterraneo e dell’Europa. La teologia cristiana in India pare ancora inadeguata ad una sintesi di tale impegno, benché ne abbia fissato alcuni presupposti e ne abbia rivendicato la legittimità in termini assolutamente plausibili.

Impostazioni analoghe a quelle di P. Johanns manifestano alcuni autori protestanti delle generazione precedente quali William Miller (1838-1923), il maestro ispiratore di Chakkarai, di cui in seguito, T. E. Slater (1840-1912) e J. N. Farquhar (1861-1929), già citato

L’opera di Richard De Smet (1916), belga di origine, presente in India dal 1946, professore di logica, metafisica e di filosofia indiana al De Nobili College (Pune),  presuppone anch’essa la centralità del pensiero di Sankara nell’intento di offrire un orientamento alla riflessione teologica su Dio che risulti profondamente radicata nella tradizione religiosa dell’India e nello stesso tempo autenticamente cristiana. Attraverso una serie di interventi soprattutto in riviste specializzate[58]che prendono l’avvio dalla sua tesi dottorale alla Gregoriana[59], egli si impegna a rivisitare i testi autentici di Sankara (sfruttando gli apporti moderni della critica testuale) e a evidenziare al loro interno le tensioni portanti del suo pensiero. Egli ritiene di poter giungere a queste conclusioni:

  1. ciò che Sankara soprattutto tende ad attingere è il ‘Supremamente Eccellente’
  2. ma noi ci troviamo in condizione di ignoranza la quale ci fa attribuire i caratteri dell’Assoluto al reale apparente che tale non è
  3. così noi ci riteniano monadi autonome, autosufficienti
  4. anche quando pensiamo all’Assoluto lo concepiamo in termini - relati a noi - di divinità
  5. tuttavia non è spenta in noi la tensione verso l’Assoluto
  6. tale tensione non può essere saziata se non attraverso l’intuizione dell’autentico Brahman
  7. questo è, dunque, il fine ultimo della esistenza umana
  8. in quest’ottica devono essere rivisitati i testi delle Upanishd nella loro intuizione dell’Assoluto (Brahman) e nelle definizioni che cercano di offrine.

De Smet (sempre interpretando Sankara) raggruppa queste definizioni in cinque tipologie:

  1. le definizioni negative: ‘Non è così, non è così’ (neti neti), nel senso che tutto ciò che si attribuisce a Lui può solo essere a Lui estrinseco
  2. le definizioni superlative: Egli è Supremo (Paraman), Pienezza (Purnam): Egli è l’aldilà degli esseri finiti, che comunque ce ne offrono indizi poiché da Lui sono generati e sorretti nell’esistere, poiché a Lui ritornano nel loro estinguersi, pur non subendo (l’Assoluto) alcun mutamento (Egli è stabile come le vette dell’Himalaya). Si può tuttavia parlare di relazioni tra l’Assoluto e la realtà finita: a) l’atman (lo spirito, l’anima) delle cose finite è solo in Lui come causa ultima; b) le cose finite sono totalmente dipendenti da Lui; c) non separabili; d) in Lui inabitanti; e) sono a Lui simili ma non riconducibili allo stesso genere essendo l’Assoluto ‘l’Unico senza secondo’: l’Assoluto rimane Causa Suprema
  3. le definizioni in relazione all’io dell’uomo (tat-tvam-asi: sei tu quello) che coglie Brahman attraverso il riflesso nell’atman dell’uomo e dell’Assoluto (‘non cè altra porta di conoscenza’). Riflesso, non prodotto, altrimenti l’atman umano non sarebbe in grado di trascendere la natura finita della realtà e l’ignoranza che farebbe concepire l’atman umano come essere individuale nel ciclo delle cose. Ma perché domina sull’uomo tale stato di ignoranza? E’ la volontà dell’Assoluto che così dispose ed è la sua volontà benevolente che apre nello stesso tempo la strada alla intuizione dell’Assoluto stesso
  4. le definizioni in relazione all’Assoluto nella sua interiorità: egli è essere (satyam), conoscenza-coscienza (jnanam), infinitezza (anantam), e perciò costituisce beatitudine e fine dell’uomo:

