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Rivoluzione e Cristianesimo, due opposte religioni

FlorenskijRussia 1917: punto di snodo in cui si fronteggiano due religioni.
Tali sono in effetti il Cristianesimo e la Rivoluzione, come afferma Berdjaev che le ha conosciute entrambe dall’interno. Egli sostiene che il popolo russo è religioso per natura e continua a cercare Dio anche quando predica il comunismo materialista: la somiglianza tra la santità rivoluzionaria e quella cristiana è la somiglianza tra l’Anticristo e Cristo. E lo diceva già prima Dostoevskij: “di che cosa ragioneranno [i giovani russi] in questa osteria, in quel breve attimo che hanno colto a volo? Dei problemi universali, non di altro: esiste Dio, esiste l’immortalità? E quelli che non credono in Dio parleranno di socialismo e anarchia, del modo in cui rifare l’umanità intera secondo un nuovo modello; ma, insomma, è sempre la stessa diavoleria, sono sempre gli stessi problemi, solo che sono presi da un altro verso.” (da I fratelli Karamazov”)
Dostoevskij, profeta lucidissimo, aveva anche previsto l’orrore a cui avrebbe portato qualsiasi costruzione umana senza Dio, l’orrore del palazzo di cristallo, così attraente a prima vista, in cui nessun uomo avrebbe in realtà mai potuto desiderare di vivere.

Russia 1917: un anno denso di avvenimenti come pochi nella storia, un susseguirsi vorticoso di vicende che da tempo attendevano il momento opportuno per esplodere.
Esigenze che agivano sotterranee ora finalmente possono uscire allo scoperto e dare vita ad una società totalmente nuova di carattere materialista, ateo. Contemporaneamente, in direzione opposta, affiora l’energia di un fervore religioso rinnovato, dopo essere stato a lungo svilito da un passivo asservimento all’impero.
Due linee in direzione totalmente opposta: la prima con drammatico e, in termini temporali duraturo, successo, la seconda fatalmente destinata al martirio. Questo se ragioniamo in termini superficiali, ma ad uno sguardo più profondo, risulta subito chiara la differenza tra ciò che è perenne e ciò che è effimero. Ciò che ha avuto successo nell’immediato, ed è durato anche troppo, ha finito inesorabilmente per ripiombare nel buio;  ciò che in apparenza è stato sconfitto è rimasto vivo sotto la cenere. È “Luce senza tramonto”

[1]Una Chiesa rinnovata, anche nei fatti esteriori, di cui sono segno evidente la convocazione del Concilio e l’elezione del Patriarca.
Sono trascorsi quasi due secoli dall’abolizione del Patriarcato con la riforma di Pietro il Grande del 1721. Pietro il Grande, affascinato dal modello tedesco-luterano, aveva sostituito il Patriarca con un funzionario statale laico, incaricato di presiedere il Santo Sinodo: insomma, aveva decretato che la Chiesa, comunque assai debole già di suo, fosse totalmente sottomessa allo Stato.

Una Chiesa finalmente rinnovata soprattutto nel profondo: ora che si avverte l’odore della repressione, essere cristiani acquista un significato di forza e autenticità.
Significativa e coraggiosa la processione ecclesiastica guidata nel gennaio 1918 dal Patriarca Tichon a Mosca e in moltissime città in segno di protesta contro le misure antireligiose.
Una Chiesa a lungo compromessa per la sua sottomissione al potere politico può e deve affermare la propria forza nell’accettare il fardello della libertà, per fronteggiare un potere con una faccia assolutamente nuova che alla religione dichiara apertamente la sua inimicizia.

