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Un’ermeneutica dell’esperienza religiosa

ricondaNegli ultimi anni della sua vita Luigi Pareyson ha elaborato, a partire dalla tradizione ebraico-cristiana, una concezione filosofica, che può essere considerata un’ermeneutica filosofica dell’esperienza religiosa. Qualcosa di simile a quello che è stato sviluppato da filosofi come Rosenzweig e da Lévinas  rispetto alla tradizione ebraica e da pensatori come Berdjaev  e Florenskij nei confronti della tradizione ortodossa russa.
Ebbene, io penso che si tratti di un’idea le cui potenzialità oltrepassano l’ambito a cui è stata applicata, in cui io stesso mi muovo, e potrebbe investire altre aree religiose.
La tesi che voglio presentare è dunque che la prospettiva filosofica proposta da Luigi Pareyson possa avere una valenza interculturale e interreligiosa.
Il problema, per come è stato posto e per come a mio avviso si può porre, riguarda tre livelli: quello storico, quello esistenziale e quello ontologico

a) Il livello storico

Per quanto riguarda l’aspetto storico, la dimensione interculturale e interreligiosa è qualcosa che adesso viviamo come ovvia, però non è sempre stato così, perché è soltanto negli anni Sessanta, con la dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, che si è posto con urgenza questo problema nell’ambito del Cattolicesimo. L’esperienza che caratterizza il nostro tempo, la globalizzazione, che porta seco il necessario incontro di popoli e di culture, lo rende sempre più urgente. Bisogna tener conto di questo nuovo dato storico, del nostro vivere gomito a gomito con le altre religioni, esperienza che era estranea ai nostri padri.
Anche la Fides et Ratio di Giovanni Paolo Π costituisce un passaggio fondamentale, là dove viene affrontato il problema del rapporto fra il Cristianesimo e le altre culture, richiamandosi, cosa che qui ci riguarda da vicino, proprio al pensiero indiano. Ora in questo documento si afferma, semplifico un poco un discorso certamente più complesso, che l’aspetto più profondo della vita dei popoli si trova nelle religioni, ma anche insiste sulla rilevanza che, nello stabilire rapporti e tentare mediazioni, può avere la filosofia come  appello alle comuni capacità razionali dell’uomo nella loro portata veritativa.
Poco può essere detto qui su questo piano, perché lo scendere nel concreto implicherebbe analisi di documenti  che in questa sede  è  impossibile svolgere. 
Mi limiterò ad una osservazione. È  proprio per quel che riguarda la razionalità che, secondo me, emerge tutta la rilevanza della prospettiva aperta da Pareyson, ovvero di un’ermeneutica  filosofica dell’esperienza religiosa. Cerchiamo allora di chiarirne il concetto.
Ermeneutica vuol dire scienza dell’interpretazione. Questa definizione presuppone che non tutte le conoscenze siano come quelle matematiche, cioè autoreferenziali, ma che ci sia un tipo di conoscenza che è interpretativo. Per esempio la conoscenza che ho di un amico implica che lui mi parli, che io risponda, che si istituisca così fra noi tutto un processo interpretativo. Questa conoscenza è ben diversa dalla conoscenza di un numero.
Ci sono concezioni della filosofia per cui essa appare come una pura estensione della conoscenza ad opera della ragione. L’ermeneutica dell’esperienza religiosa non rientra in tali concezioni perché presuppone appunto l’esperienza religiosa. Essa cerca di interpretare questa esperienza in senso filosofico.
In cosa consiste questa operazione?
Pareyson la intendeva come chiarificazione e universalizzazione dell’esperienza religiosa. L’idea è che non si estenda la conoscenza, ma che ogni uomo porti con sé l’interpretazione della propria esistenza in termini religiosi. Si tratta allora di far emergere questa interpretazione e in particolare la carica di razionalità che porta seco, una razionalità che non è nient’altro che la sua universalità.
Ci sono dunque diversi tipi di razionalità. C’è una razionalità di tipo argomentativo (si pensi all’argomentazione dialettica, alla deduzione, all’induzione) e c’è una razionalità di tipo ermeneutico, che consiste per l’appunto nel far emergere da un’esperienza concreta significati universali, cioè significati che possono riguardare ogni uomo, che possono unire, al discorso di chi parla, ogni uomo, nell’interesse se non nel consenso.
Non c’è dunque un ragionamento che costringe, ma il tentativo di fare emergere evidenze illuminanti. Si tratta di far emergere dalla situazione concreta  significati capaci di illuminare la situazione umana e tali da interessare tutti gli uomini. Questa è l’ermeneutica dell’esperienza religiosa come la intendeva Pareyson.