“Il conoscitore di Brahman fruisce ogni desiderio, ogni piacere procurato da oggetti desiderabili, senza eccezione ... egli fruisce di tutte le cose godibili simultaneamente, come se fossero riunite in un solo momento, che è eterno”[60]

Per queste ragioni R. De Smet può concludere:

“La nostra inculturazione nelle categorie dell’Advaita è più impotante e meno soggetta a malintesi  da parte degli hinduisti che quelle della bhakti e dell’interpretazione di Cristo come avatara... L’Advaita non sviluppò la concezione non-sanscrita di ‘persona’ che generalmente è malintesa dagli hinduisti, ma che nel suo significato cristiano autentico e  tradizionale è del tutto congeniale all’Advaita. Una attenzione più spiritualmente aperta alla concezione dell’io in Sankara ci aiuterebbe ad ampliare la nostra consapevolezza della dipendenza creaturale, mentre il suo dinamismo intellettuale verso l’intuizione dell’Essenza divina interiorizzerebbe la nostra fede, ravviverebbe la nostra speranza e nutrirebbe la tensione intensa del nostro amore.”[61]

Paul. D. Devanandan (1901-1962) ricorda, in una memoria autobiografica, che lo stimolo all’approfondimento del rapporto tra Cristianesimo e Hinduismo gli fu suggerito da un giudizio perentorio di Handrick Krämer il quale contestava l’esistenza di una rivelazione naturale e stabiliva in tal modo una netta divaricazione tra il Cristianesimo e le altre religioni. Decise di specializzarsi in filosofia e in storia delle religioni a Bangalore, dove diresse e contribuì a organizzare il Christian Institute for the Study of Religion and Society CISRS). E’ in questo periodo appunto che si verificò in lui un ripensamento globale del rapporto tra Cristianesimo e Hinduismo. Si può ritenere un precursore della stagione del dialogo sulla base della scoperta e della valorizzazione della dignità umana e religiosa dei suoi interlocutori di varie fedi,  i quali lo portarono a sviluppare tematiche destinate a divenire poi classiche nella elaborazione della teologia contemporanea (pluralismo, unicità della rivelazione). Rilevante in questo ambito il suo intervento alla III Assemblea  del WCC (Called to Witness, New Delhi 1961)

La riflessione teologica di Devanandan stabilisce un punto di dialogo sul terreno della reinterpretazione di Maya[62],  parte costitutiva del pensiero filosofico hinduista, in quanto sta ad indicare che tutta la realtà (dai singoli esseri all’intero cosmo, escluso l’Assoluto) null’altro sarebbe se non - in definitiva - illusione, dentro la quale vige non solo la legge di causa-effetto che giustificherebbe il ciclo delle rinascite, ma anche la visione religiosa che attribuisce forme e attributi personali al divino. Devanandan ritiene che questo orizzonte potrebbe essere compatibile con la visione della storia e dell’universo creato introdotta dalla Bibbia. In entrambe le tradizioni, infatti, il mondo creato dall’uomo e il cosmo sono perituri e questo è certamente un punto importante di possibile reciproca comprensione; il Cristianesimo, infatti, affermando che la nuova creazione futura si sottrae pure essa alla legge della radicale impermanenza la quale domina tutta la realtà,  introduce un decisivo fattore dialogico con la concezione hinduista in quanto postula un modello di interazione tra storia e metastoria che non intacca la Trascendenza di Dio e non assolutizza la sfera mondana nel farsi storia dell’Assoluto stesso.

Così nella teologia di Devanandan  il punto cruciale del confronto tra Cristianesimo e Hinduismo si sposta dal piano metafisico del rapporto tra l’Assoluto e la creazione a quello della storia della salvezza, dal piano ontologico a quello del divenire storico, dalla storia presente a quella futura: la Realtà ultima dell’Assoluto non è tanto l’Anteriore Primo ma il Fine ultimo. Si passa dunque dalla Causa efficiente alla Causa finale.

