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Segno di contraddizione

Stalin Chiesa ortodossaNovant’anni fa, nel 1927, dopo dieci anni di persecuzione totale, il capo della Chiesa ortodossa russa aveva firmato una dichiarazione di lealtà al governo che suscita ancora oggi dilanianti contrasti. Fu saggio o fu un tradimento?

Quasi un secolo è passato dal momento della pubblicazione della Dichiarazione del metropolita Sergio (Stragorodskij), che di fatto era il capo della Chiesa ortodossa russa all’epoca. Ma quell’atto si trova al centro, anzi al cuore delle discussioni sulla sua scelta.
Due punti di vista, fermi e inconciliabili, si sono affermati. Quello ufficiale, espresso chiaramente dal momento in cui la Chiesa ha potuto parlare con la propria bocca (e non più con quella della Stato) afferma che il gesto del metropolita Sergio ha salvato la Chiesa russa dalla distruzione totale (così, il patriarca Kirill nella sua dichiarazione del 29 luglio 2017). L’altro dice invece che il documento di Sergio fu il bacio di Giuda alla Chiesa di Cristo.

Questa seconda reazione nacque già all’indomani della Dichiarazione, nella quale si prometteva lealtà assoluta allo Stato deicida, perché fu giudicata come una grave eresia ecclesiale.
Tanti vescovi, chierici e laici ruppero la comunione con il metropolita creando Chiese clandestine che ricevettero subito il nome di «non-commemoranti», poiché avevano smesso di menzionare il nome del loro capo durante le celebrazioni, non volendo appartenere alla Chiesa «sergiana». Alcuni scesero nelle catacombe, dove presto o tardi la polizia segreta li avrebbe scoperti ed eliminati. Pochissimi tra di loro finirono i propri giorni nelle loro case, quasi tutti furono fucilati o passarono lunghissimi anni nei campi di concentramento.
Ma anche la Chiesa legale, cioè quella registrata dallo Stato con un salvacondotto provvisorio, era praticamente condannata; delle decine di migliaia di chiese e cappelle esistenti nell’impero russo all’epoca della rivoluzione del 1917, soltanto qualche centinaio era ancora aperto al momento dell’attacco della Germania all’URSS, nel 1941.
Il tradimento non paga, dicevano gli oppositori a Sergio: tu hai voluto salvare la Chiesa a prezzo del suo disonore, ed hai avuto insieme il disonore della rovina della Chiesa.

Queste due posizioni esistono anche oggi. Anzi, sono più attuali che mai.
Perciò, oltre alla grande Chiesa patriarcale, esistono delle chiesuole piccole ma abbastanza influenti, che rappresentano «l’ortodossia vera». Sulla carta d’identità dell’ortodossia vera e pura è scritta la condanna della dichiarazione del 1927. Ma sta scritto anche il rigetto assoluto di qualsiasi ecumenismo, che è culminato nell’incontro del patriarca Kirill con papa Francesco.

Proviamo a riflettere, però, su questa controversa Dichiarazione, a prescindere dalla condanna di chi non vuole vedere altro che la totale apostasia, o di chi ne fa l’apologia senza se e senza ma, e insiste nel ritenere che la decisione del metropolita Sergio fosse l’unica possibile.
Né l’una né l’altra posizione concede molte sfumature.
Vediamo dunque la Dichiarazione nel contesto storico più vicino.

Certo, essa proclamava una lealtà senza alcuna dignità, cioè la sottomissione illimitata della Chiesa di Cristo allo Stato nemico di Cristo.
La frase che provocò l’indignazione più forte era quella sul patriottismo sovietico: noi vogliamo essere ortodossi e difensori della nostra patria civile, le cui gioie sono le nostre. «Ma le loro gioie sono la distruzione delle chiese e la guerra contro Dio – reagirono i critici della Dichiarazione – e tu ci inviti a condividerle?». «Con il pretesto di salvare la Chiesa il metropolita ha cercato di salvare se stesso. Ma davvero la Chiesa si salva con i peccati ed i tradimenti dei suoi capi?».

Che il metropolita volesse salvare la propria vita è più che vero: firmò quell’atto di resa allo Stato dopo tre brevi arresti. Non c’era nessun dubbio che il rifiuto di firmare la Dichiarazione (scritta verosimilmente non da lui solo, ma con l’aiuto dei suoi custodi della polizia segreta) sarebbe stato la fine certa della sua vita, come accadde a tanti altri dignitari della Chiesa (alcuni di loro furono allora liberati per un breve periodo dalla prigione) che oggi sono solennemente canonizzati come martiri dalla Chiesa russa.
L’accusa di debolezza personale emerse più frequentemente nella Chiesa russa ortodossa all’estero, i cui vescovi abbandonarono le loro diocesi durante la guerra civile, giustamente preoccupati per la propria sorte personale. Dieci anni fa, tuttavia, la Chiesa all’estero (che tante condanne aveva lanciato) si è riunita alla Chiesa di Mosca, mentre una minoranza irriducibile non ha seguito la maggioranza, «complice nel tradimento sergiano».

