Oscar Romero visto da Torino

Scritto da Ermis Segatti.

Blessed Oscar Romero muralSi potrebbe partire da Torino per ripensare la persona di Romero, ora dichiarato martire, ma che nel tempo in cui lo fu storicamente incontrò gravi difficoltà a essere riconosciuto tale. In qualche misura queste difficoltà persistono ancora oggi tra i suoi oppositori, alcuni viventi, e tra coloro che ne condividono le idee.

Il 24 marzo 1980 si sparse la notizia molto rapidamente anche a Torino degli eventi tragici di San Salvador. Venne deciso di celebrare una messa in una parrocchia della prima periferia sud della città. Preti celebranti: quattro.

Poi, per alcuni anni, il 24 marzo divenne un punto di riferimento che, con alterne vicende di presenze più o meno intense, continuò a mantenere vivo il ricordo della figura di Romero, ma sempre per un relativamente molto esiguo gruppo di persone da varie comunità e ambienti della diocesi, per lo più ispirati dalle comunità di base, a loro volta una scelta ecclesiale ai margini della chiesa locale.

Quest’ultima non ritenne mai di convocarsi intorno alla figura di Romero, ispirando magari qualche iniziativa di rilievo.

Del resto, ciò avvenne anche per figure di martiri che potevano rappresentare un riferimento ideale più immediatamente recepibile.

Fu il caso di padre Jerzy Popiełuszko. Quando venne trovato il suo cadavere crudelmente martoriato da alcuni funzionari del Ministero degli Interni della Polonia comunista (ottobre 1984), poi gettato nella Vistola per ultimo disprezzo, si celebrò in Duomo una messa, senza che poi ci fosse un seguito significativo. Ma dalla sua padre Jerzy aveva la stragrande maggioranza della propria gente e l’intero episcopato compatto. Nonché la ricezione solidale delle Chiese dell’Occidente.

Oscar Romero no.

Proprio l’episcopato salvadoreño era profondamente diviso nei suoi confronti. Al punto che alcuni vescovi scrivevano documenti pastorali in esplicito contrasto con quelli dell’arcivescovo della capitale, a partire dal suo ausiliare. E pubblicamente lo contestavano.

Ricordo uno di loro il quale, contro le prime ipotesi di un possibile percorso verso il riconoscimento della sua beatificazione, mi disse chiaro e tondo: fintanto che io sarò vivo, mai e poi mai ciò si verificherà. Di qua o di là che si trovi, non so come ora la veda.

Il fatto è che non solo l’episcopato, ma l’intera società salvadoreña era lacerata (e ancora lo è, sia pure con diverse modalità). Semplificando, tra destra e sinistra. In una condizione di strisciante e poi di aperta guerra civile.

La predicazione e la presenza di Romero senza dubbio si era andata radicalizzando nella critica delle enormi responsabilità del potere dittatoriale di destra e delle sue forme brutali di esercizio, dopo aver invano sperato nella mediazione di altre ipotesi moderate di governo.

Dentro tale polarizzazione era quasi ovvio che le sue parole fossero elevate come bandiera della parte opposta, la sinistra.

Ovvio che nella visione di destra e nella sua propaganda quotidiana sui giornali, sui media locali e sul fronte diplomatico, egli fosse presentato come ‘utile idiota’ della parte avversa, ma anche direttamente come ‘comunista’, con tutto ciò che ne seguiva per l’uso del termine, in quel periodo infuocato della storia latino-americana.

Sostanzialmente era considerato a destra e dintorni un venduto e un traditore della fede cattolica. Ciò che altrettanto non si diceva era quanto fossero cristiani e cattolici i metodi e le forme di potere esercitati da coloro che ufficialmente si pretendevano credenti lealisti. Ma essi si ostentavano appunto come paladini della fede e in ciò legittimati alla violenza, tanto era il pericolo.

Come spesso accadde e accade, il fine nobile non solo giustifica, ma santifica mezzi per quanto perversi essi siano; anzi, li rende santi. 

Cosa non avvenne in questa logica a quel tempo!

Un discorso analogo, sulla sponda opposta, deve essere fatto per l’uso ideologico di Romero da parte soprattutto di alcune componenti radicali della sinistra. Questo, peraltro, era consuetudine largamente diffusa all’interno in particolare delle ispirazioni di vario marxismo che dominavano a sinistra.

Sia Romero, sia poi il suo successore, Rivera Damas, l’unico in certi momenti critici che sostenne Romero dentro la Conferenza Episcopale, erano consapevoli dell’uso ideologico di cui erano oggetto. Ritenevano, però, che le violazioni degli elementari diritti umani fossero una causa preminente rispetto a tutte le strumentalizzazioni.

Infatti, in mezzo c’era la popolazione, il soggetto principale della profezia e della cura di Romero. Il volto degli indifesi e dei senza volto come scelta preferenziale, rispetto a cui la voce forte dei potenti vale di meno. E questo popolo con quale intensità si è tenuto vicino al suo vescovo, rischiando in molte occasioni direttamente la vita per essergli intorno (lui minacciato di morte) nelle sue visite pastorali, in duomo durante omelie di ferma e puntuale denuncia delle sopraffazioni.

In gioco era la vita ogni momento per chi era semplicemente presente.

E poi in massa ai funerali, quando il conto delle vittime fu particolarmente reale e alto. E ancora nella cura della sua tomba, al lato dell’altare, con una vicinanza costante di preghiera, di fiori, di dialogo, di piccoli doni. Fino a quando non fu relegato nei locali sotterranei.

Ma questa è un’altra storia. O, meglio, una storia che dice e ripete molte cose, solo cambiando lingua, fino ad oggi.

Tornando allo spicchio di visuale torinese, il secondo anniversario della morte di Romero fu celebrato con una presenza del tutto particolare, sempre in una chiesa della prima periferia, anche se al polo opposto della città.

Per l’occasione era presente uno dei sacerdoti più in vista del Salvador in quel tempo e anche uno dei più discussi.

Si trattava di don Plácido Erdozain, sacerdote basco, leader allora della ‘Iglesia Popular’, la componente più radicale di collateralismo alla visione rivoluzionaria di sinistra.

Il suo libro ‘Mons. Romero, martire della Chiesa’, pubblicato nel 1983, parla apertamente di lui in termini di martirio, lascia chiaramente intendere quanto intensa fosse la polarizzazione ideologica intorno alla figura dell’arcivescovo.

Lo si capì quella sera a Torino dalle sue parole e lo si leggeva anche sul volto di una parte di coloro che affollavano la chiesa, idealmente piuttosto collaterali a scelte politiche che al discorso religioso, al quale si prestava un ascolto troppo funzionale.

Tant’è. Non finiva tutto lì, comunque.

Ci voleva un Papa come Francesco che all’epoca non si fosse trovato così addentro a quelle polarizzazioni e, nello stesso tempo, non avesse bisogno che qualcuno gli spiegasse che cosa significava la posta in gioco della fede in simili contesti, ben oltre le momentanee strumentalizzazioni ideologiche; ci voleva un Papa così per riprendere quella parola ‘martirio’ con coraggio e decisione, lasciando fuori campo protagonisti con fini e interessi prevalentemente di altra natura.

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