b) Il livello esistenziale

Si è molte volte rimproverato a Pareyson di limitarsi nella sua ermeneutica all’ambito giudaico-cristiano e di non prendere in esame le altre religioni. A questa obiezione egli  rispondeva che un’ermeneutica dell’esperienza religiosa presuppone per l’appunto un’esperienza religiosa vissuta in prima persona, e quindi non può che consistere nell’approfondimento della situazione storico-esitenziale in cui ci si trova. Ciascun uomo è in una certa situazione storica e non può prescinderne. 
Perciò uno studio delle altre religioni in termini astratti, che spieghi cosa sono il Cristianesimo, il Buddhismo e via dicendo, da un lato è indispensabile  a livello informativo, ma dall’altro non ci aiuta molto, facendoci penetrare assai scarsamente in esse. Nel caso di un dialogo interreligioso il rapporto è innanzi tutto fra due soggetti egualmente interessati e non fra un soggetto indifferente ed un oggetto inerte.
Il problema è che la religione è qualcosa di radicato nell’esperienza umana. Perciò l’unica possibilità di estendere l’ermeneutica dell’esperienza religiosa ad altre religioni presuppone  l’incontro vivo su questo piano “esperienziale” con esse e i loro portatori.
Non si tratta di un lavoro solo intellettuale: quando due persone di religioni diverse si incontrano, il loro problema non è quello di trascendere le rispettive situazioni, bensì di approfondirle nel confronto fino a scoprire la possibilità di una reciproca comprensione. Si tratta di comunicazione difficile, sempre esposta al fallimento, come ogni comunicazione viva e interpersonale, ma non credo vi sia altra via.
Proviamo ad ipotizzare l’incontro di un cristiano con un buddhista o un induista. C’è una differenza essenziale, di qualità fra le due posizioni, la cristiana e l’asiatica, su cui ha insistito un grande storico delle religioni, Federico. Heiler, nel suo libro ormai classico sulla preghiera (F. Heiler, Da Gebet, Monaco, 1920)  .
La religione di tipo ebraico-cristiana, dice Heiler, è profetica, cioè basata sull’appello di Dio all’uomo; è una religione storica, che implica la Rivelazione di Dio all’uomo e l’impegno etico dell’uomo nella costruzione della comunità umana, la quale però, per via del retaggio del peccato, ha il suo esito soltanto nell’eschaton, cioè nel compimento finale della storia della salvezza.
L’elemento centrale è dunque la rivelazione di Dio all’uomo. Non si può parlare di Cristianesimo e di Ebraismo senza fare riferimento ad una Rivelazione storica.
Ebbene, come sono viste le altre religioni in rapporto a tale aspetto? La questione è complessa.
Viene facilmente da pensare che, se il Cristianesimo è caratterizzato dalla Rivelazione, le altre religioni che non la posseggono siano false. Questa non è però propriamente la posizione del Cristianesimo, che piuttosto fin dai suoi inizi ha visto nelle altre religioni precorrimenti,  adombramenti, che contenevano almeno frammenti di verità, e che potevano quindi essere in qualche modo assimilati e trasfigurati nella Rivelazione. Si pensi ad un’immagine, quella di Maria sopra Minerva nella Basilica di Roma. Certo il Cristianesimo ha combattuto l’idolatria, ma nell’idolatria ha visto non solo un nemico esterno, da combattere nelle altre religioni, ma anche un nemico interno da cui purificarsi[1] .
Questo implica tolleranza, perché tutte le altre religioni devono essere rispettate. Ma da parte delle altre religioni c’è disagio, perché si ha l’impressione di essere fagocitati.
Da parte del Buddhismo la tolleranza sembra più facile ancora da sostenere, perché l’idea della religiosità asiatica è essenzialmente mistica, non c’è rivelazione né grazia, anche se tali religioni agiscono attivamente nella storia, come mostrato dalle vicende attuali. Più precisamente c’è la grazia ma non Dio come Soggetto che la dona; non c’è Rivelazione storica ma Illuminazione. C’è cioè l’idea di una rivelazione interiore, che non passa però necessariamente attraverso forme storiche, a differenza del Cristianesimo. Ebbene, come potrebbero essere intese da questo punto di vista le altre religioni? Mi è sembrato, dalla mia poca esperienza, di vedere questo atteggiamento: la vera religione è quella mistica, mentre le altre sono espressioni simboliche di quell’esperienza mistica fondamentale, quindi radicalmente subordinate a essa, pur in un riconoscimento rispettoso di esse che le interpreta come gradi provvisori nei confronti dell’ultimatività dell’esperienza mistica. Tale è ad es. la posizione che ha svolto Radhakrishnan, che parla però a nome delle religioni asiatiche in genere. Potrebbe in realtà qui ripetersi una situazione analoga rispetto a quella che abbiamo visto verificarsi nella tradizione giudaico-cristiana. Come in quest’ultima si concede che le religioni non cristiane siano adombramenti della Rivelazione, contenenti frammenti o di verità o esperienze veritative incoative che nella Rivelazione possono essere assunte, così dall’altra parte si assume che tutte le religioni sono simbolo dell’esperienza mistica fondamentale, a partire dalla quale soltanto sono comprese nella loro vera natura..