Devanandan è persuaso che una difficoltà permanente dell’Hinduismo sia rappresentata dalla rivelazione biblica e cristiana sull’essere e dall’agire personale di Dio nella storia dal momento che l’Hinduismo rimarrebbe chiuso nelle categorie inadeguate e mai superate dell’antitesi di reale-non reale (sat-asat), anche quando si volesse attribuire al concetto di non-reale un valore diverso da  quello della pura illusione (egli condivide l’opinione di chi ritiene che in tal senso si debba interpretare Sankara):

“E’ venuto il tempo in cui indiani attenti dovrebbero prendere atto dell’inadeguatezza delle posizioni delle Upanishad  in vista di una ispirazione attiva e di una teoria teologica di cui ha necessariamente bisogno qualora intenda avere successo nei suoi tentativi di rigenerare la vita e la società hinduista”[63]

Devanandan introduce questi elementi nuovi di dialogo con l’Hinduismo anche sotto lo stimolo della mutata sensibilità nei confronti della storia e dell’agire umano fatta propria dalla rinascita neohinduista.[64] Ma non solo. Con la sua apertura alla dimensione storica egli, in qualche misura, anticipa gli sviluppi di un filone della teologia contemporanea che a partire dagli anni sessanta svilupperà un impegno programmatico nei confronti delle condizioni più disumanizzanti della società indiana, con metodi e scelte affini alla Teologia della liberazione in America Latina.

 

 

 

Il contributo si basa su un testo pubblicato nell'Archivio Teologico Torinese (la rivista della facoltà Teologica di Torino)n. 5 del 1999, ma successivamente arricchito e aggiornato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1]Cfr. l’ampio spazio riservato al dibattito sulle fonti che riguardano le origini del Cristianesimo indiano nella recente impresa editoriale della Church History Association of India, che prevede sei volumi di  History of Christianity in India. Il primo volume è curato da A. Mathias Mundadan CMI, From the Beginning up to the Middle of the Sixteenth Century (up to 1542), Bangalore 1989. Per la discussione approfondita della fonti che si riferiscono alla evangelizzazione diretta di San Tommaso cfr., in particolare, pp. 1-64. Un numero recente della Indian Missionological Review (Sacred Heart Theological College, Shillong, march 1988, 20, n. 1), dedica alcuni articoli sulle origini dei Cristiani di San Tommaso.

[2]Cfr. R. Boyd, o. c., pp. 14-18.

[3]Cfr. F. Wilfred, Beyond Settled Foundations, The Journey of Indian Theology, Department of Christian Studies, University of Madras, Trichy 1993, pp. 9-18; Robin Boyd, An Introduction to Indian Christian Theology, Indian Society for Promoting Christian Knowledge (ISPCK), (quinta ristampa della seconda edizione 1975, prima edizione 1969), pp. 11-14; D. Yesudhas, ‘Indigenization or Adaptation?’ A Brief Study of Roberto De Nobili’s Attitude to Hinduism, in Bangalore Theological Forum, september 1967, pp. 39 ss.; D. S. Arokiasamy, Moral Theological Perspectives in Evangelization, in Vidyajyoti, Novembre 1997, pp. 804-805, il quale sottolinea il carattere fortemente umanistico-rinascimentale di De Nobili, che lo portava ad apprezzare le culture in sé, non solo quindi in funzione puramente strumentale ai fini dell’evangelizzazione. Per  le vicende storiche della missione di De Nobili cfr. il vol. II della Church History of India, a cura di J. Thekkedath SDB, From the Middle of  the Sixteenth to the End of the Seventeenth Century (1542-1700), Bangalore 1988, pp. 212 ss. Una lettura fortemente polemica, in chiave di radicalismo hinduista, dell’operato di De Nobili si può leggere nel libro di Sita Ram Goel, History of  Hindu-Christian Encounters, Voices of India, New Delhi 1989, pp. 10-14.

[4] Cfr. E. Hambye, Robert de Nobili and Hinduism, in God’s Word among Men, papers in honour of Fr. Joseph Putz, edited by Gispert-Sauch, Vidyajyoti Institute of Religious Studies, Delhi, 1973, pp. 328-329.

[5]L’interpretazione del fenomeno delle conversioni in questa fase della storia delle missioni in India non deve comuqnue essere ridotto in narrazioni che ne semplifichino le motivazioni, la loro complessità e la loro autenticità. Non essendo questo lo scopo di questo studio, rinvio a trattazioni più esaurienti; in particoilare ai volumi IV - VI della già citata History of Christianity in India che si occupano dell’Ottocento e del Novecento nelle singoli regioni del paese. Cfr anche P. D. Devanandan, Preparation for Dialogue, A Collection of Essays on Hinduism and Christianity, in New India, Bangalore Bangalore 1964, pp. 80ss.

