Verso una teologia dell’interdipendenza

A cura di Interdependence

 

 specchio

Nessuno negherebbe che il pontificato attuale stia avviando nella Chiesa Cattolica un rinnovamento profondo. E un punto di particolare rilievo, pensando all’itinerario che collega l’enciclica Laudato si’ al recente Sinodo sull’Amazzonia, consiste senz’altro nell’aver posto nel cuore della professione di fede la responsabilità verso l’ambiente.

Sebbene ciò sia in continuità con sensibilità e linee di pensiero attestate da precedenti atti del Magistero, è indubbio che l’incisività con cui la questione è affermata costituisca una novità, che interpella i credenti in Cristo provocandoli a una nuova comprensione della fede, non priva di ripercussioni al di fuori dell’ambito cristiano.

In quel che segue ci proponiamo di fornire a tale comprensione un contributo, ricordando preliminarmente che è costitutivo della fede l’essere chiamati al di là delle abitudini consolidate.

Un punto teologicamente decisivo è accettare senza riserve che in ogni epoca la fede si collochi non al di fuori ma al centro della vita sociale, esprimendo i bisogni degli uomini - le loro ansie e le loro aspirazioni -, addirittura rivestendosi di essi. Le forme attraverso cui si comunica ne sono impregnate, le metafore che la veicolano riecheggiano vissuti che chiunque in una certa epoca può intendere.

La particolare ricchezza del linguaggio religioso è dovuta alla sua capacità di esprimere la condizione umana nella sua interezza, come nessun altro linguaggio è in grado di fare. Al suo interno i vari piani della vita sono interdipendenti, e un complesso gioco di rimandi li connette.

Ad esempio tutta l’enfasi che il testo biblico pone sull’uscita dalla schiavitù non può che essere in rapporto col fatto che masse enormi di esseri umani venivano privati della loro umanità e ridotti a strumenti di lavoro, per andare a costituire la base produttiva degli imperi antichi. Parlando del peccato, pensiamo che sia al di fuori della storia oppure che agisca in essa, nella disgregazione e nel degrado dei rapporti?

Il racconto in cui l’uomo è stato originariamente collocato in una condizione di armonia con Dio e con la natura, dalla quale è decaduto per sua colpa, perché non dovrebbe condensare e interpretare un evento storicamente identificabile? Non è verosimile che le complesse trasformazioni che condussero al formarsi delle grandi compagini statali su base agricola, per le quali i rapporti con la natura e anche quelli tra gli uomini radicalmente mutarono, siano state rappresentate come un atto di superbia in cui l’uomo si arroga il ruolo di Dio, dal quale si generano ingiustizia e sofferenza? E perché non vedere nell’alleanza che Dio stabilisce col popolo ebraico la promessa di una terra liberata da tutta l’oppressione a cui soggiace?

Come ignorare infine che il simbolo centrale della fede cristiana, la Croce, evoca il supplizio a cui venivano sottoposti gli schiavi ribelli? L’idea che Dio stesso vi sia stato inchiodato esprime con una potenza immane il dolore che soprattutto in epoca romana ricadde sulla parte di umanità stanziata lungo le sponde del Mediterraneo: un dolore che si è insediato nel profondo della coscienza occidentale. E non si intende il rapido diffondersi della nuova fede se non pensando che quella condizione, sociale e spirituale insieme, sia stata accolta e trasfigurata dalla luce della Resurrezione, nella quale più che mai risplende la promessa di un’umanità ristabilita nella sua integrità.

Il che mostra quali siano le radici dell’aspirazione che è alla base dell’età moderna: cioè di adempiere quella promessa a tutti i costi, anche al di là della cornice religiosa entro cui era stata concepita. Non senza che le ombre che fin dalle origini gravano sulla storia umana, di cui il racconto della cacciata dall’Eden è simbolo, si siano ulteriormente prolungate. Fino a giungere alla minaccia estrema: la distruzione della terra.

Guardando le cose in questa prospettiva, il problema della fede nel mondo odierno andrebbe interamente riproposto. L’indiscutibile abbandono delle forme tramandate potrebbe non significare il suo venir meno, bensì la ricerca di forme nuove, che è lo stesso orizzonte in cui viviamo a suggerire.

La questione dell’ambiente è sotto questo aspetto davvero estranea alla fede, come vorrebbero i “tradizionalisti”, oppure non lo è affatto, e consente di rivisitare in una nuova luce il senso dell’intera storia della salvezza?