Fin dall’inizio, una vera guerra. Una guerra che registra da subito i suoi martiri.
I primi per iniziativa spontanea di Guardie Rosse che agiscono in obbedienza al precetto per cui chi appartiene alla Chiesa è per definizione nemico della rivoluzione. Padre Joann Kočurov, probabilmente il primo martire a novembre del 1917, e poi Padre Pëtr Skipetrov nel gennaio del 1918, ucciso addirittura mentre cerca di proteggere dalla lapidazione i soldati che assaltano la Lavra Alexandr Nevskij a Pietrogrado: può una testimonianza essere più cristiana di così?
E poi la programmazione dall’alto, fino all’assurdo piano quinquennale staliniano finalizzato ad estirpare ogni traccia di religiosità in Unione Sovietica. Ufficialmente non ci sono condannati per motivi religiosi, sempre e solo in quanto “nemici della rivoluzione”.

Vale la pena ricordare che già i primi provvedimenti dei bolscevichi mostrano chiara l’intenzione di distruggere proprio quelle istituzioni che si pretendono, con più di qualche buona ragione, naturali ed eterne: la famiglia e la Chiesa, in un’ottica di frantumazione che è condizione obbligata all’organizzazione di un regime totalitario.
Naturali ed eterne: non potrà certo annientarle una legge umana, necessariamente transitoria, che per un po’ magari funzionerà, facendo un sacco di danni. È cosa impressionante e anche inquietante.
Difficile non fare un parallelo con ciò che accade oggi, non così apertamente, ma in modo subdolo, il che è anche più pericoloso, con un incessante tam tam che intende far passare per “progresso” il graduale affermarsi di un mondo con legami familiari sempre più fragili e fluttuanti e con una religiosità sempre più ridotta a fatto privato se non a ridicola superstizione.
Ieri come oggi. È l’annosa questione dell’Anticristo, sempre così presente nella cultura russa e che da noi faremmo bene a non ignorare. L’Anticristo è bello e inganna: è simile a Cristo. Occorre  guardarlo bene da vicino, guardarlo negli occhi, per riconoscerlo. E occorre osservare i suoi seguaci: sono masse, confuse, indistinguibili, seguono l’onda nera senza riflettere. Il cristiano regno della libertà è ben altra cosa.

Un legame strettissimo unisce religiosità e rivoluzione.
Non è certo un caso che molti grandi della spiritualità russa, quasi sempre costretti all’esilio (Berdjaev, Bulgakov  tra i molti) siano stati in gioventù affascinati dal clima rivoluzionario-marxista. Una vera e propria conversione, la loro, da rivoluzionari a Cristiani. Mai in direzione opposta. A meno di voler considerare conversione l’adesione di massa ai movimenti rivoluzionari: impensabile. La conversione è fatto individuale, meditato, soprattutto libero. Una massa non si converte, tuttalpiù segue l’onda di un movimento superficiale che ignora le proprie profondità. E questo fa pensare…o no?

Un caso decisamente a sé è quello di Florenskij, fucilato nel dicembre del 1937, insieme a circa cinquecento altri “Testimoni”, colpevoli unicamente di essere uomini di fede.
Sono trascorsi esattamente 80 anni dal suo – e dal loro – martirio: lo vogliamo ricordare oggi con particolare commozione.

Per Florenskij nessun esilio e nessuna conversione.
È vissuto accanto alla rivoluzione come se non ci fosse, sapendo bene che c’era. Ha proseguito la sua strada di padre di famiglia, sacerdote e grandissimo scienziato.
Cristiano prima di tutto. Incurante di un regime che lo avrebbe sfruttato all’inverosimile e poi ucciso: non certo per ingenuità, aveva ben chiaro il pericolo. Genio assoluto, ha lavorato, insegnato, portato a termine importanti ricerche, accettato ruoli pubblici, presentandosi sempre e ovunque con l’abito talare.
La sua fatica, lungi da poter essere considerata collaborazione con il regime, denota uno sguardo che va ben oltre il presente e risponde ad una naturale vocazione ad operare per la crescita dell’uomo nella storia. Il buio passerà, la luce della Verità è eterna. Certo, quel buio è durato tantissimo ed ha fatto numerosissime vittime.

