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Il poeta e l'uomo

Intervista con Giorgio Luzzi

 

Quale ritratto poetico potresti tracciare di David Maria Turoldo, avendone curato l’Opera Omnia poetica?

 

Conservo con cura il grosso libro “O sensi miei”, comparso da Rizzoli nel 1990, nel quale Turoldo raccoglie i suoi scritti in versi dall’inizio a quella data. C’è la sua dedica autografa a me, al mio sforzo di coordinamento e di montaggio di un corpus imponente di testi negli anni, a partire dall’immediato dopoguerra. Questa dedica dice così: “A Giorgio, l’amico che sa di me più di quanto ne sappia io. David M.T. Natale 1990”.

Amicizia personale e curiosità critica in realtà erano nate assieme come valori inscindibili. Da un certo punto in poi (conobbi Davide quando ero molto giovane, attorno alla metà degli anni sessanta) non ci fu libro in vista del quale egli non mi chiamasse a... passare per le armi i suoi versi. Lo attirava il salto generazionale, che aveva permesso a uno della mia età di attingere avidamente alle nuove risorse della linguistica e dello strutturalismo e di applicarle al giudizio di valore da formularsi sui testi concreti. In realtà la poesia del Davide era quantomai lontana da questo attraversamento epocale, si muoveva sul piano di una coscienza profetica ispirata e spesso tumultuosa che spesso rischiava di costeggiare gli scogli della retorica.

Ne parlavamo a lungo, gli consigliai letture che la sua energia eccezionale riuscì a dividere con le mille occupazioni anche sacerdotali. Era incuriosito dal nuovo, recettivo come pochi altri, plastico nella mente dotata di una intelligenza veramente laica.

Individuerei, sia pure convenzionalmente, quattro tempi nella sua produzione. C’è un esordio che risente del clima ermetico di quegli anni; senonché l’involucro strutturale, la ossificazione del verso e del vocabolo, possono riportare a un clima tra Quasimodo e Ungaretti; mentre il quadro semantico, al contrario, rimane profondamente ancorato al patto con la significazione che per il sacerdote costituiva una priorità legata al valore etico della parola. C’è una fase poematica su calchi biblici, un’epica dei primordi del monoteismo; contemporaneamente lavora alle superlative traduzioni dei Salmi, che a tratti presentano il volto più alto del poeta friulano. C’è poi la fase impegnata, se vogliamo pasoliniana anche se certamente meno ricca di astuzie e malizie del mestiere; fase di denuncia, di militanza, di ammonimento, di schieramento con la chiesa dei poveri e con i suoi movimenti planetari, di attenzione per la teologia della liberazione e per la tragedia di Romero. C’è infine quella che secondo me è la fase più alta e memorabile; essa non entra nel libro di Rizzoli, ma entrerà nel volume garzantiano che egli vide praticamente sul letto di morte (“Canti ultimi”, fine 1991): colloquio con la morte che ci porta a vette difficilmente raggiunte da poeti dopo i grandi mistici dai secoli passati; meditazioni in versi sul Qohelet e su Giobbe, dove la riflessione sulla fine raggiunge uno spessore universale e non definibile unicamente entro uno schema religioso.

Inutile dire che quest’ultimo Turoldo è quello al quale non di rado torno con più emozione e profitto; inutile aggiungere che, proprio in quanto poesia di alta caratura formale, questa riflessione guidata sulla morte raggiunge la qualità di una esperienza capitale.

E quale ritratto umano, essendogli stato amico?

 

In parte sono già filtrate riflessioni sull’aspetto umano di questo sodalizio. Aggiungo ciò che forse pochi sanno, e si tratta della attitudine, al tempo stesso, ludica e soccorrevole della persona. Forse mai ho avuto la fortuna di conoscere personalità umana tanto dotata sul piano delle differenze: tolleranza, compassione, gioia e trasgressione, veemenza e conflitto, legame con le proprie scelte di quale tipo esse fossero, e in questo il grande culto, proprio della vicenda plurisecolare dell’ordine dei Servi, per l’amicizia.

Ma qui non posso non ricordare con commozione l’altra figura di maestro e padre che mi ha avviato alla vita adulta: fu il servita Camillo De Piaz, valtellinese, di meno di due anni più giovane di Turoldo (padre Camillo è morto novantaduenne un paio d’anni fa), l’amico più importante tra i molti o moltissimi, già a partire dagli anni dell’adolescenza in seminario. Fu Camillo, appunto, a mettermi in contatto con Turoldo. E lì cominciò una delle più incisive esperienze di amicizia della mia ora lunga vita.

Io non sono credente, sono dubbioso, sospeso e rispettoso; questo problema talvolta mi rode dentro e non intendo rimuoverlo. Ebbene, credereste che i momenti di appagamento anche intellettuale, e oserei dire ludico, più alti li ho vissuti con questi due amici preti? E qui comincerebbero altri ricordi di me e del Davide. Per esempio quella mattina (mi trovavo suo ospite all’abazia di Fontanella dove viveva) che scese a colazione dicendomi esultante che nella notte aveva letto tutta l’opera di Caproni che la sera prima a cena gli avevo suggerito di accostare. Per esempio, per esempio. Centinaia di esempi possibili: in almeno un quarto di secolo di amicizia, e soprattutto nei momenti più cupi, ho saputo a chi aggrapparmi. E il tempo per darmi una mano l’ha sempre trovato: coloro che sanno quanto egli fosse impegnato potranno valutarne lo spessore umano e il culto vero e proprio dell’amicizia tollerante e aperta di cui fu dotato.

 

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