L'arpa birmana

Scritto da Bhante Dharmapala (Claudio Torrero).

 
Può essere significativo rivedere oggi questo film del 1956: un film di un autore, Kon Ichikawa, della grande cinematografia giapponese, a suo tempo premiato a Venezia.
La trama è presto detta. Sta finendo la seconda guerra mondiale, siamo tra i soldato giapponesi che si arrendono agli inglesi in Birmania. Uno di essi, Mizushima, non tornerà in patria, perché si sente chiamato a dare sepoltura ai cadaveri dei suoi commilitoni lasciati abbandonati sul terreno. Un atto di pietà che vuole riparare le ferite della guerra.
È naturalmente un film che si lascia immediatamente leggere come un grande inno alla pace. Da uno dei Paesi sconfitti, nel quale l’etica militare era stata condotta alle estreme conseguenze e la cui resa fu ottenuta solo con la bomba atomica, prende forma un sentimento di amore profondo per l’umanità, che rende la guerra non più concepibile.
Sotto un altro aspetto, tutt’altro che incompatibile col primo, può essere inteso come un film religioso. Il protagonista prende a indossare abiti monastici: dapprima in modo strumentale, per dissimularsi sul territorio e potersi ricongiungere coi suoi compagni, poi sempre più identificandovisi. Entrato in Birmania con un esercito invasore, guidato dall’intento di strapparla agli inglesi, vi rimane compenetrandosi con essa. Il tramite che lo consente è la comune impronta buddhista. E sotto questo aspetto L’arpa birmana è un manifesto struggente di ciò che del Dharma è sul piano etico il frutto più prezioso: la compassione. Mizushima avverte intensamente in quei soldati morti una sofferenza universale di cui sente di doversi prendere cura.
Sotto questo stesso aspetto, a un altro livello, il film può essere dunque letto come una vivida rappresentazione della vocazione spirituale. Il protagonista avverte con certezza di essere chiamato a un compito che mai avrebbe immaginato, che lo separa dai suoi compagni e dalla sua stessa patria. Si incammina su una strada solitaria, difficilmente comprensibile dall’esterno, che tuttavia lo ricongiunge con un piano più profondo delle relazioni umane e cosmiche.
Sotto un altro aspetto ancora, nuovamente tutt’altro che incompatibile coi primi due, si potrebbe oggi vedere nell’Arpa birmana una metafora di questi nostri giorni. Così come i compagni di Mizushima tornano in Giappone con l’umanamente comprensibile scopo di ricostruirlo dalle devastazioni della guerra, anche oggi, nei giorni della pandemia, per lo più si attende che la pandemia cessi e consenta di tornare come prima. Come Mizushima dovremmo però avvertire che le forze distruttive di cui il contagio odierno è manifestazione, non meno devastanti di una guerra e in qualche modo apparentate a essa, richiedono di essere placate da atti riparativi paragonabili ai suoi. Anche oggi vi sono del resto morti, non proprio insepolti ma che si congedano in solitudine e le cui esequie sono frettolose e asettiche. E poi comunque masse di feriti gravi da soccorrere, tra quanti la crisi economica lascerà per strada senza realistiche prospettive di riassorbimento.
Riusciremo, come Mizushima, ad avvertire la chiamata?

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