È anche lecito osservare che la salvezza in termini religiosi non coincide con quella del pianeta terra dalla catastrofe ambientale; ma è legittimo dissociare i due significati? Non è forse chiaro, come è detto nella Laudato si’, che la distruzione dell’ambiente porta alle estreme conseguenze ciò che nel peccato è implicito, ovvero il porsi dell’uomo al posto di Dio? E si può allora negare che la salvezza della terra abbia un senso anche propriamente spirituale?

Ci si scandalizza nel sentir parlare di “peccati ecologici”. Ma non è sempre ecologico il peccato, in quanto violazione, a qualsiasi livello, dell’ordine divino che è alla base della Creazione?

È probabile che la comprensione odierna della fede debba rinunciare a tutto un impianto filosofico, in Occidente di origine platonica, che scinde il piano spirituale da quello materiale, oltre che da quello psicologico e sociale. Un impianto che del resto in ambito cristiano non è parso mai del tutto compatibile con l’Incarnazione, e in più di un contesto religioso ha appesantito il rapporto col mondo sensibile e corporeo.

Tutto ciò appare oggi più che mai sospetto. Piuttosto che ad aspirazioni spirituali si associa all’immaginario tecnologico, proiettato verso mondi artificiali in sostituzione di quelli naturali. L’esigenza profonda del nostro tempo, a cui davvero è da riconoscere valore spirituale, è piuttosto di riconciliarsi col mondo naturale e di prendersene amorevole cura.

È il sentimento di un’intima comunione con tutto ciò che vive a fornire la linfa spirituale che ci alimenta.

L’umanità odierna, proprio a fronte dei pericoli che minacciano la vita sulla terra, prima ancora di pensare a soluzioni sociali e politiche, deve senz’altro attingere alle radici più profonde, che stanno per ciascuno nella propria tradizione spirituale. Ma una tradizione è tale, cioè viva, non per il repertorio delle forme tramandate, bensì per la possibilità di attingere il suo nucleo più profondo e di portarlo alla luce in forme sempre nuove. Una tradizione insomma è continuo rinnovamento.

Il rinnovamento implica la tradizione: in sua assenza c’è solo cambiamento, che può essere distruttivo ed è comunque alienante, perché va smarrita la percezione della propria identità. Ma la tradizione implica il rinnovamento: quel che si riceve, per essere davvero vivo, va reinterpretato creativamente.

Lo Spirito, non solo soffia dove vuole, ma fa nuove le cose.

Appare oggi urgente una teologia dell’interdipendenza che renda ragione della condizione spirituale del nostro tempo.

Si tratta di un’impresa che per sua natura richiede una collaborazione ampia, in cui diverse prospettive giungano a integrarsi. Il cristianesimo deve porsi in rapporto con le altre tradizioni, anche le più lontane dall’idea di una fede in Dio come è concepita nei monoteismi, fino alle religioni cosiddette primitive, in cui il sentimento dell’interdipendenza paradossalmente è così tanto sviluppato.

Significativo è che nel Sinodo sull’Amazzonia la Chiesa Cattolica, mentre dichiarava al mondo che la salvaguardia della vita sul pianeta è oggi un contenuto della fede, contemporaneamente, riconoscendo la dignità dei precedenti culti indigeni, abbia affermato che una religione non deve cancellare le tradizioni preesistenti. Il che mette in luce qualcosa di essenziale nella coscienza oggi emergente.

Molto evidente nel mondo attuale è il bisogno di identità: un bisogno pienamente comprensibile se si pensa a quanto devastanti siano i processi di sradicamento culturale, e che quindi che non va in alcun modo rifiutato.

Il bisogno di identità non può però essere il valore ultimo; e non solo per le dinamiche di conflitto e sopraffazione che può generare, ma ancor prima perché l’identità è in fondo relazionale. Gli individui, i popoli e le culture sempre si definiscono nel rapporto con l’altro. L’identità presuppone quindi l’interdipendenza, e questo è forse il più solido fondamento della pace.

Si può dire che vi sia un’ecologia non solo naturale ma anche spirituale, il cui rispetto riveste oggi un profondo senso religioso. Una compresenza viva e attuale delle tradizioni che è da custodire come la biodiversità in natura, perché alimenta ed è alimentata dall’universale scorrere della Vita.

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