[6]A. Ch. Sachidananda, The political philosophy of the New Indian Renaissance, in Journal of Dharma, XXII, n. 1, pp. 97-98.

[7]Cfr. M.M. Thomas, The Acknowledged Christ of Indian Renaissance, CLS, Madras 1976 (prima edizione 1970); Sunad Sumithra, Christian Theologies from an Indian Perspective, Bangalore 1995.

[8] Arya Samaj significa ‘Comunità, società degli Ariani’. E’ interessante notare che fu proprio il rilancio delo studio dei  Veda  in chiave nazionalistica a stimolare la riflessione teologica cristiana sugli stessi Veda di Krisna Mohan Banerji (cfr in seguito).

[9] Sulla rinascita neohinduista cfr. K. Baago, Pioneers of Indigenou Theology, Madras 1969;  F. Wilfred, Beyond settled Foundations,       ; R. Boyd, Introduction ... , o. c.;

[10] The Hindu Response to the Unbound Christ, CLS/CISR, Madras-Bangalore 1974.

[11] Colui che segue la via dell’unione con l’Essere Supremo.

[12] Citazione da Swami Vivekananda and Christianity. Towards Harmony with Justice,  edited by Somen Das, Bishop’s College, Calcutta 1994, p 34. Il testo è tratto da Sri Ramkrishna the Great Master, vol. I, Ramakrishna Math, Madras 1978, p. 339.

[13] Ib., p. 35.

[14] The Complete works of Swami Vivekananda, vol 2, Advaita Ashram, Calcutta 1988, p. 374.

[15] Per sostenere questa tesi Vivekananda ritiene che siano eloquenti alcune iscrizioni dell’imperatore Asoka (circa 300 a. Cr.) le quali attestano l’invio di missionari buddhisti nei regni ellenistici. Egli sostenne questa posizione in un discorso tenuto a Brooklyn, USA, nel 1895.

[16] The Complete Works of Swami Vivekananda, Calcutta 1985, III, p. 218. Per le polemiche di Vivekananda contro la presenza missionaria e contro il credo cristiano cfr. Sita Ram Goel, History of Hindu-Christian Encounters ..., o. c., c. 12, pp. 77-106.

[17] Cfr. in seguito quanto si dirà a proposito della teologia di Upadhyaya.

[18] Citazione da Francis Xavier D’Xa nel saggio Nicht del kleine Christus des populären Christentums, sondern der universale Christus!. Zur Präexistenz Christi un ‘indischer’ Sicht, in Gottes ewiger Sohn. Die Präexistenz Christi, hrsg von Rudolf Laufen, Ferdinand Schöning, Paderborn/München/Zürich 1997, pp. 289-290.

[19]Brihad-aranyaka Upanisad, 3, 8.

[20] L’anima nella sua essenza , a prescindere dalle sue facoltà sensitive o mentali. Si può intendere come sé individuale (jivatman) o come Sé supremo ed eterno (Paramatman), che la riflessione teologica cristiana tende a identificare con Dio. Ma questo costituisce appunto il problema.

[21]Ib., 2, 4

[22] Il termine definisce colui che ha deciso di dedicare tutta la sua vita alla ricerca della Realtà ultima, con stile mendicante di vita e di abbandaono radicale del mondo.

[23] Il profilo della sua teologia in seguito, a p.

[24] Colui che segue jnana, cioè la via della conoscenza.

[25] Legge, dovere, religione, moralità: tutti significati che rimandano a una obbligazione che originariamente si riferisce alla propria appartenenza di casta e classe sociale, ma che in ambito più generale intendono la dipendenza da un ordine cosmico in cui l’esistenza dell’individuo è necessariamente inserito. Con riferimento a questo secondo significato Francis X. D’Sa lo definisce come “l’essere portati dalla totalità”: Dio, l’Uno e Trino e l’Uno-Tutto. Introduzione all’incontro tra Cristianesimo e Induismo, GDT 244, Queriniana, Brescia 1996, p. 7.

