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Questioni aperte

monacoIl testo di D. Ermis Segatti nasce in un contesto didattico: si tratta infatti della trascrizione di lezioni tenute al corso di laurea in Scienze Infermieristiche della sezione di Torino dell’Università Cattolica. L’intento originario era dunque di spiegare in modo chiaro, in un contesto essenzialmente cattolico, i fondamenti della dottrina buddhista, mostrando le differenze da quella cristiana. Solo nell’ultima parte il libro accenna ai nodi problematici del rapporto, consentendo di gettare lo sguardo su un territorio in fondo ancora in gran parte inesplorato.
Tenendo conto di ciò, il testo può dunque essere prezioso come base di un confronto che è senz’altro fra i più affascinanti del nostro tempo: un confronto che, insieme all’autore, sarei felicissimo di intraprendere. E insieme anche a Bruno Portigliatti, sulla cui lettura – del libro e del rapporto stesso fra le due tradizioni – ho avuto modo di riflettere.
A tale scopo mi limiterei a proporre due problemi di cui tenere conto, di non certo facile soluzione.

Il primo è che un cammino spirituale, tanto più se formalmente caratterizzato in modo molto diverso dal proprio, dovremmo a mio avviso cominciare a pensare che sia davvero comprensibile solo avendone esperienza dall’interno. L’involucro esteriore, compresi i testi, qualora siano letti al di fuori dei quell’esperienza, potrebbe anche essere fuorviante, fino a dare l’impressione di qualcosa di assurdo.
Un tempo, quando si era in fondo guidati dalla convinzione che il valore della propria fede comportasse il disvalore di quella altrui, questa difficoltà appariva immediatamente funzionale a un giudizio negativo su di essa. Mentre ora, che una tale convinzione sta venendo meno, non è tuttavia chiaro come la difficoltà possa essere superata.
E, attenzione, parlo di una difficoltà non solo a senso unico. Cioè non solo è difficoltoso da parte cristiana comprendere il senso dell’insegnamento buddhista, ma anche viceversa. Posso personalmente testimoniare che i maestri orientali non conoscono il cristianesimo, e non tanto perché ne ignorino gli assetti dottrinari, ma perché non ne colgono l’ispirazione profonda, pur essendone talvolta attratti intuendo qualche misteriosa affinità. Né più né meno dei teologi cristiani, i quali, pur animati dalle migliori intenzioni, non sanno per lo più come intendere un fenomeno apparentemente così atipico nella fenomenologia religiosa come il buddhismo per il semplice fatto di non coglierne l’esperienza viva.

Il secondo problema è che, data questa reciproca difficoltà di comprensione, quando si determinano le circostanze storiche di un contatto ravvicinato, ciascuna tradizione si sente più o meno in dovere di fornire un’immagine di sé all’altra; e tanto più quando debba contrastare una possibile egemonia culturale. Si tratta di un’immagine che, pur ovviamente riprendendo tratti preesistenti, viene a plasmare un’entità sotto certi aspetti nuova, entro la quale la precedente vicenda viene ricompresa. Un’immagine in cui l’originaria ispirazione potrebbe anche essere distorta.
In particolare è avvenuto che in epoca coloniale le tradizioni spirituali asiatiche, pur resistendo, a differenza di quanto avvenuto in Africa e in America, all’impatto del cristianesimo, si siano sentite indotte a giustificarsi rispetto alla fede che appariva dominante. Hanno così preso avvio processi culturali estremamente interessanti, che hanno dato luogo a esiti diversificati e sotto certi aspetti opposti.
Se ad esempio pensiamo a ciò che solo da allora ha cominciato a essere chiamato hinduismo, dobbiamo tenere presente che il cristianesimo ha rappresentato la seconda ondata, dopo quella islamica, attraverso cui la rivoluzione monoteistica generatasi nell’area del Vicino Oriente si è incuneata nel subcontinente indiano, declassando le precedenti tradizioni al rango di paganesimo. Ebbene, può essere comprensibile che abbia preso forma una risposta che combinava due tratti opposti: il rifiuto e l’azione mimetica.
Avviene così che, dall’ottocento a tutt’oggi, l’hinduismo presenti se stesso sia come rifiuto dei caratteri esclusivisti e intolleranti considerati tipici del monoteismo, quindi come alternativa globale a esso e alle civiltà che da esso si originano; sia, all’opposto, come monoteismo esso stesso, più universale, ricco e accogliente degli altri: dando per scontato che le molteplici divinità non siano che altrettante forme in cui l’unità del divino inesauribilmente si manifesta.
Diverso invece è quel che avviene per ciò che, sempre da allora, si comincia a chiamare buddhismo, a cui veniva da negare lo statuto di religione, mancando i tratti considerati imprescindibili per poterlo considerare tale, a cominciare da una considerazione del divino in senso proprio.
Ebbene, è altrettanto comprensibile che i suoi esponenti si siano avveduti che quei tratti erano in realtà in discussione proprio in Europa, dove si trovavano in pieno rigoglio i processi di secolarizzazione che andavano declassando la religione a espressione di un oscurantismo destinato a dissolversi per l’avanzare della mentalità scientifica. Veniva dunque bene a loro presentare la visione del Buddha come l’unica in grado di essere all’altezza di quella mentalità. Il buddhismo poteva vantaggiosamente presentare se stesso non come religione, bensì come “scienza della mente”, o comunque visione del tutto laica della condizione umana.
È così da allora abbastanza ovvio che gli occidentali considerino il buddhismo a questa stregua, così anche gli stessi buddhisti, sorvolando disinvoltamente su componenti indubbiamente religiose quando non addirittura sciamaniche, come nella tradizione tibetana. Tanto ovvia è questa immagine che ben poco viene da pensare quanto sia fedele al senso originario dell’insegnamento del Buddha.

Lasciando ora da parte l’hinduismo, per quel che riguarda il buddhismo, una sua più corretta interpretazione è in realtà subordinata a scelte culturali che i buddhisti stessi dovranno fare, in un contesto comunque diverso da quello dell’epoca coloniale.
Potranno confermare una sorta di rendita di posizione che sta indubbiamente contribuendo alla diffusione del Dharma in occidente e sull’intero pianeta, scommettendo sul fatto che i fenomeni di secolarizzazione siano destinati comunque a procedere, nonostante l’attuale reviviscienza religiosa. Oppure oseranno intraprendere una via meno agevole ma più autentica e nel lungo periodo più fruttuosa, accettando il confronto con ciò che è alla radice del fenomeno religioso in ogni sua manifestazione: cioè livelli dell’esperienza umana nient’affatto riducibili a quel che la moderna mentalità laica e scientifica riconosce.
Non potrebbe questa seconda via essere più vicina al senso originario dell’insegnamento del Buddha?

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