È questo reciproco disagio superabile? E’ possibile eliminare quel tanto di violenza che le due posizioni implicano?
Cominciamo con il dire che certamente è possibile ridurlo e che la via per ridurlo è quella di un approfondimento ulteriore da entrambe le parti, anzitutto del proprio punto di vista: saranno così  evitati almeno fraintendimenti talvolta anche grossolani che a livello superficiale sono inevitabili; io credo che più si approfondisce la propria religione e più si riesce a vedere verità nelle altre, verità che al di fuori di questo approfondimento potevano anche sfuggite. Tutto ciò può sembrare insoddisfacente e bisognoso di  analisi ed in effetti lo è, ma al momento, restando sul piano esistenziale non saprei dire di più, se non che questo approfondimento è sorretto, se è sincero, da una speranza di una comprensione sempre più piena che per il cristiano può anche assumere il colorito di un compimento escatologico. E quello che Joseph Ratzinger ha detto magnificamente: “quel che conduce le religioni l’una verso l’altra e porta gli uomini verso Dio è la dinamica della coscienza e della silenziosa presenza di Dio in essa e non la canonizzazione dell’esistente di volta in volta incontrato che esime gli uomini da una ricerca più profonda” ( Joseph Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni del mondo, Siena, Cantagalli, 2005, p. 25). 
Conformemente a quello che ho detto circa l’ermeneutica filosofica dell’esperienza religiosa, che impedisce di assumere un punto di arbitrato astratto, proverò a porre la questione collocandomi nella mia posizione, che è quella cristiana. Certo il cristiano professa una religione che si pone come assolutezza di verità, ma il cristiano deve essere anche consapevole che quello che per lui è certezza interiore, dal punto di vista mondano in cui anch’egli è collocato, cioè dal punto di vista dell’intellettualità e della cultura pur esistenzialmente vissute, non può presentarsi  altrimenti che come scelta e scommessa, suscettibile di approfondimenti indefiniti che  la motivano (motivazioni  che debbono aprirsi  all’universalità della comprensione) senza che perciò cessi il suo carattere di scelta e scommessa. Di più tali approfondimenti, per essere fecondi, possono essere  fatti solo confrontandosi con chi ne nega la validità totalmente o parzialmente, la cui posizione a sua volta, perché il confronto sia reale, deve essere presa sul serio, sino a riconoscere in essa una possibilità di verità alternativa.
Ci si potrebbe chiedere se il cristiano nel dialogo religioso non miri alla conversione dell’altro. Può darsi. Ma allora deve ricordare che, proprio perché la sua religione si pone come assoluta, egli non è mai sufficientemente convertito ad essa, e che non è detto che chi segue un’altra religione non lo superi, quanto vive quei frammenti di verità che egli riconosce con una purezza con cui il cristiano non sa vivere la verità assoluta che la sua religione gli offre: paradossalmente allora è più vicino a questa verità assoluta del cristiano che la possiede.
Ma forse l’ atteggiamento ultimo del cristiano che è impegnato in un dialogo religioso non deve essere neanche quello di richiedere conversione, né tanto meno di pensare ad un possibile assorbimento delle altre religioni nella sua. Piuttosto deve essere quello di ripetere l’annuncio di Cristo per tutti gli uomini, di ripetere le motivazioni che lo hanno portato alla sua  scelta  di vita cristiana, mettendone nel dialogo alla prova l’universalità e vedendo nelle difficoltà che altri prova motivi di approfondimento. Tutto ciò sulla base di un atteggiamento di serena benevolenza, nella speranza fiduciosa di chi tutto rimette a Dio, Dio che come Spirito di verità lavora in  tutti gli uomini ut unum sint, ben sapendo che il suo stesso impegno e tutti suoi tentativi saranno vani se non verranno da Lui accolti, Lui che solo può operare veramente conversioni.
Siamo così portati al problema della  verità, che è il problema veramente cruciale, e che può essere discusso solo a livello ontologico.