Il termine «sergianesimo» è usato in segno di disprezzo dai duri nei confronti dei deboli. Ma, molto di più, il «sergianesimo» è la linea generale seguita dal Patriarcato di Mosca nei confronti dello Stato dal 1927 fino ad oggi, 2017.
Certo, la Chiesa ufficiale nega di dipendere strettamente dallo Stato, ma nessuno prende troppo sul serio questa negazione.
La Dichiarazione stessa fu adottata nel 1927 dopo dieci anni di persecuzioni, nel momento cruciale dello scisma dei cosiddetti «innovatori» e riformisti (sostenuti provvisoriamente dalla polizia segreta), che avevano minacciato realmente di corrompere la fede ortodossa; si era in pieno periodo della NEP (la Nuova Politica Economica, che aveva concesso piccolissimi spazi di libertà), ed era difficile prevedere che la NEP stessa sarebbe stata strangolata da lì a due anni da Stalin. All’inizio degli anni Trenta si scatenò una nuova ondata di micidiali persecuzioni che, se paragonate alle persecuzioni degli anni ’20, si presentano come la «soluzione finale» rispetto a un comune pogrom.
Una cosa che il metropolita Sergio ottenne parzialmente fu la vittoria sulle Chiese scismatiche, che non erano sostenute dal popolo e che poi furono abbandonate anche dallo Stato. In questo senso non giudicherei la Dichiarazione troppo severamente.

Ma, ahimè, il testo era solo un pretesto. Fu come un filo strappato dalla trama, che poi fa sì che tutto il vestito cominci a disfarsi.
Nel 1930 il metropolita Sergio, mentre migliaia e migliaia di chierici erano in carcere o erano già stati fucilati, in un’intervista (naturalmente imposta) a un giornalista straniero dichiarò a chiare lettere che nell’URSS nessuno era mai stato arrestato a causa della fede, ma soltanto per crimini politici. Formalmente era vero: tra le centinaia di migliaia di cristiani perseguitati, nessuno – nessuno! – veniva condannato solo per motivi religiosi, ma sempre per la partecipazione a pseudo-complotti contro il potere sovietico e il compagno Stalin in persona. Ma la negazione pubblica dei martiri non è una semplice debolezza umana, è già un grave errore ecclesiale.

La Chiesa non aveva il diritto al silenzio; sino alla fine del regime la sua posizione rimase irremovibile nell’affermare che non c’era mai stata alcuna persecuzione da parte dello Stato amico. Ma quando tutto è crollato, subito sono stati proclamati santi i primi martiri e confessori della fede (adesso sono 1500 circa e questo è solo l’inizio).
Poi, le persecuzioni di massa si fermarono nel 1943, quando venne la «rinascita staliniana», seguita da una nuova persecuzione chruščeviana, quest’ultima non sanguinaria ma implacabile… La Chiesa, nelle persone dei suoi più alti dignitari, tuttavia, ha confermato tantissime volte il proprio stato di dipendenza totale, trovandovi molti vantaggi e comodità. A caro prezzo, però: quello di dover collaborare in modo aperto, ma anche segreto, con i nemici della Chiesa.

Non credo che attualmente la situazione sia cambiata in linea di principio: oggi lo Stato e Chiesa sono diventati praticamente inseparabili, condividendo le stesse «gioie» patriottiche, compresi la benedizione ostentata dei missili e il sostegno di tutte le guerre attuali.

Novant’anni sono passati, ma il problema del «sergianesimo» come segno di contraddizione per l’ortodossia russa d’oggi è lontano dall’essere risolto.
E non può essere risolto senza un profondo esame di coscienza, senza una dolorosa crisi nel rapporto con lo Stato, senza la rinuncia ad alcuni privilegi, benefici e ricchezze. Ma neppure senza la rabbia, senza il perdono e senza la purificazione della memoria, grazie alla quale potrà diventare finalmente una Chiesa libera e fedele alle proprie radici evangeliche e patristiche.

Articolo pubblicato su La nuova Europa il 23 agosto 2017. Lo ripubblichiamo per gentile concessione dell’autore

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