[26] Sono termini di scuole filosofiche hinduiste che saranno chiariti nel dibattito teologico delle pagine successive.

[27] Moksa o mukti indicano lo stato definitivo di liberazione dalla condizione dell’illusorio mondo apparente. Potrebbero essere tradotti anche con ‘salvezza’, a patto che non si pensi a ciò che essa significa nel contesto ebraico-cristiano.

[28] Un gruppo di scritti mistico-filosofici che interpretano i Veda e fanno parte con essi della Sruti (ascolto, testi rivelati).

[29] Letteralmente ‘la parte finale dei Veda’, termine usato per indicare sia le Upanisad sia il più noto e il più importante dei sei sistemi filosofici indiani (darsana), che ne sistematizza il pensiero, i cui rappresentanti maggiori sono Sankara e Ramanuja, che saranno spesso citati in questo saggio.

[30]Sw. Abhishiktananda, Saccidananda, A christian approach to advaitic experience, ISPCK, Delhi 1990, pp. 43-45.

[31]J. Parappally MSFS, Emerging Trands in Indian Christian Christology, IIS Publications, Bangalore, 1995, p. 17.

[32]F. Wilfred, Beyond settled Foundations,                  , pp. 19-36; per questo giudizio cfr. p.  19.

[33]J. Lipner-G.Gispert-Sauch (editori), The Writings of Brahmabandhav Upadhyaya, Including a Resume of his Life and Thought, UTC, Bangalore 1991.

[34]Su Sankara cfr. R. De Smet-J.Neuner, Religious Hinduism, quarta edizione, Bombay 1997, pp. 80-95.

[35]Cfr. la discussione critica del canone delle sue opere, ib.,  pp. 82-83.

[36]Cfr. l’Introduzione di Julius Lipner e G. Gispert-Sauch all’edizione dei suoi scritti: The Writings of Brahmandav Upadhyaya, o.c., p. XVI. Gli autori fanno osservare che ‘per ironia della sorte’, questa posizione di Upadhyaya era a sua volta espressione della concezione neotomistica contemporanea.

[37]B. Upadhyaya, Sophia, v. V, n. 1, january 1898, p. 11,  citato da K. P. Aleaz, Christian Thought Through Advaita Vedanta, ISPCK, Delhi 1996,  p. 14.

[38]B. Upadhyaya, Sophia, v. IV, n. 2, february 1897, p. 8, citato da K. P. Aleaz, ib.

[40]Sul pensiero dei principali sistemi filosofici della tradizione hinduista esiste una bibliografia sterminata. Cito solo, data la natura di questo saggio, il testo in uso presso alcune scuole teologiche in India e precisamente il testo di S. Chatterjee-Dh. Datta, An Introduction to Indian Philosophy, University of Calcutta, 1960. Molto utili mi sono state le riflessioni del prof. John Vattanky, prof. di Filosofia presso il Roberto de Nobili College di Pune, in merito alla filosofia teistica del sistema Nyaya, di cui si può trovare una sintesi nell’articolo Is the God of the Naiyayikas Transcendent?, in Hermeneutics of Encounter, Essays in honour of Gerhard Oberhammaer..., ed. by Francis D’Sa and Roque Mesquita, Vienna 1994, pp. 215-221.

[41]Su tutta la questione si veda il capitolo The Pioneering Contributions of Brahmandhav Upadhayaya del libro già citato di K. P. Aleaz (pp. 9-38) dove è possibile reperire anche una abbondante bibliografia a commento dei singoli aspetti del pesnsiero di Upadhyaya.

[42]Letteralmente la parola signifoca ‘fine dei Veda’, ma spesso viene usata per indicare una parte specifica dei Veda, le Upanishads, intese come loro vertice spirituale e filosofico; oppure ancora per significare l’insegnamento dei maggiori filosofi che li interpretarono (Sankara e Ramanuja).

[43]Cfr Sophia, October 1998. Testo inglese nel Prayer Book and Hymnal, Bombay (III Eucharistic Congress) 1964.

[44]Il ruolo di Isvara, che come si vedrà in seguito gioca un ruolo fondamentale nella teologia di Panikkar, qui è inteso come l’aspetto personale, divino, onnipotente, misericordioso, nel senso tradizionale del termine, che Brahman assume nel mondo delle apparenze e per chi vi soggiace.