c) Il livello ontologico

Ho parlato di un incontro (la parola dialogo è oggi un po’ svilita) tra due persone religiose che approfondiscano la loro posizione nella ricerca di un qualcosa che li unisca e che proprio nella profondità possono incontrarsi. Ma questo incontro da cosa è reso possibile?
Nell’impostazione di questo dibattito si suggerisce di pensare a un’ontologia dell’interdipendenza. Bene, su questo punto sono d’accordo: l’incontro è possibile soltanto perché c’è  interdipendenza.
Nella filosofia occidentale c’è una tendenza, si è detto tante volte, a identificare persona e sostanza e a considerare  la sostanza come una sorta di entità chiusa in se stessa. Se questa è la nozione di sostanza, penso che un’ontologia di tipo sostanzialistico non solo meriti di essere guardata con sospetto, ma semplicemente debba essere rifiutata. 
Si deve dire chiaramente che la persona umana è qualcosa di relativo, non di assoluto, e nella misura in cui l’idea di sostanza può portare a un’idea di un’entità chiusa su se stessa, deve essere abbandonata. Pensare però la relatività della persona non vuol dire soltanto vedere la  sua relatività nei confronti degli altri, ma innanzitutto la relatività nei confronti dell’Altro. Il punto fondamentale è questo. Già San Bonaventura faceva consistere la persona in una relazione e caratterizzava questa relazione come un principium originale, e S. Tommaso, in maniera ben diversa da Aristotele - che nella sostanza vedeva l’essere che è sufficiente ad esistere separato - vedeva le cose che escono da Dio, definendo la creazione emanatio totius esse. La stessa  autosufficienza divina nei confronti dell’umano che entrambi presupponevano non significava per loro assenza di relazioni, ma solo che Dio è libero di relazionarsi o meno (a differenza dell’uomo che non può non essere in relazione) senza mai esaurirsi nelle relazioni che instaura in quanto ne è il fondamento. Di più: il dogma della Trinità, che per loro era con l’Incarnazione il centro del Cristianesimo, portava la relazione nella stessa sostanza divina.
Io credo che, quale fondamento del dialogo, non ci sia soltanto l’interdipendenza fra gli uomini: credo che tale interdipendenza sia innanzitutto nell’orizzonte della dipendenza dall’Altro.
È chiaro che il mondo può essere vissuto in due modi. Il Samsara può essere vissuto più profondamente e, pur restando nel Samsara, si può vivere il Nirvana. Voglio dire che l’interrelazione può configurarsi in maniere diverse, a seconda che la libertà con cui mi dispongo si riferisca o meno a un fondamento che trascende la libertà stessa: la relazione è necessaria, la modalità della relazione è libera.
L’interrelazione deve essere intesa correttamente. Quando vi parlo, non è che qualcosa parta da me arrivi a voi che a vostra volta reagite e così via… Fin dall’inizio in un certo senso voi agite su di me che predispongo il mio discorso, e prima ancora che io parli agisco su di voi che vi disponete ad ascoltarmi.
Nell’atto stesso in cui penso quello che vengo formulando, presuppongo che voi mi intendiate ed eventualmente mi critichiate; quindi sono già relazionato a voi, come voi siete relazionati a me nell’atto in cui sentite. Ma perché possiamo, intendendoci, giungere a una comprensione comune? Secondo me perché l'interdipendenza che ci unisce dipende da qualcosa di più radicale ancora, la verità.
La verità non è qualche cosa che si può definire, essa è ciò che genera la vita. Tutto quello che in questo momento sto dicendo, lo dico perché c’è in me un’esigenza di verità, che indirizza la mia relazione nei vostri confronti; e voi che mi leggete e che anche eventualmente siete pronti a contraddirmi, lo potete fare perché anche in voi c’è un’esigenza di verità.