Era la Pasqua del 1918, appena all’indomani della Rivoluzione, quando Pavel Florenskij teneva a Mosca, a pochi passi dal Cremlino, una serie di lezioni sulla Filosofia del culto[2].
Un atto di coraggio straordinario, come straordinario è il fatto che le aule fossero affollatissime, e non si trattava solo di studenti: quasi un enigma. Non è di poco conto che si tratti di lezioni, quindi di parola non solo scritta – anche scritta per fortuna nostra - pronunciata pubblicamente, coraggiosamente, e non è di poco conto che ciò si sia verificato nel 1918. Vale anche la pena riflettere sulla partecipazione affollata, quando già era ben chiara a tutti la strada fortemente antireligiosa e di ateismo “obbligatorio” che la Russia stava imboccando. Sembra di percepire il desiderio di abbeverarsi un’ultima volta ad una fonte che di lì a poco sarebbe stata sbarrata. Inutilmente, tra l’altro, come la storia ha finito per mostrarci, ma a costi altissimi.

Quella di Florenskij è una testimonianza di fede in Cristo eccezionale: sempre in termini positivi come affermazione, mai opposizione, mai contro, e non certo per viltà o per opportunismo.
La lunga prigionia ed il martirio parlano chiaro. Semplicemente la modalità dello scontro non appartiene a chi vive il Vangelo con autenticità. La sua è la Resistenza forte di chi sa di essere nella Verità sicuro che alla fine la Verità rimane.

Pensando al martirio di Florenskij, non può che commuovere la lezione dedicata ai “Testimoni”[3]. Ne proponiamo qui di seguito una pagina.

Da “La filosofia del culto” di Pavel Florenskij

“Sì, il martire testimonia ciò che suo non è, che da lui non viene, e non di propria iniziativa. A condurlo al patimento, allo spargimento di sangue e alla morte, è la verità che gli sta obiettivamente dinanzi e che l’atto eroico esige irrevocabilmente da lui. Pertanto, il sangue del martire, la sua morte, sono espressione non di una volontà né di una determinazione soggettiva, per quanto belle e nobili, ma della forza di una realtà spirituale oggettiva che non permette al martire di non farsi testimone. Il martire dà, sì, testimonianza con la sua parola, ma a testimoniare la verità non è la parola del martire – in sé e per sé persino priva di peso -, bensì il suo sangue che – materialissimo – è un fatto della realtà di cui non si può non tener conto, è un fatto indiscutibile, che già di per sé proclama l’esistenza di una qualche forza potente che trascina con sé – e addirittura alla morte. Le parole che il martire pronuncia, invece, palesano, spiegano, scompongono la voce tonante, ma non sufficientemente chiara, del suo sangue. Non è il sangue a confermare le parole, essendone una propaggine esterna, ma sono le parole a spiegare il sangue, essendo già in esso contenute. Non vengono prima le parole e poi il sangue, ma c’è semplicemente il sangue, nel quale le parole sono contenute e dal quale – come effluvio – si leva la testimonianza. Così, per la somma dei significati delle sue radici e mettendo insieme quanto detto, nel cristianesimo la parola martire indica chi è spinto dalla forza della verità a lui nota a renderle testimonianza vincendo l’errore e – lottando per la vittoria – a ricevere il martirio e la morte. Il martirio è dunque il sangue che parla della verità.

 

 

[1] Bulgakov in “La luce senza tramonto” cita da A.S.Chomjakov, Canto della sera: Signore, la nostra via è tra pietre e spine,//La nostra via è nelle tenebre.//Tu, Luce senza tramonto,//Illuminaci

[2] Lezioni raccolte nell’opera “La filosofia del culto” a cura di Natalino Valentini, tradotto da Leonardo Marcello Pignataro, 596 pagg, ed. San Paolo 2016), pubblicata precedentemente, postuma e soltanto in russo, nel 2004.

[3] “La filosofia del culto” op. cit.

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