[45]Cfr. Nehemiah Ni’lakantha S’astri’ Gore, A Rational Refutation of the Hindu Philosophical Systems, Calcutta, Bishop’s College Press, 1892, section  III, ch. 3, pp. 196-197.

[46]Su Goreh cfr. Robin Boyd, An Introduction to Indian Christian Theology, ISPCK, Delhi 1998 [5.a ristampa della 2.a ed riveduta 1975], pp. 40-57.

[47] Sophia, january 1895: cfr. Introduzione J. Lipner-G. Gispert-Sauch, o. c., p. XXXVI.

[48] The Arian Witness, Testimony of Arian Scriptures in Corroboration of Biblical History and the Rudiments of Christian Doctrine, including Dissertations on the original Home and early Adventures of Indo-Arians, Calcutta 1875.

[49] Antichi autori ispiratori dei Veda.

[50] The Crown of Hinduism, Oxford 1913.

[51] Cfr. To Christ through the Vedanta, The Writings of P. Johanns compiled by Fr. Theo De Greef, vv. I-II, UTC (United Theological College), Bangalore 1996, Introduction, p. 3. In questi volumi sono raccolti 146 articoli pubblicati fra l’ottobre 1922 e l’aprile 1934 nella rivista mensile Light of the East dalla Catholic Orphan Press dei Gesuiti di Calcutta

[52] P. Johanns, Light of the East, June 1930, in o. c., pp. 366-367.

[53] Ib.

[54] Ib., p. 369

[55] Anche Ramanuja (seconda metà dell’XI secolo - 1137) rimane fedele all’Advaita, la sua è una visione in cui Dio è l’unica realtà e nulla veramente esiste al di fuori di Lui; però in Lui - che possiede qualità buone in grado supremo - sussistono altre realtà, sia le anime dotate di coscienza sia la materia inconscia. Un monismo che contempla all’interno dell’Assoluto parti differenziate, superando così l’affermazione estrema dell’Advaita che non concepisce come si possano riferire all’Assoluto attributi e qualità, in quanto esse sarebbero solo proprie delle realtà visibili e limitate. Cfr. una sintesi del suo pensiero in Religious Hinduism, o. c., pp. 97-103 e bibliografia ivi citata.

[56] Ib.

[57] Lighit of the East. Introduction, october 1922, Ib., pp 5-6. Sulla posizione di Johanns cfr. il c. VIII dell’opera già citata di K. P. Aleaz, Christian Thought Through Advaita Vedanta, pp. 113-123.

[58] Cfr. una bibliografia molto puntuale in K. P. Aleaz, o. c., pp. 232-234.

[59] The Theological Method of Sankara, Roma 1953 (tesi non pubblicata).

[60] Cfr. R. De Smet, Sankara’s Non-dualism (Advaita-Vada), in Religious Hinduism, a cura di R. De Smet eJ. Neuner, Bangalore 1997, p. 94.

[61] Ib., p. 95. Per una riflessione più generale su queste stesse conclusioni cfr. il saggio di De Smet Highlights of the life of faith (Sraddha) in India pubblicato nel volume God’s Word among Men (papers in honour of Fr. Joseph Putz S. J. ),  edited by G. Gispert-Sauch, Vidyajyoti Institute of Religious Studies, Delhi 1973, pp. 39-58. Inoltre, sempre di De Smet, Sankara’s Vedanta and Christian Theology, in Review of Dharma, v. I, n. 1, 1980, pp. 33-48.

[63] P. D. Devanandan, The Conceipt of Maya, London 1950, pp. 231.232, Citato da P. K. Aleaz, o. c., p. 188.

[64] United Theological College (UTC) di Bangalore ha pubblicato nel 1987 una edizione in due volumi delle opere di Paul D. Devanandan, a cura di  Joachim Wietzke. I suoi interventi principali sono The Conceipt of Maya, London 1950; Christian Concern in Hinduism, CISRS,  Bangalore 1961; Preparation for Dialogue, ib., 1963; su Devanandan cfr. R. Boyd, o. c., pp. 186-205; K. P. Aleaz, o. c., pp. 187-192.

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