La verità è l’orizzonte comune in cui la relazione di interdipendenza fra gli uomini può sussistere e la dipendenza dalla verità è la dipendenza ultima dell’uomo. Il fatto che la verità non si lasci definire indica il suo non essere mai un dato. Essa è sempre sorgiva di vita, non può essere catturata, non l’abbiamo a disposizione ma sempre va cercata.
Ecco quello che muove ogni nostra ricerca: un’esigenza di verità.
Ciò che in modo mai soddisfacente indichiamo col concetto di tolleranza può essere meglio inteso in termini di verità e libertà.
Quando si ritiene che la religione riguardi problemi come il sacro e il profano o il puro e l’impuro ma non la verità, si afferma qualcosa che difficilmente può accontentare una persona che viva un’esperienza religiosa.
In realtà, come abbiamo visto, il Cristianesimo ha una pretesa di verità, e altrettanto penso  il Buddhismo. Ma secondo me la verità dobbiamo pensarla in un nesso inscindibile con la libertà. Dobbiamo cioè pensare che non c’è libertà senza verità e non c’è verità senza libertà.
Non c’è libertà senza verità perché una libertà che non si subordina alla verità cade nel puro arbitrio. Pensate a Dostoevskij, che ha detto in maniera icastica: “Il puro arbitrio porta all’anarchia e al dispotismo”. Cioè una libertà che nega la sua vocazione alla verità si apre alla schiavitù. Ma non c’è neanche verità senza libertà, perché una verità che si imponga decade da verità, si riduce a mera forza materiale, e quindi distrugge se stessa. Bisogna tener ferme insieme la verità e la libertà: dietro il problema della tolleranza credo ci sia questo.
Diceva ancora Dostoevskij: ”Se Dio non c’è, tutto è possibile”.
Cosa voleva dire? Apparentemente oggi è vero il contrario: verrebbe da dire che, se Dio c’è, tutto è possibile. Pensate quanti sgozzamenti nel mondo sono stati fatti nel nome di Dio e quanti ancora se ne fanno. Ma allora dobbiamo cercare un senso più profondo. Dostoevskij voleva dire questo: se Dio non c’è, cioè se non si riconosce nell’uomo qualcosa di divino, i rapporti fra gli uomini non possono che essere strumentali. Questa è la grandezza delle religioni: rompere la catena della strumentalità, legati alla quale altrimenti saremmo costretti a vivere.
La globalizzazione non ha soltanto aspetti positivi ma anche negativi: e tra questi innanzitutto il trionfo della ragione strumentale su scala planetaria.
Tutte le religioni potrebbero trovare qui il loro punto di partenza comune, nella difesa dell’uomo dal dominio della ragione strumentale. Proprio perché tutte le religioni muovono da questo presupposto: che l’uomo non si risolve completamente nel mondo, ma ha in sé qualcosa di divino.
Forse questo è il punto d’incontro da cui muovere per un nuovo ecumenismo.
Prego di prendere questo mio discorso non come un insieme di proposte risolutive  ma come un primo accostamento ad una problematica la cui complessità mi appare sempre maggiore, che vuol mettere in campo qualche elemento di discussione.


Il testo riproduce l’intervento tenuto nel convegno
Identità e interdipendenza: visioni molteplici di un mondo interculturale, svolto a Torino nel maggio 2005, ed è stato pubblicato sul n. 2 di Interdipendenza, del febbraio 2006.

 

[1] Il problema  dei rapporti con dell’Islam  deve essere posto a parte, ma esula  dalla problematica di cui ci stiamo occupando.

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